lunedì 26 giugno 2023 - Phastidio

Un biglietto verde per la Casa Rosada

Piagata da una crisi infinita, l'Argentina è l'incubatoio di nuovi ceppi di populismo e demagogia. L'ultimo teorizza la dollarizzazione in un paese ormai senza più riserve valutarie proprie

 

Finalmente una “buona” notizia per l’Argentina: l’inflazione a maggio ha rallentato, crescendo di “solo” il 7,9% mensile contro attese per un incremento dell’8,9% e contro il dato di 8,4% di aprile, un record da decenni. Il tasso tendenziale di incremento dei prezzi tocca il 114% e molti analisti lo vedono per fine anno tra il 145 e il 150%. Da inizio anno, i tassi ufficiali argentini sono aumentati di oltre venti punti percentuali, e oggi sono poco sotto il 100%. Sempre fortemente negativi in termini reali, quindi.

Le riserve del paese sudamericano sono ormai ai minimi termini, e sul mercato nero il peso si è deprezzato contro dollaro di circa il 40% da inizio anno. Il governo teme il crollo della moneta e l’iperinflazione ma non si è accorto che i due eventi sono già arrivati. Il fatto che a ottobre ci saranno elezioni presidenziali e parlamentari, non aiuta a prendere decisioni impopolari.

METTERE TOPPE E STROZZARSI DI DEBITO

Il ministro dell’Economia, Sergio Massa, che dovrebbe candidarsi alla presidenza (il ticket Alberto Fernandez e Cristina Fernandez De Kirchner pare non si ripresenterà), sta cercando di racimolare valuta con ogni mezzo. Si è recato in Cina ottenendo un aumento della linea di swap concessa da Pechino per ulteriori 5 miliardi di dollari, oltre a prendere a martellate uno degli innumerevoli tassi di cambio, per indurre gli esportatori di soia a vendere e incassare valuta. Ma la pesantissima siccità rende ancor più tragica la situazione, abbattendo i raccolti e le esportazioni. Ad aprile, l’export agricolo argentino era in calo del 42% rispetto allo stesso mese del 2022, per un buco di riserve valutarie stimato in 20 miliardi di dollari. Secondo alcune stime, le riserve nette del paese sarebbero ormai negative per 1,5 miliardi di dollari.

L’Argentina nel 2022 ha segnato un deficit primario, cioè al netto della spesa per interessi, pari al 2,4% del Pil. Il paese è impossibilitato ad accedere ai mercati internazionali dei capitali, dopo aver fatto default su 65 miliardi di dollari di debito collocato a investitori internazionali, e impegnata in un eterno negoziato con l’odiato Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare i maxi prestiti concessi all’ex presidente Mauricio Macri durante la direzione generale di Christine Lagarde.

Per colmare tali deficit, escludendo aumenti di entrate e tagli di spesa, il governo ha essenzialmente due opzioni: stampare moneta e produrre inflazione, cosa che puntualmente sta avvenendo; oppure ricorrere al mercato dei capitali interni, offrendo titoli di stato che sono collocati a tassi sempre più elevati e scadenze sempre più ravvicinate, mentre quelle più lunghe sono sottoscritte solo offrendo tassi indicizzati ai prezzi. Il che, come si può intuire, non consente allo stato di beneficiare della riduzione del valore reale del debito causata dall’inflazione. Un loop infernale, in pratica. Nel frattempo, le statistiche ufficiali indicano che il 40% della popolazione è sotto la linea della povertà.

Ora, il ministro dell’Economia Sergio Massa si accinge a recarsi a Washington per chiedere al FMI di erogare a luglio la prossima tranche di fondi prevista dal programma da 44 miliardi di dollari di rifinanziamento del debito, concordato lo scorso anno. Il problema è che Buenos Aires non sta rispettando tutti i precetti e le milestone previste nell’accordo. Relative, ad esempio, ad accumulazione di riserve valutarie e riduzione del deficit, anche a mezzo di aumento di entrate fiscali, per cessare la stampa di moneta da parte della banca centrale. Vero che l’Argentina ha la grossa attenuante della siccità e del relativo crollo di entrate valutarie da esportazioni ma in un anno elettorale non pare dannarsi troppo per tagliare le spese e aumentare le entrate. Neppure negli anni non elettorali, a dirla tutta.

