lunedì 17 marzo - La bottega del Barbieri

Un intermezzo sul cacao in Nicaragua

Considerato tra i 17 migliori al mondo, il cacao del Nicaragua ha visto il suo prezzo di vendita aumentare negli ultimi anni, anche in considerazione della diminuzione mondiale della produzione, specialmente da parte dei Paesi africani.

di Bái Qiú’ēn

Estaban sembradas sesenta hanegas de maíz, diez de fríjoles y dos mil de cacao, que es una fruta como almendras, que ellos venden molida; y tiénenla en tanto, que se trata por moneda en toda la tierra, y con ella se compran todas las cosas necesarias en los mercados y en otras partes. (Hernán Cortés, Lettera-relazione al re spagnolo Carlos V, 30 ottobre 1520)

Nella mitologia precolombiana della Mesoamerica, una delle tante leggende (di origine tolteca) narra che il saggio dio-re Quetzalcóatl rubò il cacao (cacáhuatl) agli dèi per donarlo agli esseri umani, affinché fossero bene alimentati. È perciò considerato un dono divino e, oltre agli usi alimentari (soprattutto come bevanda), era utilizzato come moneta corrente, tanto che il suo primo nome latino fu «Amygdalae Pecuniariae» (mandorla di denaro), sostituito verso la metà del Settecento con «Theobroma cacao» (cacao alimento degli dèi).

Per quanto sia assai comune il detto «el dinero no crece en los árboles», nell’epoca precolombiana e all’inizio della dominazione coloniale delle Americhe, era vero il contrario. Noto già 4mila anni prima di Cristo, in base a uno studio del settembre 2022 è stata smentita la concezione che questo alimento fosse utilizzato esclusivamente dalle classi alte della società precolombiana: sebbene in quantità minore (e spesso mescolato con maíz macinato) era alla portata di tutti gli strati sociali che lo consumavano dopo i pasti per le sue notevoli proprietà nutritive.

Il primo europeo che conobbe il cacao fu Cristoforo Colombo nel corso del suo quarto e ultimo viaggio: il 30 luglio 1502 lo “scopritore” del Nuovo Mondo fu accolto dagli indigeni dell’isola Guanaja (nell’attuale Honduras) con l’offerta di una jícara* di xocolatl (pron. sciocolatl), la bevanda sacra dei mesoamericani consumata essenzialmente nel corso delle cerimonie religiose. Il navigatore genovese però non prestò molta attenzione a questa bevanda, per cui questo seme giunse nel Vecchio continente grazie allo spietato conquistador Hernán Cortés, che osservò la sua preparazione alla corte di Moctezuma nella capitale azteca Tenochtitlán nel 1521. Lo stesso imperatore azteca gli donò un terreno coltivato a cacao e la ricetta per la preparazione della bevanda fu descritta per la prima volta dal missionario Bernardino de Sahagún nel suo voluminoso Historia general de las cosas de Nueva España, forse terminato nel 1569.

Parlano del cacao numerosi cronisti delle Indie occidentali, come Gonzalo Fernández de Oviedo, Toribio de Benavente detto Motolinia, Antonio de Ciudad Real, Pedro Mártir de Anglería e vari altri. Dalle loro cronache si apprende che il popolo dei tenochcas (che noi chiamiamo comunemente aztechi) realizzavano pure delle palline solide che potevano comodamente trasportare quando viaggiavano, per poi scioglierle in acqua calda per ottenere la loro bevanda. A tutti gli effetti erano le prime barrette di cioccolato, assai comuni soprattutto tra la classe dei pochtecas, i commercianti che si muovevano in tutto il territorio mesoamericano.

Quando il primo carico di semi approdò in Spagna verso il 1528 per iniziativa dello stesso Cortés, la cioccolata divenne una bevanda riservata ai regnanti e alla loro Corte, poi diffusasi tra gli altri monarchi, conquistando ben presto i nobili palati dell’aristocrazia europea. Il primo carico di cacao per uso commerciale giunse però in Europa soltanto nel 1585, proveniente da Veracruz e in poco tempo si trasformò in un lucroso affare per le potenze coloniali dell’epoca che decisero di farlo coltivare anche alle popolazioni africane per averne a disposizione quantità più elevate.

Chiunque abbia viaggiato in Nicaragua ha avuto l’opportunità di tomar pinol, bere pinol (o più comunemente pinolillo), bevanda tipica a base di maíz tostato e macinato finemente, già consumato in epoca precolombiana (denominata xocoatl, da non confondere con xocolatl). È una bevanda tradizionale e talmente comune che non a caso i nicaraguensi sono detti pinoleros: «Soy puro pinolero, nicaragüense por gracia de Dios» (Tino López Guerra, Nicaragua mía). Personalmente mi è sempre sembrato un bicchiere di sabbia annacquata, decisamente poco gustoso. Meno noto e meno consumato, ma senza dubbio più bevibile, è il tiste, la cui ricetta è simile a quella del pinol con l’aggiunta di una buona quantità di cacao in polvere.

