mercoledì 18 gennaio 2023 - La bottega del Barbieri

Trivellare per sprofondare

Il 18 novembre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’aiuti quater, il decreto con cui il Governo Meloni ha provveduto ad aggravare il sostanziale “via libera” alle trivelle già inaugurato in marzo da Draghi e Cingolani.

di Ecor.Network

L’aiuti quater abbassa ulteriormente i livelli di tutela del mare e delle aree costiere, disponendo:

  • l’abbassamento da 12 a 9 miglia di distanza dalla costa del limite per l’estrazione offshore di idrocarburi per i siti con un potenziale superiore a 500 milioni di mc di gas;
  • la possibilità di coltivazione di idrocarburi nel tratto di mare oltre le 9 miglia al largo del Polesine (1) che prima d’oggi era vietata.

Gli idrocarburi in questione, una volta estratti, verrebbero poi destinati a prezzi calmierati non alle famiglie, ma ai clienti industriali a forte consumo di gas.

Il provvedimento ha incassato da subito l’invidia di Renzi (che avrebbe voluto farlo lui), la netta contrarietà di Zaia, e infine un parziale assenso di Bonaccini, che ha espresso – senza del resto stupirci – la sua approvazione per un aumento dell’estrazione di metano dai pozzi già esistenti.
I pareri di Zaia e Bonaccini in merito suscitano un certo interesse, visto che presiedono le regioni italiane con le più alte percentuali di Comuni colpiti dal fenomeno della subsidenza.
Il 53 % dei Comuni del Veneto e il 51 % di quelli dell’Emilia-Romagna (2) sono infatti interessati da processi di progressivo sprofondamento, per cause prevalentemente antropiche.
Fra questi, tutti i Comuni del Polesine.

In Polesine le prime perforazioni per l’estrazione del metano cominciarono a terra nel 1935, con 13 pozzi e una centrale di compressione. Era l’inizio di uno sviluppo vertiginoso: quattro anni dopo il numero dei pozzi e delle centrali era già triplicato.
Nel 1946 il gas estratto superava i 26 milioni di m³ e nel 1950 si era arrivati a 170 milioni di m³.
Nel 1951, l’anno dell’alluvione, i pozzi attivi erano 993, concentrati soprattutto nel Delta del Po. (3)

Il 14 novembre 1951, dopo due settimane di piogge intense e costanti su tutto il bacino del Po e dei suoi tributari, la piena del fiume ruppe gli argini nei comuni di Canaro e Occhiobello per poi dilagare nei giorni seguenti, sommergendo 1.170 chilometri quadrati di campagne e centri abitati.
Il bilancio fu di centouno morti, sette dispersi, 180.000 sfollati, di cui 80.000 non tornarono più.
E poi 16.000 capi di bestiame60 km di argini distrutti o danneggiati e oltre 950 km di strade52 ponti, 4100 abitazioni, 13.800 aziende agricole, 1.130 chilometri quadrati di terreno agricolo resi sterili dai sedimenti per molto tempo.(4)
Sul momento le responsabilità del disastro vennero attribuite solo alla natura avversa ed agli errori nella gestione degli interventi di emergenza nel corso dell’alluvione, ma il dubbio che lo sprofondamento dei suoli, e di conseguenza degli argini, potesse agire da concausa, cominciò lentamente a farsi strada.

In seguito proprio a quel disastro, iniziarono le ricerche per capire cosa fosse accaduto. Da subito si notò l’abbassamento e immediatamente il collegamento con l’estrazione del periodo venne fatto. Ovviamente, non venne subito data la giusta importanza al problema e nel 1959 si parlava di 1424 pozzi per la bellezza di oltre 281 milioni di m³ di gas”. (5)

Fu il picco dell’estrazione a terra. Nel 1960 iniziò, prima in via sperimentale e poi in modo sistematico, la chiusura dei pozzi del Polesine.
Qualcosa era successo: altri sfondamenti degli argini, altre inondazioni non solo in presenza di eventi estremi.
Nel maggio 1959 il sismologo Pietro Caloi portava a termine un’ampia relazione sui fenomeni di sprofondamento in atto nel Delta del Po. Tale relazione si concludeva “con la provata necessità della immediata chiusura delle migliaia di pozzi di estrazione di acque metanifere, ai quali doveva attribuirsi la quasi totalità delle enormi flessioni del terreno osservate nel Delta….
L’estrazione dal sottosuolo di queste grandi quantità d’acqua che, già intorno al 1957, era per la sola provincia di Rovigo di quasi 230 milioni di m3 — effettuata a mezzo di circa 1.400 pozzi attivi e, nella zona del Delta, di 170 milioni di m3 (900 pozzi attivi) — portava quindi ad un progressivo abbassamento del livello piezometrico (da 20 a 30 m sotto il piano di campagna”. (6)

