giovedì 16 febbraio 2017 - Fabio Della Pergola

USA-Israele: il nuovo corso di Donald Trump

Questione israelo-palestinese: “Uno stato o due è la stessa cosa”.

Questa la sintesi circa il più duraturo stato di belligeranza continua - e tendenzialmente foriera di grossi guai - nell’area più calda del mondo. Questa la sintesi dell’uomo che fortunosamente è riuscito ad agguantare, contro ogni previsione, la Presidenza della prima superpotenza mondiale.

L’espressione di Trump appare sconcertante per la sua apparente superficialità, ai limiti della fatuità, ma veicola in realtà contenuti su cui è necessario riflettere.

Dire che una cosa vale l’altra, cioè che possa esistere o non esistere uno stato palestinese nel pieno dei suoi poteri riconosciuti internazionalmente, potrebbe suonare perfino offensivo nei riguardi dei palestinesi stessi: come può essere la stessa cosa avere o non avere uno stato?!

Nello stesso tempo la frase, buttata lì con la tipica nonchalance trumpiana, affossa in un attimo la logica dei “due stati per due popoli” che ha costituito, da molto tempo (la prima proposta di spartizione risale alla Commissione Peel del 1937), la prospettiva adottata dalla diplomazia internazionale in merito alla questione israelo-palestinese.

Sembra dunque una presa di posizione che avvallerebbe la progressiva “conquista” territoriale, in barba alle ripetute critiche ricevute, portata avanti dai governi israeliani - con maggiore o minore decisione - attraverso la contestata politica degli insediamenti coloniali nella West Bank che, in origine, costituivano il bastone e la carota della proposta "restituzione della terra in cambio di un trattato di pace", avanzata da Israele dopo la guerra dei Sei giorni, ma rifiutata dagli arabi con la Risoluzione di Khartoum

Questa della luce verde all'occupazione è la lettura, entusiasta, che viene data dalla destra ebraica, non solo israeliana, che vede concretizzarsi l’antica aspirazione alla Grande Israele dal Giordano al Mediterraneo, perseguita con la prospettata annessione di Giudea e Samaria (alias West Bank, alias Cisgiordania alias futuribile Stato di Palestina dai confini da definire, nella logica dei “due stati”).

È facile osservare che un eventuale stato unico binazionale non farebbe sparire d’acchito i due milioni abbondanti di arabo-musulmani della West Bank che andrebbero a sommarsi al milione e mezzo circa di arabi già cittadini dello Stato di Israele (comprendenti sia quelli musulmani che quelli cristiani, come anche le minoranze beduina e drusa) e - se Gaza dovesse essere compresa nella “nuova” logica unitaria - al milione e 800mila abitanti della Striscia. Per un totale complessivo di circa 5,5 milioni di abitanti di etnia araba diventati cittadini dello Stato Unico a fronte dei circa 7 milioni di non arabi (per la maggior parte ebrei).

Anche mettendo fra parentesi le questioni relative alla sicurezza (ma farlo sarebbe comunque un'assurda forzatura della realtà), ci sarebbe da mettere seriamente in discussione l’intenzionalità o meno del governo dell’eventuale stato “unico” a far propria una reale uguaglianza di diritti civili fra tutti i suoi cittadini; in caso negativo si tratterebbe dell’istituzione di un regime di apartheid reale e ingiustificabile, in caso positivo la differenza numerica appare così risicata che, nell’arco di non molti decenni, stanti le differenze attuali di crescita demografica fra i due gruppi etnici, porterebbe la Grande Israele ad essere uno stato a maggioranza araba con una forte componente ebraica al suo interno.

Ammesso e non concesso che esso possa coesistere poi con le richieste dell'ipotetica futura maggioranza di adottare la sharia come legge fondamentale, sarebbe l'evoluzione verso un paese democratico, lo stato di tutti suoi cittadini, a prescindere dalle appartenenze etniche, culturali o religiose, ma esattamente il contrario di quello che voleva realizzare il progetto sionista, nato per dare una patria e proprie istituzioni agli ebrei vittime dell'antisemitismo europeo e dello sterminio nazista.