Nella regione orientale di Chontales (tra il Lago del Nicaragua e la Costa Atlantica) un fiume e una località hanno la denominazione Cacaguapa, deformazione di cacáhuatl-apan (fiume del cacao o fiume dei campi di cacao**), indicando che nell’epoca precolombiana era una zona in cui si coltivava questo prodotto. Del resto gli indios chontales, originari dell’attuale Stato messicano di Tabasco, erano ottimi navigatori e si insediarono in numerose località dell’attuale America centrale (soprattutto in Belice e in Honduras), coltivando e commerciando vari prodotti tra i quali il cacao. Nel territorio attualmente denominato Nicaragua, la coltivazione del cacao iniziò verso il XII secolo, grazie alla migrazione di gruppi nahuatl verso il sud della Mesoamerica (la popolazione dei nicaraos). Anche attualmente, secondo gli agronomi, questa fertile regione del Nicaragua è ottima per la coltivazione.

Nel XVIII secolo il cacao nicaraguense era considerato di altissima qualità per il suo sapore, il suo odore, la facile lavorabilità e per vari altri motivi. Nel XIX secolo era riconosciuto a livello internazionale e lo si esportava in vari Paesi del mondo. Attualmente il Nicaragua ha un potenziale stimato in circa 350mila ettari idonei alla coltivazione, poiché il clima umido tropicale del Nicaragua presenta le condizioni ideali per la sua coltivazione.

Per la cronaca, coltivato in epoca coloniale soprattutto sul versante del Pacifico (León, Chinandega, Masaya, Rivas e Carazo), in Nicaragua il cacao fu utilizzato come moneta corrente (chiamata chilacate) fino al 29 marzo 1869, quasi cinquanta anni dopo l’Indipendenza. Nello stesso periodo, nella sola regione di Rivas esistevano ben 249 piantagioni di cacao. Nell’epoca coloniale, avendo gli spagnoli introdotto alcune monete, esisteva una vera e propria tabella di cambio: nel XVII secolo un real d’argento equivaleva a 200 grani di cacao.

Nel Comercial Directory of the american republics pubblicato dal governo statunitense nel 1898 si legge: «El cacao crece con abundancia en Nicaragua» (Washington, vol. II, p. 381). Nell’ottobre 1929 Sandino scrisse che «Nelle sue foreste o sulle rive dei fiumi si possono trovare canna da zucchero, banane, cacao e tanti frutti dal sapore squisito, tutti prodotti selvatici. (Con questi viene spesso mantenuta la nostra forza)».

Ciò nonostante la superficie attualmente coltivata a cacao è irrisoria: appena 23.800 manzanas nel 2023, ossia meno di 17.000 kmq (una manzana equivale a 0,7 ettari). Poiché il territorio nazionale è calcolato in poco più di 130mila kmq, equivale a meno del 14%.

Il cacao del Nicaragua è considerato tra i 17 migliori al mondo, con la possibilità di due raccolti annuali (maggio e ottobre). Il prezzo di vendita è decisamente aumentato negli ultimi anni, anche in considerazione della diminuzione mondiale della produzione, specialmente da parte dei Paesi africani (anche a causa del cambiamento climatico).

Per quanto molti imprenditori abbiano rinunciato ai progettati investimenti per la coltivazione del cacao a causa della instabilità del Paese dal 2018 a oggi, trasferendosi in altre nazioni dell’istmo, proprio nel periodo maggio 2023-aprile 2024 il Nicaragua ha comunque prodotto quasi 190mila quintali di cacao, per la maggior parte esportati con una entrata di oltre 11 milioni di dollari (circa 6 dollari al chilo). Internamente, una libbra di cacao non macinato costa al consumatore circa US$ 4 (grosso modo US$ 10 al chilo), un prezzo assai superiore a quello destinato all’esportazione e non certo a buon mercato per l’alimentazione dei nicaraguensi. È assai difficile trovare nelle loro dispense un vasetto con cacao in povere, accanto al maíz, al riso e ai fagioli. Ancora più raro è vedere un nicaraguense acquistare una barretta da 100 gr di cioccolato fabbricato artigianalmente in Nicaragua (con il 70% di cacao), il cui costo può variare tra i 5 e i 10 dollari. Roba da sciuri direbbe un lombardo. Oltretutto è spesso letteralmente immangiabile per chiunque ami il cioccolato, con un sapore indefinibile che poco o nulla ha a che vedere con quello che da noi costa circa 2 euro (sempre con il 70% di cacao).