Stesse conclusioni, più recenti, del Consorzio di Bonifica Delta Po Adige:

La subsidenza ha interessato quasi tutto il delta e determinato abbassamenti che hanno raggiunto valori massimi di quasi tre metri e valori medi di due metri. Anche questo fatto, meno traumatico, lento a manifestarsi ma altamente insidioso, ha influenzato in modo determinante la rete idrografica del basso Po e la storia delle rotte e inondazioni.
Le aree ai lati delle arginature dei rami del Po si sono abbassate fino a quota 1-2 m sotto il livello del mare rendendo necessari rinforzi e rialzi degli argini e interventi conseguenti all’aggravamento dei pericoli di sifonamento. Collegate, molto probabilmente, a questa situazione si ebbero, con piene non rilevanti, due rotte nell’argine sinistro del Po di Goro nel giugno del 1957 e nel novembre del 1960.

A causa della subsidenza si aggravò notevolmente anche il problema della difesa a mare sia per la riduzione del franco della sommità degli argini esistenti sia per l’aumento della profondità dei fondali antistanti le arginature, con conseguente esposizione a una più marcata azione del moto ondoso.
Per rotte dovute a forti mareggiate si ebbero allagamenti nel 1957 e nel 1958 in provincia di Rovigo (Isola della Donzella) e in provincia di Ferrara (Bonifica di Mesola). Nel novembre del 1966 
[contemporaneamente a forti alluvioni in tutta Italia, la più grave a Firenze. NdR] acque alte e mareggiate eccezionali causarono un’ampia falla nell’argine della Sacca di Scardovari.
Oltre due terzi del territorio dell’Isola della Donzella furono sommersi dalle acque del mare”. (7)

Gli effetti permanenti dello sprofondamento possiamo ancora vederli all’Isola della Batteria, sommersa nel 1957:

Nel delta del Po questa subsidenza si manifestò con velocità di abbassamento dell’ordine di 20-30 cm all’anno sopra aree molto estese, specialmente nel decennio 1950-60. Il gas metano misto ad acqua, con un rapporto tra volume di gas e volume di acqua variabile tra 1 e 0.7, veniva estratto alla fine degli anni Cinquanta da circa 400 pozzi spinti a profondità variabile tra 100 e 650 m e profondità media di 350 m, con abbattimenti della pressione dell’acqua anche superiori ai 50 m e con volumi annui estratti di centinaia di milioni di metri cubi. Nel 1960 iniziò, prima in via sperimentale e poi in modo sistematico, la chiusura dei pozzi. Nel 1963 le estrazioni vennero definitivamente sospese dal Ministero dell’Industria. L’efficacia del provvedimento si manifestò con un progressivo e generale rallentamento degli abbassamenti e con la risalita delle quote piezometriche, che nel giro di cinque anni recuperarono i valori iniziali”. (8)

Ovviamente, il recupero non significava il ritorno del suolo allo stato originario, ma la diminuzione della velocità del suo abbassamento. Il danno da questo punto di vista è permanente e continua a generare conseguenze, che si tenta di contrastare con la continua manutenzione degli argini, dei canali e con il lavoro costante di 38 idrovore e 117 pompe.
Attualmente, come descrive Giancarlo Mantovani, direttore Consorzio Bonifica Delta del Po:
il mare Adriatico se non ci fossero gli argini e tutto il sistema di sollevamento delle acque ce lo andremmo a trovare all’altezza di Villadose, a metà strada fra Adria e Rovigo, quindi a circa 45 chilometri … Due milioni e mezzo all’anno [la bolletta energetica delle idrovore] solamente per il Delta del Po e altrettanti per il resto Polesine. (9)
A questo si aggiungono i costi (e anche gli impatti) delle opere di contrasto degli effetti della subsidenza sulle coste: erosione dei litorali, arretramento delle linea di battigia, aumento delle incursioni marine, inondazioni, salinizzazione dei terreni costieri, dei canali di irrigazione e delle falde acquifere, con relativi effetti anche sugli acquedotti.
Nel gennaio 1991, per frenare questo tipo di processi e tutelare Venezia, venne vietata per legge (10) l’attività estrattiva offshore davanti alla costa veneziana e polesana, e in particolare “la prospezione, la ricerca e la coltivazione di idrocarburi nelle acque del Golfo di Venezia, nel tratto di mare compreso tra il parallelo passante per la foce del fiume Tagliamento ed il parallelo passante per la foce del ramo di Goro del fiume”.
Un vincolo che ha salvaguardato il Delta fino ad ora.
Il divieto suscitò a più riprese le proteste dell’industria petrolifera nazionale, che promise miliardi e miliardi di investimenti e un milione di posti di lavoro in cambio dello sblocco dell’estrazione nell’Alto Adriatico, e anche la politica tentò di muoversi a livello bipartisan.
Siamo fiduciosi – ebbe a dire nel 1997 Pierluigi Bersani, all’epoca ministro dell’Industria – di potere attivare la messa in produzione, nei prossimi anni, dei 30 miliardi di metri cubi di gas situati nell’ Alto Adriatico“.(11)
Nel 2008 il governo Berlusconi IV partì all’attacco del divieto, prima con un indebolimento normativo (12), poi con la presentazione di un piano triennale dell’allora ministro Scajola – fortunatamente bloccato – che riapriva la possibilità di trivellare nel tratto offshore fra il Tagliamento e Goro.
Questa l’analisi di allora del Consorzio di Bonifica Delta Po Adige:

Alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nostro secolo gli studi e le preoccupazioni delle istituzioni e dei tecnici si sono rivolte particolarmente al pericolo derivante da estrazioni di gas nell’Alto Adriatico.
La decisione di attivare estrazioni dai giacimenti dell’Alto Adriatico può determinare l’avvio di una sequenza di fenomeni gravissimi per le zone litoranee ed in particolare per le difese a mare della laguna di Venezia e del delta del Po. Il meccanismo sembra essere quello di formazione di depressioni nel litorale sommerso, che catturano gli apporti solidi indispensabili per la stabilità delle spiagge e delle difese a mare, le quali entrano presto in crisi.
I sistemi di monitoraggio allestiti per rispondere tempestivamente ai primi segnali di subsidenza sono di fatto inadeguati per fronteggiare il fenomeno, perché questo è sempre differito nel tempo rispetto alle cause che lo hanno originato, anche di molti anni: per cui la risposta è sempre tardiva e sempre inutile perché il fenomeno è irreversibile. É altresì pericoloso attivare le estrazioni cominciando dai giacimenti più lontani, come preventiva sperimentazione degli sfruttamenti successivi, non solo perché gli effetti sono molto differiti nel tempo, ma anche perché il buon senso suggerisce di controllare quanto è già accaduto nel Ravennate, in situazioni simili, soprattutto in zone geologicamente simili. Potrebbe essere molto probabile la 
depressione del fondale marino antistante la piattaforma litoranea”.(13)

Un’analisi che ritorna di forte attualità ora che il Governo Meloni ha riaperto la corsa ai giacimenti, contro cui gli abitanti e gli amministratori del territorio si sono già fortemente schierati.

(1. Continua)

Video     

Tratto da Ecor.Network.


Note:

(1) Si tratta del tratto compreso tra il 45° parallelo (poco più a nord di Boccasette, comune di Porto Tolle) e quello passante per la foce del ramo di Goro del fiume Po.

(2) ISPRA, Comuni interessati da subsidenza.

(3) Sibilla Zambon, Il metano e la sua estrazione in Polesine: un sogno che diventa incubo, 7 febbraio 2019.

(4) Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, 14 novembre 1951: l’alluvione del Polesine, in “Polaris. Popolazione a Rischio da Frana o da Inondazione in Italia”, novembre 2014.

(5) Sibilla Zambon, Op. cit.

(6) Pietro Caloi, Sui fenomeni di anormale abbassamento del suolo, con particolare riguardo al Delta Padano, pp. 72, 1959. Caloi purtroppo è ricordato anche per le sue errate valutazioni sulla diga del Vajont.

(7) Consorzio di Bonifica Delta Po Adige, Sessant’anni di bonifica nel delta del Po, 2009, p. 13.

(8) Ibidem, p. 6.

(9) Subsidenza: in 20 anni il Polesine è sprofondato di 3 metri e mezzo, Video, TG3 Veneto, 24 maggio 2021.

(10) Legge 9 gennaio 1991, n. 9, art. 4.

(11) Maxi – investimento Agip per il gas dell’ Adriatico, La Repubblica, 20/03/1997.

(12) Con Decreto-Legge 25 giugno 2008 n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, si stabiliva che il divieto di ricerca e la coltivazione di idrocarburi davanti alla costa veneziana e polesana, si sarebbe applicato “fino a quando il Consiglio dei Ministri, d’intesa con la regione Veneto, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, non avesse definitivamente accertato la non sussistenza di rischi apprezzabili di subsidenza sulle coste, sulla base di nuovi e aggiornati studi, che dovranno essere presentati dai titolari di permessi di ricerca e delle concessioni di coltivazione, utilizzando i metodi di valutazione più conservativi e prevedendo l’uso delle migliori tecnologie disponi ili per la coltivazione”.

(13) Consorzio di Bonifica Delta Po Adige, Op.cit., p. 128.




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