La storia dello stato “unico” binazionale non ha radici solo nella logica dell’occupazione voluta dalla destra nazionalista e ultrareligiosa ebraica, quanto piuttosto negli ambiti politici del tutto contrapposti; vale a dire in quelli dell’universalismo della sinistra marxista o dell’ebraismo non nazionalista, vedi Martin Buber. Componenti che già negli anni ’20 lavoravano insieme ad alcune frange del movimento sindacale e non nazionalista palestinese per costruire lo stato binazionale. A queste tendenze, non trascurabili, fece riferimento la prima ipotesi di soluzione avanzata dai governanti inglesi con il Libro Bianco del 1939 dopo l'affossamento del progetto Peel.

Entrambe le componenti finirono però schiacciate dai due contrapposti e crescenti nazionalismi fino a finire nell’irrilevanza politica. E l’idea della separazione fu adottata anche dall’Assemblea Generale dell’ONU con la sua proposta di spartizione del 1947.

Tuttavia la logica dello stato unico binazionale non è mai stata abbandonata, proprio dagli ambienti di sinistra dello schieramento politico israeliano.

In un articolo pubblicato nel 2007 su Le Monde Diplomatique (in versione italiana con Il Manifesto) una prestigiosa accademica palestinese, Leila Farsakh, citava numerosi nomi della sinistra israeliana favorevoli alla soluzione binazionale: dal pluricitato Ilan Pappé (lo storico caro ai più convinti filopalestinesi) alla giornalista Amira Hass, dalla linguista Tanya Reinhart all’accademica americana Virginia Tilley, ma senza dimenticare anche intellettuali di parte araba di assoluto prestigio come Edward Said o Azmi Bishara.

Oggi l’ipotesi dello stato binazionale non deriva più dalle stesse considerazioni di strategia politica o ideologica degli anni ’20, ma piuttosto, sottolinea Farsakh, dal pessimismo circa la possibilità che la soluzione a “due stati” possa essere ancora praticabile.

Pessimismo che si basa, secondo i sostenitori dell'ipotesi binazionale, sull’impossibilità di costruire uno Stato a seguito dell’espansionismo coloniale degli insediamenti ebraici, ma che sembra derivare più da un orientamento politico-ideologico che da dati verificati.

In realtà non sembra esistere nei fatti una reale impossibilità che giustifichi tale pessimismo.

Anche solo pochi anni fa la costruzione di insediamenti superava di poco l’uno per cento dell’intero territorio conteso (o “occupato” secondo la terminologia internazionale adottata). L’affermazione, riportata dal quotidiano Haartez nel 2011, del negoziatore palestinese Saeb Erekat è stata chiara: «nonostante la politica continua di Israele di "occupazione e costruzione di insediamenti," una fotografia aerea fornita da fonti europee dimostra che gli insediamenti sono stati costruiti su circa l'1,1% della Cisgiordania».

La richiesta palestinese di un ritiro israeliano sulla Linea Verde (i “confini” del ’67) si fondava proprio sull’esiguità del territorio “occupato”. Da allora ad oggi gli insediamenti sono aumentati, ma è indiscutibile che la percentuale di territorio effettivamente impegnata non è tale da pregiudicare la soluzione a “due stati”. 

L’ambigua dichiarazione di Donald Trump - curiosamente convergente con le prese di posizione di certa estrema sinistra israeliana - implicitamente affossa invece, nella sua manifesta superficialità (“basta che ci sia la pace”) la diplomazia dei “due stati” rifiutata per i primi cinquant’anni dai palestinesi e ancora oggi da una componente importante come Hamas (che uscirebbe vincitore probabilmente dalle elezioni palestinesi se mai venissero fatte) e specularmente affermata, ma nei fatti ostacolata, dal premier israeliano Netanyahu negli ultimi otto anni.

Eppure tutti sanno che non esiste altra soluzione reale che non sia una separazione. E deve essere una separazione concordata - velleitari, inutili e fallimentari i tentativi unilaterali della dirigenza palestinese - così come concordati devono essere i confini internazionalmente riconosciuti, che vadano finalmente a sostituire la Linea Verde.

Nella speranza che la separazione porti poi le generazioni future dei due popoli a rapportarsi fra di loro senza più le lenti deformanti dei due contrapposti ed esasperati nazionalismi. In un'ottica costruttiva opposta a quella attuale.

Foto: Face2face project/JR Palestina




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