Eppure una nota impresa tedesca di cioccolato con sede a Waldenbuch (non faccio nomi per evitare la pubblicità) con il cacao del Nicaragua (al 61%) da alcuni anni produce in Germania tavolette da 100 grammi eccezionalmente gustose che si possono acquistare in tutti i supermercati italiani a circa € 2,50 l’una: segno evidente che il problema non è la qualità della materia prima, bensì la lavorazione. Questa impresa con 400 dipendenti produce direttamente la materia prima in un terreno di quasi 3mila ettari ubicato in Chontales, a poca distanza da El Rama con criteri di agricoltura integrata che cerca di preservare e favorire la biodiversità. Ha inoltre costituito una specie di consorzio con una ventina di cooperative agricole (nelle quali lavorano oltre 4mila famiglie contadine).

Nel febbraio del 2019 la sempre sproloquiante Rosario ha esaltato questo cioccolato realizzato con cacao nicaraguense, quasi fosse un risultato ottenuto grazie al suo diuturno impegno personale: «Ci congratuliamo tutti per questo nostro cioccolato che trionfa in Germania. Andiamo avanti con fede e speranza e soprattutto confidando in Dio che incoraggia ogni giorno quello spirito, quell’atteggiamento e quella disponibilità al lavoro onesto della maggioranza del nostro Nicaragua». Questo nostro cioccolato… peccato che Waldenbuch non sia in Chontales, bensì nel Baden-Württemberg, al confine con la Francia e la Svizzera. Avesse almeno parlato di nostro cacao

Per quanto oltre 12mila famiglie contadine di piccoli produttori sopravvivano alla meno peggio grazie alla coltivazione del cacao, il Nicaragua importa ogni anno una notevole quantità sia di cacao in polvere (circa 3.000 tonnellate nel 2022, soprattutto dal confinante Costa Rica) sia di cioccolata (soprattutto dalla Svizzera).

Nella sua lettera del 1520 Cortés aveva elencato le superfici coltivate a maíz, fagioli e cacao nella zona di Malinaltepeque (nell’attuale Stato messicano di Guerrero): rispettivamente sessanta, dieci e duemila (una hanega o fanega equivaleva a mq 831). Per quanto potessero essere approssimate le superfici da lui indicate, è evidente l’importanza del cacao nella cultura e nella dieta dei precolombiani: nel periodo immediatamente anteriore alla Conquista, la coltivazione del cacao era comunque la più importante e diffusa in tutta la Mesoamerica.

Il cioccolato e il cacao sono noti in tutti i Paesi del mondo sia per il sapore gradevole sia per le proprietà energetiche. Un corpo umano necessita di almeno 2.000 Kcal al giorno e 100 grammi di cacao puro in polvere ne forniscono 380. Con i prezzi in vigore nel Nicaragua odierno è però assai difficile che nella propria dieta un nicaraguense possa ingerire cacao puro o cioccolata, non sostituibili da riso e fagioli: 100 gr di riso cotto forniscono circa 120 Kcal e 100 gr di fagioli circa 100. Con un piatto di gallopinto si riempie senza dubbio lo stomaco, ma in quanto a energia disponibile… è ben diversa da quella indicata da Cortés in un’altra lettera inviata ai regnanti spagnoli: «Da resistencia y actúa contra la fatiga» e aggiunse: «Una sola taza de esta bebida fortalece tanto al soldado que puede caminar todo el día sin necesidad de tomar ningún otro alimento». Nelle cronache dell’epoca della conquista sono molti i riferimenti al cacao e al cioccolato come potente agente tonificante (energetico e rivitalizzante) che dona una sensazione di benessere dopo averlo ingerito. È assai probabile che ai conquistadores mancasse parecchio la tradizionale paella, ma in quanto a calorie non potevano di certo lamentarsi.

Il protomedico delle Indie occidentali Francisco Hernández, che viaggiò in Messico dal 1570 al 1575, afferma che la bevanda denominata chocóllatl è «di grande beneficio per i tisici, consumati ed esausti» (Historia natural de la Nueva España).

Il modismo «pedir cacao» (chiedere cacao) è tuttora usato in Nicaragua come sinonimo di arrendersi, abbandonare la lotta, darsi per vinto. Tutte condizioni connesse con l’indebolimento della forza fisica (e psicologica): «Nuestro Ejército no está dispuesto a pedir cacao al enemigo y siempre hemos estado dispuestos a la muerte o a la victoria» (Augusto C. Sandino, Lettera a José Idiáquez, 10 agosto 1931).

Qualcuno tra i lettori avrà certamente sentito dai propri genitori o nonni che le truppe statunitensi giunte in Italia per combattere il nazi-fascismo, oltre alle sigarette regalavano barrette di cioccolata, da loro consumata abitualmente per combattere la stanchezza. Pure nel corso della guerra del Golfo del 1990-91 l’esercito statunitense fornì ai propri militari delle speciali barrette di cioccolato che potevano resistere alle alte temperature nel deserto iraqueno.

