venerdì 22 giugno 2018 - Phastidio

Un welfare per la gig economy? Guardare alle esperienze altrui

La fase di avvio del nuovo esecutivo è diventata la prosecuzione della campagna elettorale con altri mezzi e non poteva essere altrimenti, visto che parliamo di forze politiche che fanno del proiettile d’argento a problemi complessi un marchio di fabbrica, e sono quindi costrette a rilanciare a oltranza, appena la realtà tenta di andare a vedere le loro carte. Sui ciclofattorini e sui lavori della cosiddetta gig economypotrebbe esserci l’opportunità di riscrivere le tutele senza tentare di riprodurre l’Unione Sovietica o ripiombare il paese nella palude del sommerso.

Partiamo da quella che è l’obiezione di molti contro l’attività dei cosiddetti riders: sono lavori marginali, a valore aggiunto pressoché nullo. Chi argomenta a questo modo giunge alla inevitabile conclusione che “se un’azienda non riesce a pagare un salario di dignità ai ciclofattorini, meglio lasciarli chiudere per eccesso di oneri o vietare tout court la sua attività, perché essa non apporta alcun beneficio alla società in senso lato”.

Posizione interessante. Sembra postulare l’eliminazione di ogni attività a basso valore aggiunto; pare che in Italia ne abbiamo molte, e da sempre. Sfortunatamente, questo corso di azione non promuove lo sviluppo di attività a maggior valore aggiunto ma semplicemente spinge nel sommerso quelle basate su basse retribuzioni, che sono tali non per bieco sfruttamento. Ma forse, visto lo zeitgeist italiano, “prima i ristoratori italiani” ed i loro ciclofattorini pagati in nero, anziché le perfide multinazzzionali, con tante zeta.

E tuttavia, parliamo comunque di cose differenti: le piattaforme di consegna nascono per intercettare nuovi bisogni, frutto dell’evoluzione della società. La risposta non è tornare allo status quo ante né rifugiarsi nell’ipocrisia per cui “sono lavori vecchi, si fanno da sempre, è solo finta modernità quindi possiamo farne a meno”. Queste piattaforme sviluppano domanda ed offerta, non si limitano ad intermediare l’esistente.

Però è opportuno guardare anche oltre il caso specifico dei ciclofattorini: è verosimile che, dopo contrattazione, essi otterranno un miglioramento delle condizioni, ad esempio sul piano delle coperture assicurative, anche se non arriveranno a livelli da “posto fisso” che non avrebbero comunque, se solo fossimo realisti e non chiedessimo l’impossibile. Piuttosto, serve porsi il problema di come sostenere il reddito di chi lavora in attività a basso valore aggiunto, che per definizione non possono contare su retribuzioni elevate, né in senso assoluto né relativo.

Potrebbe quindi essere utile cambiare direzione al welfare, per integrare il reddito di chi rischia di essere un working poor ma senza inibire lo sviluppo di attività di servizi in attività a basso valore aggiunto. Potrebbe essere utile pensare ad integrazioni del reddito di chi lavora, come avviene in altri paesi. In questo modo si contrasterebbe anche la fuga verso il sommerso.

L’esperienza che mi viene in mente è quella statunitense con l’Earned Income Tax Credit(EITC). Si tratta di un credito d’imposta rimborsabile, quindi effettivamente erogato, per sfuggire alla trappola dell’incapienza, che negli Usa dipende dal reddito del destinatario e dal numero dei figli a carico. In pratica, si tratta di una integrazione allo stipendio in percentuale di quanto percepito, che cresce sino a raggiungere un tetto di reddito, superato il quale si stabilizza prima di iniziare il décalage, o phaseout, che lo porta a ridursi progressivamente fino ad azzerarsi.

Negli Stati Uniti, il programma è fortemente orientato alle famiglie di lavoratori con uno o più figli a carico, mentre il beneficio per chi non ha figli è molto contenuto. Ad esempio, nel 2017 una coppia di lavoratori con un figlio poteva ottenere una integrazione massima di 3.400 dollari annui, una con tre o più figli poteva arrivare a 6.318 dollari aggiuntivi, mentre un lavoratore senza prole poteva ricevere un extra di soli 510 dollari.

L’EITC è un istituto di welfare di contrasto alla povertà di chi lavora, pagato per prestazioni lavorative ufficiali, con effetti di disincentivo sull’offerta di lavoro nel complesso contenuti, anche per il secondo percettore di reddito di un nucleo familiare, e consente di aumentare la partecipazione alla forza lavoro, o almeno di trattenere persone entro la medesima.

Nasce come strumento per occupazioni a basso reddito, nel riconoscimento che questi lavori esistono e continueranno ad esistere, e la risposta non è la loro messa la bando né la fuga nel nero, soprattutto se si tratta di lavori che nascono per accompagnare cambiamenti demografici ed intercettare nuovi stili di vita. Non tutti gli occupati di un paese possono essere ingegneri aerospaziali ed in generale generatori di elevato valore aggiunto, del resto; senza contare quanti svolgono questi “lavoretti” solo per procurarsi una fonte di reddito occasionale.

Forse servirebbe una riflessione di questo tipo, quando si rimetterà mano al welfare per il lavoro, ed evitare rigidità che nulla risolvono, limitandosi a negare la realtà. Temo che quello che avremo, invece, saranno solo ulteriori rigidità che alimenteranno il sommerso, come la focalizzazione formalistica sul concetto di “lavoro subordinato”, in un paese che sta progressivamente perdendo basi imponibili, fiscali e contributive, anche per la tradizione socialista fallita della sua politica.




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