mercoledì 31 maggio 2017 - Fabio Della Pergola

USA: i fratelli coltelli di casa Trump

Il russiagate e lo scontro Bannon-Kushner.

Della liaison ideologica che lega il cristiano ultratradizionalista americano Steve Bannon al russo ortodosso Alexandr Dugin ho già scritto a più riprese nei mesi passati. Almeno da quando i mutamenti al vertice della politica economica russa e la campagna presidenziale americana hanno catalizzato l’attenzione verso il plafond filosofico anti-illuminista che univa e spiegava l’empatia manifesta fra i due presidenti Trump e Putin.

Ma se in Russia tutto sembra scorrere sotto una coltre di ovattato silenzio (anche se Alexandr Dugin è silenziosamente uscito - o estromesso? - dal supervisory board del think tank Katehon di cui faceva parte fino a poco fa), negli Stati Uniti le cose hanno preso velocemente la piega della sfida all’ok corral.

Nella forma nota del cosiddetto “Russiagate” che ha già lasciato la sua brava scia di cadaveri politici: dall’ex consigliere per la sicurezza Mike Flynn, all’ex direttore dell’FBI James Comey, che stava indagando sui rapporti tra lo staff del presidente e la Russia, fino all’ex addetto stampa (di origini russe) Boris Epshteyn o all’autosospensione dalle indagini del procuratore generale Jeff Sessions.

Qualcuno (non solo i democratici) mira chiaramente all’impeachment e le insinuazioni diventano sempre più pesanti: «Penso che Putin paghi Trump», frase pronunciata nel giugno 2016, in piena campagna elettorale, dal leader della maggioranza repubblicana alla Camera Kevin McCarthy e pubblicata nelle scorse settimane dal Washington Post

L’avvicinamento a spirali progressive verso lo stesso Trump è indicato in questi giorni dal coinvolgimento pressante (quantomeno nelle insinuazioni) di Jared Kushner, il giovane marito di Ivanka; siamo ormai al cuore stesso del cerchio magico familiare del presidente.

Curiosamente non compare nel Russiagate la figura ideologicamente più vicina ai russi, vale a dire proprio quel Steve Bannon citato, ancora a metà aprile, in un articolo di Newsweek dal titolo piuttosto esplicito: “Alexander Dugin and Steve Bannon’s Ideological Ties to Vladimir Putin’s Russia. Legami ideologici dei due con la Russia di Putin.

In questo articolo si metteva in chiaro che Bannon non compare in nessuna delle indagini in corso, ma che la sua vicinanza ideologica con la Russia poteva aver avuto un impatto profondo nei rapporti dell’amministrazione americana con il Cremlino.

Ma l'articolista, l'esperto Owen Matthews, riteneva di dover aggiungere un emblematico "almeno fino ad ora".

Frase che evidenzia l'estromissione di Bannon, ai primi di aprile, dal National Security Council: solo due mesi dopo la sua nomina che permetteva una inusuale e molto controversa presenza politica nella stanza dei bottoni più importante degli States, riservata tradizionalmente ai tecnici.

L’estromissione indicava chiaramente un disaccordo tra Bannon e “altri” - in particolare proprio con Jared Kushner - sulla risposta da dare all’uso di armi chimiche in Siria, di cui le forze governative di Bashar al Assad erano ritenute responsabili. Risposta che poi si è concretizzata, nonostante l’opposizione di Bannon, nella notte di giovedì 6 aprile - un paio di giorni dopo l'estromissione di Bannon dal NSC - con una raffica di missili Tomahawk sulla base siriana di Shayrat.

Inutile aggiungere che proprio l'attacco ai siriani ha chiarito che Trump non accettava di stare alla finestra a osservare da estraneo la pianificazione degli assetti postbellici in Medio Oriente, ma anche che, proprio sulla politica mediorientale - come era facile immaginare - l'empatia con Putin avrebbe potuto evaporare. Cosa confermata dalla recente visita in Arabia Saudita (110 miliardi di dollari in armamenti in funzione antiiraniana) e Israele del presidente americano.

L'ininiterrotta via di comunicazione diretta tra l'Iran e Hezbollah in Libano, attraverso l'Iraq ormai governato dagli sciiti e la Siria alawita non poteva passare inosservata. Il disastro combinato dal giovane Bush con l'attacco inspiegabile a Saddam aveva abbattutto l'unico regime sunnita (di minoranza) nella regione che ostacolava proprio il "canale sciita". Da lì, da quella ottusità americana, nasce Daesh (per mano degli ex militari iracheni) prima ancora che dai finanziamenti sauditi. Oggi Trump si sente obbligato a tamponare la falla, nonostante il non interventismo proclamato in campagna elettorale.

Da questa serrata sequenza di avvenimenti emerge con sufficiente chiarezza uno scontro strategico, all'interno dello staff presidenziale, tra la componente “ideologica” rappresentata da Steve Bannon e quella più tradizionalista del conservatorismo repubblicano incarnata da Jared Kushner.

Il quale però è finito nel mirino delle indagini sul Russiagate per aver cercato - questa l’accusa - di aprire un contatto privato e segreto con il Cremlino.

Un altro tassello dello scontro con Bannon?

È quello che si insinua se i giornali riportano la voce che lo stesso Presidente Trump sospetti «che a passare le soffiate ai media sia proprio il consigliere Bannon». E, titola oggi il Corriere, "E riecco i falchi (Bannon in testa)".

Nel tutti contro tutti scatenato dai molto ambigui rapporti con i russi (per alcuni ideologici, per altri un tornaconto affaristico, per molti un pericoloso armadio pieno di scheletri) l’armata brancaleone di Washington sembra barcollare pericolosamente. Brilla - per totale incapacità di comprensione della fase complessa che si è aperta nel mondo con la vittoria di Trump e della Alt-Right - la stella offuscata di Noam Chomsky, il "filosofo della controcultura americana, padre della linguistica moderna e anarchico irriverente", che a proposito di russiagate ha affermato «io penso che sia un problema minore (...) in linea di principio non c’è niente di male nel tentare di stabilire rapporti con la Russia, anzi è un approccio sostanzialmente corretto».

Se questa è la capacità di analisi che viene dalla controcultura americana stiamo freschi.

Nel caso di impeachment del presidente (non del tutto aleatoria, ma nemmeno così a portata di mano come alcuni, soprattutto in Europa, possono sperare) la carica più alta dell’amministrazione toccherà al “cristiano rinato” Mike Pence. Un ritorno al passato - cioè al conservatorismo classico, guerrafondaio e prevaricatore, dei repubblicani alla Bush, cui si deve quel buco nero chiamato Iraq - che affosserebbe la prospettiva antisistema (in senso apertamente e dichiaratamente neofascista) del duo Bannon-Dugin.

Difficile dire cosa sia peggio in un quadro complessivamente mai così fosco prima d'ora.

(Foto: Office of the President of the United States)




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