sabato 1 agosto 2009 - Damiano Mazzotti

Viaggio in Etiopia

“Viaggio in Etiopia e altri scritti africani” è un comodo libro formato taccuino che rappresenta un acquisto imprescindibile per qualsiasi giovane intenzionato ad intraprendere la carriera di giornalista (www.vallecchi.it, 2007).

L’autore è il grande giornalista e scrittore Curzio Malaparte “che, nell’autunno 1933, fu arrestato e condannato al confino dal regime fascista (fu denunciato dal suo “vecchio amico” Italo Balbo). Successivamente, grazie ad un’amicizia altolocata (Galeazzo Ciano) e alle sue doti artistiche, riuscì a riprendere la sua carriera di giornalista. Però gli fu proibito di usare il suo nome nell’esercizio dell’attività intellettuale fino alla fine del 1935 (utilizzò l’alias di Càndido e fu reintegrato nell’albo dei giornalisti a metà del 1936). Naturalmente fu espulso dal partito fascista e privato del passaporto, ma siccome il sangue degli italiani non mente, riuscì a ottenere dei finanziamenti governativi per una piccola casa editrice (Introduzione, Enzo R. Laforgia, p. 11)".

“Viaggio in Etiopia” raccoglie gli articoli di Malaparte scritti per il Corriere della Sera dal 4 maggio 1939 al 7 novembre 1939 (il suo viaggio si svolse sotto la sorveglianza di un funzionario di polizia delle Colonie). Questi sono alcuni dei titoli degli articoli: "L’africa non è nera", "Città d’Impero bianco", "La terra degli uomini rossi", "Il Cristo di Axum", "Le Dolomiti d’Etiopia", "Alle frontiere della tradizione bianca", "Nella Romagna d’Etiopia", "Nelle foreste del Goggiam", "Brigata coloniale in marcia", "L’assalto al bastione dei briganti" e "Nelle gole del Beresà".

Per fortuna la meravigliosa mano di uno dei più geniali pittori della parola riesce a rendere esteticamente armoniosa anche l’inevitabile retorica militare e fascista (“Fatto l’impero bisognava fare gli imperialisti”, Mussolini). La raccolta “Altri scritti africani” comprende cinque articoli scritti dal 1935 al 1941, tra cui il famoso e discusso “In guerra muoiono i migliori”. Gli altri sono: "Africa romana", "Abissini in Arezzo", "Etiopia paese cristiano", "Dei ragazzi d’Etiopia possiamo fidarci".

Comunque, quello che emerge da questi scritti, è l’implacabile provincialismo degli italiani che si portavano le loro piantine da casa per avviare le nuove coltivazioni (e non il the, il caffè o le spezie come accadeva per altri paesi europei). E ora vi riporto qualche passaggio per farvi comprendere meglio cosa riesce a fare un vero talento:

“L’aria ha il colore della pelle, è gialla, tutta bucherellata di pori larghi e grassi, screpolata di mille piccole rughe. E ogni tanto qua e là si spacca, mostrando rossi lembi di cielo, come carne viva”, “le pallottole intorno fan sbocciare tra l’erba piccoli fiori rossastri”.

“Sono i soliti cani abissini, tarchiati, bassi, di color fulvo, incrociati con gli sciacalli… I cani sono i primi a dare l’allarme, gli ultimi ad abbandonare i villaggi, appena i predoni si annunziano sul ciglio dei monti col fumo degli incendi. Anche al nostro apparire abbaiano con furia disperata e delusa. E non si acquattano se non quando il colonnello Lorenzini si accosta bonario ai preti e ai contadini, parlando con voce piana. Il colonnello ricambia le offerte di rito con doni in denaro per i poveri e per le chiese… Ma tuttavia resiste nel brontolio sordo dei cani un sospetto, un timore, un’oscura incertezza. Non per noi, forse, ma per le armi lucenti…” (p. 132).

“Ogni tanto qualche mulo delle salmerie, o qualche cavallo, precipitava rotolando giù per la parete: e v’eran dei punti dove ci toccava scender di sella e proseguire a piedi, aggrappandoci a pietre taglienti, ad arbusti spinosi, a ciuffi d’erba duri come lische di pesce” (p. 142).

E chiudo con la frase a conclusione della raccolta di scritti “Viaggio in Etiopia” per aiutare ancora una volta, chi volesse provare a catturare l’inconoscibile arte della scrittura: "gli Ascari accendono i fuochi del bivacco, e va per l’aria improvvisamente cruda un vento stanco, dalle ali fredde come quelle di un uccello morto” (p. 146).

P. S. Non riesco a non dedicare un piccolo pensiero ai poveri diavoli che si sono consumati le ossa nel costruire l’incredibile ragnatela delle strade etiopi, che ricopre anche i picchi montagnosi più impervi. E molti sono gli operai e i genieri morti precipitando nei numerosi e pericolosi dirupi.




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