Come soluzione di compromesso, il governo argentino vorrebbe dal FMI fondi in misura almeno compensativa del buco di entrate valutarie causato dalla siccità. Il Fondo, timoroso di evitare che l’Argentina gli scoppi in faccia, vuole a sua volta evitare che quei dollari servano a Buenos Aires per sostenere il cambio del peso. Evitare cioè una soluzione “alla turca”. Alla fine, si potrebbe arrivare all’esito surreale del FMI che presta a Buenos Aires i soldi per consentire a Buenos Aires di rimborsare al FMI la rata in scadenza. Al termine di questo girotondo, l’esposizione del Fondo e il debito argentino aumentano, e il cappio si stringe.

LA SUGGESTIONE DOLLARIZZAZIONE

In tutto questo, c’è un parlamentare che si è candidato alla presidenza e che a giudicare dai sondaggi sta andando forte: è Javier Milei, ex economista libertario dalle teatralità trumpiane, antiabortista e pro-armi, abituato a parole incendiarie contro la classe politica (a cui pure appartiene) e che punta a smantellare il neo costituito ministero per la donna e tutte le istituzioni pubbliche che hanno per funzione il contrasto del razzismo. Sguazza nei talk show da bava alla bocca. Ha promesso che, se a ottobre entrerà alla Casa Rosada, chiuderà la banca centrale e dollarizzerà l’economia argentina. Vaste programme, verrebbe da dire.

Come si dollarizza un’economia con riserve nette negative, cioè priva di dollari propri? Forse facendoseli prestare? O liquidando il sistema economico nazionale a favore di compratori in valuta forte? E ancora: agganciare l’economia di un paese al dollaro significherebbe che, quando il biglietto verde è forte, le esportazioni soffrono e le importazioni spiazzano le produzioni nazionali. Dopo alcuni cicli del genere, il paese sarebbe affondato da una crisi di bilancia dei pagamenti non dissimile da quella attuale ma ottenuta per vie opposte. Ma anche da una crisi fiscale parallela, che aprirebbe buchi di bilancio da finanziare comunque.

E così, dopo il ricorrente chiacchiericcio sulla “valuta comune” sudamericana, a partire da Brasile e Argentina, e con la sempre più ingombrante presenza dello yuan cinese nel subcontinente latinoamericano, ora torna l’idea del dollaro salvatore. Non più con improbabili currency board, come quello a cui si impiccò l’Argentina al tempo del decennio del ministro dell’Economia Domingo Cavallo, ma direttamente con i biglietti verdi dell’ingombrante vicino del nord.

La suggestione di usare il dollaro rispetto al peso come una sorta di gold standard è evidente. Ma il rischio è quello di causare danni peggiori della attuale penosa situazione. La situazione argentina è sempre più tragica. Il paese è l’emblema e la sintesi di tutto quello che poteva essere sbagliato in politica economica, fiscale e monetaria. Secondo dati della Banca Mondiale, dalla fine della seconda guerra mondiale l’Argentina è il paese che ha trascorso più tempo in recessione, dietro solo a quella che oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo.

Il fatto che oggi l’economia argentina torni in ginocchio a causa di uno shock avverso esterno deve far riflettere sulla necessità di avere un’economia mediamente sana per evitare di essere travolti dal ricorrente destino cinico e baro da invocare ogni volta come attenuante o autoassoluzione. Ciò detto, quando un paese ha degli asset “vendibili”, in termini economici e geopolitici, alla fine finisce in saldo e stralcio a qualche asta fallimentare, mentre i politici promettono il paradiso agli elettori. Alcuni, come Milei, promettono il paradiso dell’antipolitica agli steroidi. Non è un caso che i sondaggi lo accreditino di crescenti consensi nelle regioni e quartieri più poveri del paese, e dove i peronisti avevano robusti serbatoi elettorali. La maledizione del populismo, che si nutre di dissesti e li alimenta

Foto: la Casa Rosada- Di GRAPHICAL da Pixabay

 




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