venerdì 10 settembre 2021 - Phastidio

Un costoso equivoco chiamato ITA

Sprecare miliardi per una mini compagnia aerea che rischia di nascere morta. Ma l'alternativa non era certo quella di spendere ancora di più e rifare Alitalia

 

Pare che ITA, la compagnia aerea pubblica italiana che nasce dalle ceneri di Alitalia entro i robusti paletti posti dalla Ue e da Margrethe Vestager, sia prossima a partire. Almeno, ammesso che si risolvano le questioni contrattuali dei 2.800 che inizialmente saranno assunti dal nuovo vettore. Restano pesanti dubbi sul significato e le prospettive di questa operazione.

Si fa carico di esprimerli il professor Ugo Arrigo, docente di Economia Politica e Finanza Pubblica presso la Scuola di Economia e Statistica dell’Università di Milano Bicocca e da sempre mio punto di riferimento sulle criticità del vettore nazionale.

In due articoli, apparsi il 5 e 6 settembre sul Fatto, Ugo stigmatizza a tutto campo la decisione governativa di arrivare a ogni costo alla nascita di una compagnia che appare incredibilmente gracile e dal futuro piuttosto gramo.

Dirottamento di commissari?

Nel primo, dal titolo piuttosto truculento “Le leggi ad aziendam per vivisezionare Alitalia“, viene criticato il “dirottamento” del ruolo dei commissari Alitalia, che il governo avrebbe compiuto,

[…] facendoli divenire – da garanti della continuità produttiva dell’azienda nell’interesse dei suoi creditori incagliati – strumento esplicito per la realizzazione dei piani di ITA. Si tratta di ruoli incompatibili dato che i commissari di Alitalia sono venditori dei suoi asset e ITA non è che un potenziale compratore in mezzo ad altri, dunque una controparte, portatrice di interessi divergenti.

In che modo? In primo luogo, venendo in qualche modo “costretti” a cedere il ramo aviation di Alitalia a ITA anziché metterlo a gara e massimizzare l’introito a garanzia dei creditori di AZ. C’è da dire che questo esito discende dal negoziato tra governo italiano e Bruxelles, cioè della volontà italiana di dare vita a ITA. Se i commissari Alitalia si ritengono conculcati e dirottati, possono sempre dimettersi.

Il ramo verrà ceduto dietro valutazione peritale che si ritiene possa e debba rappresentare una stima realistica del valore di cessione e non un regalo a ITA. Quindi, non mi sento di condividere i timori di Ugo. Di certo, occorre essere consapevoli della volontà politica di far nascere un vettore pubblico. Personalmente, ne avrei fatto serenamente a meno e penso anche Arrigo, che nel secondo commento, pubblicato il 6 settembre, ribadisce che a suo giudizio ITA nasce morta causa sottodimensionamento.

Marchio ricco di storia e perdite

Non condivido neppure il timore che la vendita “predestinata” del ramo aviation svaluti i restanti asset aziendali. Riguardo allo spezzatino, Ugo critica anche la cessione del marchio:

[…] il nuovo decreto ha stabilito che il marchio Alitalia, che per accordi con l’Europa dovrà essere ceduto tramite gara, potrà essere acquisito solo da vettori aerei già esistenti. Questa regola viola però i principi di concorrenza, essendo finalizzata a favorire l’offerta di ITA, e non garantisce inoltre la massimizzazione del valore da parte dei commissari […]

Qui confesso di essere confuso. Siamo certi che l’unico offerente per il marchio sarà ITA? E quali alternative ci sarebbero, per massimizzare l’introito a favore dell’amministrazione straordinaria di Alitalia? Forse permettere di partecipare all’asta anche a società diverse dai vettori, create ad hoc, con conseguente rischio di speculazione di disturbo e successiva rivendita a prezzo maggiorato a ITA? Massimizziamo l’introito per i commissari Alitalia e al contempo anche l’onere per le casse pubbliche che hanno creato ITA e che dovrebbero comprarsi il marchio a prezzo gonfiato?