È pure risaputo che, oltre a combattere la depressione (il tipico «ando con nervios» dei nicaraguensi), il cioccolato fondente è un ottimo regolatore della pressione sanguigna e ha meno controindicazioni rispetto a qualsiasi medicinale chimico. I cronisti spagnoli rilevarono che il consumo di cacao contribuiva a rendere tranquilli e persino allegri gli indigeni del Nuovo continente: è ormai provato scientificamente che la Teobromina contenuta in questo genere alimentare generi oxitocina, stimolante dell’ormone dell’allegria. Tra le varie fonti dell’allegria enumerate in un recente opuscolo pubblicato dal Buon Governo orteguista, il cacao e la cioccolata non sono citati neppure di sfuggita, poiché per sentirsi bene è sufficiente ridere: «Ridere migliora la salute fisica; provare gioia riduce lo stress e rafforza il sistema immunitario» (p. 6).

Peccato che dopo 17 anni di Buon Governo i nicaraguensi abbiano poco da ridere.

Oggi, secondo un recente documento della FAO, circa il 20% della popolazione del Nicaragua è sottoalimentata e quasi il 30% non può permettersi una dieta equilibrata. Se nel periodo 2020-2022 le persone con accesso limitato alla alimentazione erano 1,3 milioni, tra il 2021 e il 2023 sono salite a 1,4 milioni. Il supposto Buon governo del comandante Daniel può anche espellere questo organismo internazionale (presente e operante nel Paese dal 1982), ma non per questo la realtà è destinata a migliorare. Anzi. Per quanto nel suo sproloquio del 13 febbraio 2025 Rosario abbia sostenuto che «In Nicaragua non esiste la fame. La povertà che ci hanno lasciato, è quella che combattiamo, e si combatte anche ogni menzogna, con determinazione, con coraggio, con ardimento, esigendo la decenza e l’integrità che è necessaria in ogni documento», mai è accaduto nella storia che negando o nascondendo un problema, questo scomparisse da un giorno all’altro.

La FAO non ha replicato alle accuse mosse dall’orteguismo, che si vanta di avere tra i suoi obiettivi principali lo sradicamento della povertà e quindi della fame. Traguardo che dovrebbe essere direttamente connesso al numero di abitanti, informazione ignota dopo dieci mesi dall’inizio del censimento nazionale e lo statale Instituto Nacional de Información de Desarrollo (INIDE) evita accuratamente di fornire qualunque dato al riguardo. Neppure ha comunicato se si è conclusa la visita in tutte le abitazioni del Paese (che doveva essere effettuata nel mese di maggio 2024).

Il cacao è denominato scientificamente «alimento degli dèi» ed è assai comune che i nicaraguensi parlino di «ambrosia», termine che nelle credenze mitologiche antiche indicava il cibo dell’immortalità (ἀμβροσία). A tutti gli effetti, però, è usato comunemente nel senso di «hambre», con un triste e ironico gioco di parole: «tengo mucha ambrosia», ho molto cibo degli dèi… ho parecchia fame.

Non è irrilevante notare che, oltre al programma «Hambre Cero», la FAO contribuiva in maniera sostanziale alla copertura dei costi per la «merienda escolar», fornendo alimenti nutritivi a 180mila bambini di 2.500 istituti scolastici e persino alle loro famiglie in condizioni più disagiate.

Che fine faranno gli oltre trenta progetti co-finanziati dalla FAO per il periodo 2022-2026 (con oltre 67 milioni di dollari) relativi alla «trasformazione con elevati standard qualitativi che contribuiscano a migliorare la redditività del raccolto e il reddito delle famiglie produttrici attraverso l’accesso a mercati più competitivi» (Estrategia nacional para el desarrollo del cacao fino nicaragüense)? Il sospetto (meglio: quasi una certezza) è che si limiterà a incontri, convegni, seminari e dotte conferenze in varie località «para incrementar la calidad del cacao fino y de aromas» come è accaduto a Siuna lo stesso 13 febbraio 2025. Si continuerà comunque a blaterare su «vantaggi competitivi, opportunità di mercato nazionale e internazionale con cacao di alta qualità. Così come i processi di selezione, essiccazione e fermentazione delle fave che determinano la qualità del cacao».

Oltre alle belle parole che non costano un centavo partido por la mitad ci sarà solo la sfrenata allegria del nulla che avanza e dilaga… siempre más allá.

* Dal nahuatl xicalli, bicchiere o tazza ricavata dal guscio del frutto denominato güira.

** Jaime Incer, Toponimías indígenas de Nicaragua, Libro libre, San José de Costa Rica 1985, p. 397.




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