venerdì 21 maggio 2021 - UAAR - A ragion veduta

Tutti politicamente corretti – con la religione

Una risata vi seppellirà. O forse no? Nell’era della comunicazione politicamente corretta, si cerca di evitare in ogni modo di offendere l’interlocutore. Eppure, ironia della sorte, si finisce per darsele (verbalmente) di santa ragione in modo più politicamente scazzato che politicamente corretto (d’ora in poi, per brevità, p.c.).

Si litiga addirittura sulla nozione stessa di p.c.: esiste? Non esiste? Per alcuni sì, e rappresenta una dittatura; per altri invece sarebbe uno strawman messo su dai reazionari, allergici a qualsiasi riconoscimento dei diritti delle minoranze. Oggi si tende a ritenere che il p.c. sia richiesto esclusivamente dalle minoranze. Ma non è così. Spesso gli stessi che tuonano contro il p.c. si rivelano essi stessi degli “snowflake”, o – come si dice in modo molto meno p.c. – dei “musoni”.

Un’analisi dettagliata del fenomeno della political correctness non può prescindere da un’osservazione tanto semplice quanto ignorata: tutti gli esseri umani si offendono. E siccome il p.c. nasce per evitare di urtare i sentimenti altrui, è assai riduttivo ricondurlo ad un tentativo di tutelare solo le minoranze. Le maggioranze si offendono tanto quanto le minoranze, spesso anche di più. Troppo facile, del resto, esibire un atteggiamento politicamente scorretto verso gli altri; lo è invece molto meno tollerarlo nei propri confronti.

Tra i più accaniti oppositori del p.c inteso come difesa delle minoranze ci sono i fanatici religiosi, convinti che sia in atto una guerra contro i “veri valori”, che – guarda caso – coincidono sempre con quelli riconosciuti da loro, i paladini (autoproclamati) dell’umanità. Che per primi chiedono a gran voce la censura di tutto ciò che li offende, pretendendo il privilegio di non veder riconosciuti altrui, perché così sta scritto nei testi sacri, e di vedere invece tutelato il “sentimento religioso”. La tutela avviene con una serie di leggi che puniscono la blasfemia e chi ne fa uso. E così in molti casi arrivano multe, in altri piovono condanne, in alcuni volano teste.

Nelle ultime settimane in Italia si è rinfuocato il dibattito sull’omofobia. E con esso quello sull’importanza delle parole. Tema caldo sollevato da un duo di comici che in prima serata e su una nota emittente privata hanno detto “tutte le parole vietate”, avanzando la tesi che ad offendere non sono le parole ma le intenzioni. Peccato tra le parole offensive non ci fosse neanche una bestemmia. Ciò che è discutibile è infatti il ritenere che il vero tabù in Italia sia dire parole come frocio o finocchio  quando c’è chi lo fa in diretta e continua nonostante tutto ad essere invitato negli studi televisivi.

Bestemmiare in TV può invece costare a chi lo fa una sospensione, ed alla rete ospitante multe salatissime: ne sa qualcosa la RAI, che si è ritrovata a dover pagare una multa di 25mila euro per un porcone di troppo sfuggito al conduttore Tiberio Timperi. Forse anche per questo i due comici hanno evitato come la peste l’ironia sulla religione. La comicità politicamente scorretta è molto diffusa nei paesi anglosassoni, ma alle battute sulle minoranze si accompagnano monologhi dissacranti nei confronti di qualsiasi persona e di qualsiasi ideologia, religioni comprese.

In questo modo tutti i gruppi sociali vengono colpiti allo stesso modo, garantendo una sorta di trattamento paritario: tutti offesi, nessuno offeso. In Italia invece, dove anche le più (in partenza) anticlericali tra le star televisive finiscono per declamare la bellezza dei Dieci Comandamenti in prima serata, toccare la religione è un tabù vero e proprio. Ma gli esponenti del mondo cattolico trovano comunque il motivo di lamentarsi. E così, in occasione del Festival di Sanremo (apertosi peraltro con i gesti apotropaici del conduttore), le associazioni Pro-Vita hanno prima richiesto di spostare in seconda serata l’esibizione de La Rappresentante di Lista perché avrebbe potuto “turbare i bambini”, poi preteso la testa dei vertici RAI dopo le scene “blasfeme” della kermesse, anche queste colpevoli di “turbare i bambini”.

Quando si tratta di tutelare il sentimento religioso l’atteggiamento dei bigotti ricorda da vicino quella cancel culture, da loro (a parole) tanto osteggiata. Atteggiamento che si manifesta anche nel non voler estendere agli altri quelle tutele dalle discriminazioni da cui loro sono già coperti. Opporsi al DDL Zan facendo leva sull’argomentazione che le aggravanti sono sbagliate è legittimo; assai meno lo è invece rigettare l’idea di un’aggravante dell’omotransfobia mentre si accetta senza batter ciglio quella contro l’odio religioso prevista dalla Legge Mancino.

Uno dei più noti oppositori del DDL Zan, noto per i suoi vistosi papillon, rifiuta l’idea che “alcuni animali siano più uguali di altri”(citando a sproposito il povero George Orwell) e teme che un imbavagliamento di massa sia imminente. Al tempo stesso, però, trova il tempo di richiedere la censura di alcune puntate dei Griffin ritenute blasfeme. Il bavaglio cristiano, evidentemente, è diverso: non è censura, ma misericordia.

Simone Morganti

 




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