E soprattutto, come si concilia questa affermazione sul marchio, contenuta nel pezzo del 5 settembre, col commento del giorno successivo che afferma

La nuova compagnia nasce infatti dallo spezzatino, ma sarebbe meglio definire vivisezione, della vecchia Alitalia. Nasce infatti senza poter usare il marchio, che sarà messo all’asta dai commissari, e senza i servizi autoprodotti relativi alle manutenzioni e l’handling, che saranno oggetto di vendite separate.

Cioè, prima si denuncia la cessione senza reale discontinuità del marchio, a vantaggio di ITA, e poi si lamenta che la nuova compagnia sarà svantaggiata dal non poter usare il marchio? Vogliamo continuità o discontinuità?

In cassa integrazione da una vita

E ancora, riguardo al personale, il commento del 6 settembre lamenta la macelleria sociale e il costo per la finanza pubblica:

I dipendenti saranno selezionati da zero tra tutti coloro che faranno domanda su un sito appositamente aperto, ove anche i comandanti più anziani dovranno depositare il loro CV a fianco dei 18enni al primo impiego; in totale i dipendenti saranno solo 2.800, quasi 8 mila in meno di quelli di Alitalia. Per essi i sindacati hanno chiesto la cassa integrazione straordinaria per quattro anni, una soluzione costosa il cui impatto sulla finanza pubblica, tra i maggiori esborsi dello strumento e le minori entrate contributive, è stimabile in circa 2 miliardi di euro.

Ma che altro fare, in presenza di richiesta di discontinuità tra AZ e ITA? Qui ci lamentiamo della mancanza di continuità? E gli organici dovevano restare invariati tra i due vettori, contro ogni evidenza di realtà? Forse bisognava trasbordare tutti i dipendenti Alitalia in ITA? Quanto alla cassa integrazione chiesta dai sindacati sino al 2025 per i dipendenti Alitalia in a.s., basterebbe dire no, non trovate? Ma poi, Ugo scriverebbe di devastanti effetti sociali di tale decisione.

Stesso discorso per gli slot di decollo e atterraggio che non saranno trasferiti a ITA:

Infatti le bande orarie di decollo/atterraggio non trasferite a ITA dovranno essere restituite per la riassegnazione gratuita da parte dell’Autorità competente e non potranno essere cedute dai commissari dentro un secondo ramo volo di Alitalia, di fatto esistente dato che ITA se ne comprerà meno della metà. Anche questa è una perdita di valore notevole per la gestione commissariale.

Ma cosa si sarebbe dovuto fare, quindi, per massimizzare l’introito per la gestione commissariale? Forse far nascere ITA in perfetta continuità e dimensione con Alitalia, incluso personale e dipendenti? Giuro che non capisco.

Un errore che non doveva nascere

O meglio, capisco una cosa che intuisco da quando questa assurda storia è iniziata: ITA non ha senso alcuno, e neppure doveva nascere. Ora, invece, siamo appesi alla speranza che qualche vettore estero ce la compri e la integri nella propria offerta. In quel caso, torneremo a sentire le lamentela sull’Italia che ha perso rilevanza nel traffico aereo passeggeri. Certo, ma non da oggi.

Segue atto d’accusa al governo in carica ma meglio sarebbe precisare a tutti i governi che in questa legislatura hanno fortissimamente voluto questa cosa chiamata ITA, mostrando di non saper far di conto:

Difficilmente ITA potrà ambire al medesimo risultato di Davide contro il gigante Golia, mentre con certezza il suo tentativo comporterà un costo pubblico aggiuntivo di 5 miliardi rispetto ai 2 già spesi a causa della cattiva gestione dell’Alitalia privata negli anni precedenti il 2018. Ma se ITA non serve a trasportare passeggeri in quote rilevanti, non serve ad alimentare il turismo estero nelle nostre città, non serve a conservare occupazione nel settore e non serve a risparmiare soldi pubblici ma solo a spenderne di più, allora a cosa serve veramente? E perché il governo in carica la difende in maniera ancora più intensa di quanto non fece re Leonida col passo delle Termopili?

