giovedì 19 aprile 2018 - Aldo Giannuli

USA | La sovraestensione imperiale e il probabile declino americano

No, al di là di quanto afferma la stampa cis e transoceanica non sarà Donald Trump a causare la caduta dell’Impero Americano, come non furono Commodo o Massimino il Trace a causare la caduta di quello Romano o ancora Gorbacev a causare quella dell’Impero Sovietico. Non da soli, almeno. Per quanto singole scelte errate di singoli governanti fungano da facilitatori, catalizzatori e acceleratori di processi storici, questi ultimi sono dati da prospettive assai più lunghe, complesse, strutturali e non congiunturali.

 Nella fattispecie – per quanto riguarda cioè gli imperi e le forme statuali e politica di natura “imperiale” – la caduta (o, più propriamente nel caso degli Stati Uniti, il declino) è causato da alcuni fattori che la storiografia, l’economia e la scienza strategica individuano ormai con buona approssimazione. Per fare un sunto della letteratura degli ultimi decenni sul tema, a partire dal fondamentale saggio “Ascesa e declino delle grandi potenze” di Paul Kennedy, gli studi di economisti della scuola di economia istituzionalista contemporanea (per citare un autore tra i tanti, Daron Acemoglu), di polemologi come Edward Luttwak ma anche di ottimi studiosi italiani come Giovanni Arrighi (che appunto fu profondamente influenzato dal pensiero anglosassone), il declino delle grandi potenze si può ricondurre alla problematica della “sovraestensione”.

Facciamo un passo indietro: dei fenomeni storici prevalgono oggi due macrotipologie di lettura, cioè “economicista” e “istituzionalista”. Non si tratta di due scuole organiche ma piuttosto di correnti di pensiero eterogenee ma comunque ascrivibili ad una simile visione del mondo. Per i primi sono i macrofenomeni economici la struttura portante e causale di quelli storici. Per Marx e per il pensiero materialista l’economia è struttura e il resto è sovrastruttura: visione che il mondo anglosassone non dovrà fare nemmeno lo sforzo di accogliere perché ne aveva già prodotta una relativamente simile con Smith e con la scuola empirista, corrente che prevarrà sulle letture antieconomicistiche di John Stuart Mill fino a giungere ai propri estremi proprio nel solco del liberismo degli Hayek, dei Milton Friedman e di politici come Margareth Thatcher (“non esiste questo qualcosa che chiamano “società”: esistono individui”). C’è poi il filone istituzionalista, ancora più eterogeneo per discipline e tendenze politiche ma sempre assai diffuso negli ambienti anglosassoni – sia di taglio liberista che liberal-progressista – secondo il quale sono le istituzioni, inclusi i valori politici di fondo di una società, a plasmarne il successo economico e politico. Qui troviamo orientamenti simili a quelli di precedenti pensatori di area germanica-continentale (Weber) e che spiegano il dominio anglosassone del mondo, prima tramite l’impero britannico e poi con quello americano, con la superiore qualità delle istituzioni liberaldemocratiche (ovviamente di marca protestante). Entrambe le correnti sono oggi prevalenti nel mondo accademico globale – dove infatti le università anglosassoni detengono una primazia: incidentalmente si noti come il pur fertilissimo pensiero di scuola francese, da Braudel e dalla Scuola Degli Annali passando per gli strutturalisti, che tende metologicamente ad essere intermedio tra i due sopraccitati e contenutisticamente rifiuta i toni moralistici e valutativi miranti ad esaltare la liberaldemocrazia anglosassone come punto culminante dello sviluppo umano, sembri invece essere stato messo in disparte.

Questa lunga digressione – in cui, mi si perdonerà, ho semplificato all’estremo ben più di un secolo di studi – ci serve a mostrare come le due correnti di pensiero, giungano sorprendentemente ad una lettura molto simile del ciclo storico degli imperi e del loro declino: il tema della sovraestensione cui accennavamo in apertura. Gli imperi sono condannati ad espandersi dalla loro stessa natura: la loro crescita li porta in contatto con nemici, avversari e concorrenti sempre nuovi con cui bisogna battersi, ora per ragioni difensive e di sicurezza ora per velleità di conquista. L’economia imperiale stessa si regge sulla guerra, sulle conquiste, la potenza della moneta dell’impero (dalla quantità d’oro razziato o ottenuto coi commerci in un vastissimo spazio che i romani potevano fondere al dollaro come moneta globale) si basa sulla sua potenza militare che a propria volta si fonda sulla ricchezza dell’impero. Un impero non può scegliere coscientemente di chiudersi al mondo, pena l’asfissia: è quello che accadde all’Impero Cinese della dinastia Ming, chiusosi in un delirio ideologico reazionario per tutelare la casta dei mandarini, delirio culminato col divieto di navigazione nell’oceano – scelta che contribuì a condannare la prima economia globale del tempo ad un inarrestabile declino. È quello che sanno gli apparati dello stato profondo americano che fanno l’impossibile per sabotare i propositi isolazionisti di Trump. Ogni impero raggiunge nel proprio ciclo storico un picco di estensione politica, militare, in definitiva geografica e strategica, oltre il quale i costi – militari, umani e finanziari – del mantenimento del regime imperiale superano i benefici, quantomeno quelli percepiti da una popolazione stanca delle continue guerre e conquistata dal benessere. Gli immigrati, cui romani ed americani spalancano le porte, portano sì nuove energie e la necessaria fame ma anche forti problemi di integrazione che sono un altro contributo, sul lungo periodo, alla disgregazione sociale degli imperi stessi. La corrente economicistica spiega tutto con il classico “dilemma del burro e dei cannoni”: ad un certo punto, l’impero cessa di essere efficiente nell’allocare risorse tra l’espansione esterna e il benessere interno. All’impero sovietico accadde dopo nemmeno un secolo di storia, a quello americano comincia forse ad accadere ora? La corrente istituzionalista è un po’ meno determinista e pone l’accento sul degrado delle istituzioni partecipative: in tutti gli imperi si consolidano caste economiche che mirano a costituirsi come gruppo chiuso inibendo la mobilità sociale e le energie creative della società, spostando l’economia da produttiva ad estrattiva/speculativa (quello che successe agli imperi mercantili veneziano e britannico).

