martedì 23 maggio 2017 - Giovanni Greto

Uri Caine e il Quintetto di Dave Douglas al teatro Olimpico per Vicenza Jazz

Fa sempre piacere ritornare al teatro Olimpico di Vicenza, uno dei capolavori dell’architetto Andrea Palladio (1508-1580), il quale lo progettò pochi mesi prima di morire, non riuscendo a vederlo realizzato (verrà inaugurato nel 1583). La XXII^ edizione delle “New Conversations Vicenza Jazz” si è aperta con una doppia esibizione senza soluzione di continuità dalle 21 e 16 alle 23 e 22. Una decisione saggia, che ha da una parte annullato il numero degli spettatori che spesso si defilano tra la prima e la seconda proposta, dall’altra ha mantenuto intatta l’attenzione, evitando la lunga pausa tra un set e l’altro.

 (Foto: Simone Miele/Flickr)

Uri Caine, un amico e quasi un artista in residenza, come ha spiegato Riccardo Brazzale, il direttore artistico, nell’introdurlo, si è messo subito di buona lena alla tastiera, dando vita ad un “unicum” di 44 minuti, cui il pubblico, che riempiva il teatro in ogni ordine di posti, ha tributato alla fine scroscianti, generosi applausi.

Il pianista non ha voluto, giustamente, vista l’acustica della sala, che lo strumento fosse microfonato ed è subito partito in quarta. Un inizio scoppiettante con abbondante uso del pedale, percussivo, libero nel tempo, per poi passare ad una swingante improvvisazione che riportava al Jazz delle grandi orchestre. Continuando a fraseggiare, Uri ha iniziato una lunga serie di citazioni, a partire da ” ‘Round Midnight” di Thelonious Monk, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Una versione non mascherata, tuttavia originale, di un brano plurinterpretato da una lunga lista di musicisti, ognuno in maniera diversa. Da lì, un nuovo rimando alla “Swing Era” attraverso un affettuoso omaggio a Duke Ellington. Un’immersione nella lentezza di una ballad, anche per allentare la tensione e poi un dialogo classico/pop tra Mozart e i Beatles (“Blackbird”). E ancora, richiami al Jarrett degli anni ’70 e forse al primo Elton John.

Le incursioni si susseguono senza respiro. Bellissime le riproposizioni di “Nefertiti” di Wayne Shorter e del tema de “La stangata” che, vado a memoria, è un rag di Scott Joplin (“Maple leaf rag”, mi pare). Scioltissimo, velocissimo, bravissimo nel passare dall’iperforte al sottovoce, il tocco veemente e delicato, Uri avrebbe potuto proseguire per ore ed ore, senza che a nessuno passasse per la testa di controllare l’orologio. Riapparso sulla scena, per un breve bis, esegue ad andatura elevatissima “Autumn leaves”, conclusa con un’improvvisazione sempre piena di swing.  

 (Foto: Dave Douglas/Facebook)

Nemmeno il tempo di alzarsi dalla sedia, ecco entrare il quintetto di Dave Douglas. Sorprende il fatto che tutti i musicisti si presentino vestiti in completo nero, camicia bianca e papillon nero. Unica eccezione il pianista, completo nero sì, ma camicia e cravatta nere. Sembrava di essere in uno di quegli hotel di lusso, dove un’orchestra esegue del buon Jazz per distratti clienti vip. Douglas, di solito, si allontana volentieri dagli standards, mediante una scrittura originale, convincente, che mette a dura prova i propri partner. Penso al recente progetto “New Sanctuary”, visto in gennaio a Padova, all’interno della stagione del Centro d’Arte, con Marc Ribot, chitarra e Susie Ibarra, batteria. Mentre quel concerto mi aveva convinto per l’equilibrio fra i tre e la verve improvvisativa, questa specie di Mainstream aggiornato è scivolato via tranquillo, “senza infamia né lode”, per così dire, ma soprattutto senza alcuna emozione. Peccato, perché i musicisti erano tutti di grande valore. A cominciare dal giovane pianista cubano Fabian Almazanf, forse all’inizio intimorito dalla presenza di Uri Caine, amico di Douglas, il quale lo ha invitato a suonare il brano numero tre, un funky-soul carico e veemente.

Brano dopo brano, però, Fabian ha acquisito maggiore sicurezza, cosicchè ha potuto dimostrare la propria bravura tecnica attraverso improvvisazioni significative. Puntuale, incisivo, fondamentale nella sezione ritmica, il contrabbassista giapponese Nakamura Yasushi, si è ritagliato assolo convincenti, oltre ad introdurre il secondo e il brano finale. Una sonorità maestosa ed un timbro corposo sono due caratteristiche affascinanti del sorprendente sassofonista americano, ma di genitori filippini, Jon Irabagon, attento come tutti ad eseguire i numerosi stop, molto frequenti nella scrittura del leader.

Trascinante è il drumming di Rudy Royston, che predilige l’impugnatura timpanistica. Un drum set jazzistico, le pelli molto tese, tre piatti più un piccolo splash collocato rovesciato sopra il piatto alla sinistra. E tanta voglia di suonare sfociata in assolo con molti contraccolpi, rullate lungo i tamburi e un intelligente percussione sul bordo del rullante (”Rim Shot). Il leader ha mostrato la consueta perizia artistica, anche se la brevità dei brani ha spento, per così dire i motori, cosicchè il concerto non è decollato, come avviene nelle serate di grazia. Dopo aver magnificato lo splendore del luogo scenico, in una breve uscita tra un brano e l’altro, ha detto che nessuno dei musicisti, lui compreso, ha votato Trump. Per il bis ha richiamato Uri Caine, per dar vita ad un breve duo, memore di una collaborazione trascorsa, proponendo un brano forse di musica classica antica, azzardo “barocca”. 




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