La competenza e indipendenza di giudizio di Ugo Arrigo sono fuori discussione ma non si comprende perché scrivere due commenti di questo tenore, in cui si oscilla dalla denuncia della mancata discontinuità a quella della mancata continuità, per poi concludere che è colpa del governo aver voluto questo esito.

Non solo: si arriva a suggerire implicitamente che l’unica soluzione ottimale sarebbe stata quella di un’ITA di dimensioni almeno identiche a quelle di AZ, cosa che ovviamente è impossibile da ottenere, nel quadro normativo degli aiuti di stato europei.

Chiudere il rubinetto delle perdite

Perché è del tutto inutile lamentare che Lufthansa e Air France sarebbero state “favorite” dalla Commissione Ue (non lo fa Arrigo ma molti altri). Quei vettori, prima della pandemia, guadagnavano fior di soldi, a differenza di Alitalia, che era da anni in conclamato dissesto. Non cogliere questa lieve differenza significa rigettare la logica europea degli aiuti di stato e voler tornare ai ruggenti anni Settanta, quelli in cui abbiamo proficuamente seminato il nostro dissesto.

Il dossier Alitalia andava chiuso definitivamente, con uno stop-loss di liquidazione, allo stesso modo in cui ci si avvia a chiudere quello MPS con la cessione sussidiata a Unicredit. Fosse stato fatto anni addietro, avremmo risparmiato miliardi dei contribuenti italiani. Proporre interventi pubblici di maggiore entità per evitare di sostenere i costi dello stop-loss vuol dire specializzarsi nella gestione di un altoforno. Alimentato dalle tasse degli italiani.

Qui ci sono le colpe di parecchi governi italiani, segnatamente dei primi due dell’attuale legislatura, che si sono incarogniti con questa forma di sovranismo tafazziano. Forse scriverlo sul giornale che è di fatto l’house organ dell’entità convenzionalmente chiamata M5S era problematico ma occorre prima di ogni altra cosa chiamare le cose col loro nome. Di certo, nessun problema, almeno da parte mia, a criticare l’attuale esecutivo per aver dato continuità alle scellerate scelte dei due precedenti.

Aggiornamento dell’8 settembre – Ugo Arrigo precisa, in un lungo thread Twitter, il suo pensiero e la sua proposta:

Si tratta di utilizzare i tre miliardi già stanziati non per cercare di far decollare una compagnia microscopica, bensì per acquisire una partecipazione di rilievo in un grande vettore europeo al fine di integrare nel medesimo quel che resta di Alitalia e di affidargli da azionisti il rilancio e la crescita dimensionale del vettore nazionale, quello che avremmo dovuto fare noi nel corso del tempo, ma che non abbiamo neppure provato dopo la metà degli anni ’90.

E in caso di diniego?

Naturalmente gli altri grandi vettori europei potrebbero non spalancare le porte a soluzioni di questo tipo, ma l’eventuale diniego farebbe emergere motivazioni non propriamente di mercato, bensì legate a fattori politici di difesa del carattere nazionale dei vettori, esattamente ciò che è stato sinora rimproverato all’Italia per la sua difesa ostinata e costosa dell’indifendibile Alitalia. Se dovessero dire di no è evidente che dovremmo perseguire soluzioni internazionali alternative ricercando, in questo caso da protagonisti anziché da comprimari, partnership differenti dai grandi vettori europei. 

Ma l’eventuale rifiuto del vettore pubblico europeo sarebbe motivato sul piano economico, cioè togliere di mezzo un concorrente, e non su quello di politica nazionale e nazionalistica. Incidentalmente, temo sarebbe preclusa anche la strada di eventuali aiuti di Stato, in reazione al rifiuto di euro-nozze.

Circa il perseguimento di partnership internazionali, penso sia già stata tentata con Etihad. A meno che Arrigo intenda che l’Italia dovrebbe in tal caso ignorare e superare la soglia del 49% di proprietà da parte di un vettore extra-Ue. Ma, quando un’azienda è fallita, è fallita.

Sono pertanto lieto di aver contribuito a fare chiarezza sul pensiero di un valente economista dei trasporti, a cui evidentemente il giornale con cui collabora non ha reso un gran servizio.




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