In tutto questo e al di là delle superficialità giornalistiche Trump è un effetto e non una causa: un effetto della stanchezza imperiale della classe lavoratrice e operaia e della classe media bianca (spesso coincidenti nel paese) per lo sforzo bellico sostenuto dalle precedenti presidenze Clinton e Bush e per la percepita perdita di potere, influenza e peso demografico a causa degli immigrati e della popolazione nera. Le amministrazioni Clinton e Busch sono però l’architrave della nostra riflessione: “l’arroganza unipolare” americana, l’illusione della fine della storia e dell’eternità della condizione di unica potenza hanno condotto gli Stati Uniti ad una serie di avventure militari espansive teoricamente sensate dal punto di vista geopolitico – occupazione di bacini petroliferi, chiusura della Russia nei margini nordici dell’Eurasia – ma disastrosi nel conseguente dispendio umano e finanziario nonché nella rottura di consolidati equilibri strategici. Oggi l’America si ritrova con una Russia risorgente e compattata al proprio interno dalle mosse americane in Ucraina e nell’ex-Jugoslavija, un Iran quasi padrone del Medio Oriente e una Cina in compiuta ascesa, nonché con gli alleati europei e turchi sempre più insofferenti all’interventismo a stelle e strisce.

Il disastro finale per il paese di George Washington sarebbe però solo uno: la perdita del dollaro come valuta globale, quel che non si vede all’orizzonte, per l’insipienza europea nel gestire la crisi dell’Euro e per la non ancora completa affermazione dello Yuan cinese. I cinesi hanno appreso bene la lezione americana, sono riluttanti a cadere nella trappola della sovraespansione e a giocare un più assertivo ed espansivo ruolo internazionale. Preferiscono la penetrazione mercantile a quella militare e politica, quel che potrebbe forse rallentare ma forse non inibire un futuro ruolo se non di predominio dello Yuan quantomeno di sua pari dignità col dollaro. Il declino relativo dell’Impero Americano è un fatto cui assistiamo già oggi: gli USA non sono più i signori incontrastati del pianeta. La Caduta dell’Impero americano non è però un fatto prevedibile nel medio termine, giacché questi mantengono due enormi vantaggi. In primis quello tecnologico, come ricordava il compianto Ennio Di Nolfo, decano degli studi di politica internazionale in Italia. In secundis, quello geopolitico.

Già, la geografia e la geopolitica, troppo spesso ignorate da economisti e sociologi ma ben note ai militari e a molti storici (soprattutto quelli della scuola francese!). L’America è un’isola, e non ha nemici via terra. Può dedicare le proprie risorse tecnologiche e militari non al controllo di un territorio, ma delle infrastrutture di collegamento tra i territori: i mari (con la flotta militare più potente della storia umana), lo spazio (in cui mantiene un importante vantaggio tecnologico) e le reti di comunicazione cibernetiche (l’America le ha inventate, ma sono il settore in cui i cambiamenti sono più rapidi e in cui cinesi ed anche i russi hanno fatto i più rapidi progressi). New York resta sul podio delle piazze finanziarie globali – prima sotto alcuni indicatori. Le imprese tecnologiche americane hanno capacità finanziaria (e un domani forza politica?) incomparabile e sono quasi monopoliste in interi ambiti di attività (da Google a Facebook). Lo stesso deficit commerciale americano alimenta la dimensione globale del dollaro. L’America è la potenza talassocratica ed infrastrutturale più forte della storia, laddove i russi – e i tedeschi – sono potenze prive del controllo dei mari (ma dipendenti dalle esportazioni!) e i cinesi soffrono della doppia vulnerabilità: dal mare, circondati da anelli di potenze ostili o comunque non alleate nonché dalla flotta americana stessa e da terra, tenuti lontani dai mercati europei da grandi distanze, spazi aridi e montuosi e dall’instabilità della “faglia islamica”, composta da stati collassati, poveri, instabili, da guerre, guerriglie e terrorismo. Guarda caso, la faglia in cui gli americani hanno concentrato e concentrano gli sforzi per aumentare il tasso di caos e di instabilità.

Il declino americano è solo relativo. La partita del caos è apertissima.

Amedeo Maddaluno




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