lunedì 3 luglio 2023 - Giovanni Greto

Tre spettacoli della Biennale Teatro di Venezia

Riflessioni profonde, spaesamento, angoscia, crudeltà, infelicità, nei lavori presentati al 51. Festival Internazionale del Teatro

Il bello della Biennale Teatro è che propone una serie di spettacoli, molti dei quali in prima italiana, alcuni in prima mondiale, che mai si vedranno nei consueti cartelloni dei teatri stabili nazionali, nei quali a prevalere è il teatro di prosa, basato sulla recitazione, vocalmente bene impostata, di un testo.

Un festival come quello veneziano, spalanca le porte al teatro di ricerca, rischiando il non gradimento, ma dando modo anche a compagnie indipendenti di far sentire la propria voce.

Intenso, toccante, lo spettacolo del drammaturgo e regista svedese Mattias Andersson, dal 2020 direttore artistico di “Dramaten”, com’è meglio conosciuto il Royal Dramatic Theatre, ossia il teatro nazionale della Svezia, mentre dal 2006 al 2019 è stato direttore artistico del “Backa Teater” di Goteborg. Entrambi i teatri hanno prodotto il lavoro, risalente al 2015, messo in scena in prima italiana alle Tese dell’Arsenale.

Il titolo, Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo, si riferisce alla trama della lunga piéce (155 minuti in due parti, separate da un intervallo di 30), costruita a partire da interviste, condotte da alcuni sociologi, i quali ponevano a un campione socioeconomico della popolazione svedese, la domanda Cosa faresti di diverso se ti fosse data una possibilità di rivivere la tua vita.

Sulla base di 137 risposte, Andersson crea una performance su come avrebbe potuto essere la nostra vita se ci fosse stata data una seconda possibilità.

Al centro dell’ampio spazio delle Tese troneggia un display con il titolo. A mano a mano che gli autori entrano nello spazio scenico, si illumina con il nome e l’età di chi risponde in quel momento. Il pubblico si dispone, senza posto fisso, su due tribune poste ai lati del perimetro di azione.

Si inizia e si finisce con la risposta di una donna, che avrebbe preferito studiare il francese, invece che il tedesco al ginnasio.

Nel lungo arco di tempo, 9 attori, rispondendo alle domande, narrano la propria vita, spesso infelice, come quella di Stefan, 43 anni : si alza alle 5 di ogni mattina e si reca in auto verso il posto di lavoro, ascoltando a volume a manetta i Metallica, per non pensare all’insoddisfazione che lo attende.

C’è Kristin, 46 anni, che, tornasse indietro, farebbe più sesso da giovane.

Dopo l’intervallo, il titolo muta in L’eterno ritorno e, alla domanda di base, se ne accosta un’altra: Se fossi costretto nel tempo a rivivere la vita di adesso, la riterresti negativa o positiva, ovvero, avresti il fegato di rivivere in perpetuo la tua vita?

Nella seconda parte partecipano tre attori del teatro di cittadinanza veneziano di Mattia Berto, richiesti dalla compagnia, tra i quali Anna, che danza in sedia a rotelle con un attore della compagnia e narra in sintesi, apparentemente con serenità, la sua esistenza, concludendo con felice stupore : “ Ed eccomi qui alla Biennale”.

Ci sono danze, con musiche a tutto volume, finché, ad un certo punto il display emette una concatenazione di frasi :

in autunno o in primavera che differenza fa?

Da giovane o nella vecchiaia, e poi?

Scomparirai comunque nell’immagine del tutto.

Tu sei scomparso, scomparisti ora, un attimo fa o 1000 anni fa. Ma la tua scomparsa in sé rimane.

C’è spazio per il coming out, mentre verso la fine fa capolino il dilemma di un intervistato : scelgo di vivere come voglio io, con tutti gli ostacoli e le difficoltà che tale scelta comporta, ma che mi fa sentire libero o scelgo di vivere come mi vogliono gli altri, inserito nella società, ma infelice in fondo all’anima?

Ascoltando le diverse storie anche lo spettatore entra in crisi, pensando a cosa risponderebbe lui.

Vede che ciò che desidera, pur dando tutto sé stesso, non riesce a realizzarsi.

Oppure sente che la propria vita si sta spegnendo senza che in tutto il tempo concessogli sia accaduto qualche cosa di interessante.

Come spiega il regista, la fusione di queste risposte dà vita ad una esibizione polifonica, visiva e coreografica insieme, che rivela il potere utopico (mi chiedo, “nel senso che insegue un ideale irrealizzabile”?) del teatro : quando le costruzioni sociali e le circostanze esterne cambiano, nessuna identità, nessun ruolo nella vita è predestinato o fissato per sempre. Nulla è eterno. Tutto ha delle conseguenze.

Applausi, ma si esce dalla sala, avvolti da un profondo turbamento.

Tanya Beyeler (Lugano, 1980), trasferitasi in Spagna a vent’anni e Pablo Gisbert (Ontinyent, provincia di Valencia, 1982) hanno creato nel 2010 a Barcellona un progetto personale di opere teatrali, chiamato El Conde de Torrefiel.

Alle Tese dei Soppalchi è andata in scena LA PLAZA (2018), 85 minuti, durante i quali il teatro diventa piazza e la piazza si fa teatro. Scene di vita quotidiana e frammenti di contemporaneità di una qualsiasi città o di un qualsiasi quartiere ci accompagnano nell’ideale tragitto di uno spettatore dal teatro verso casa.

I due registi hanno radunato sul palco attori del collettivo catalano assieme ad altri reclutati per Venezia, avvolti da una maschera di lycra a nascondere il volto, che rappresentano rider, militari, turisti, giovani, donne velate, coppie, cineasti.

Di ognuno evocano frammenti di vita, situazioni occasionali colte nella loro quotidianità, in cui però irrompe l’inaspettato, eventi gravidi di angoscia, di una violenza pronta a esplodere, tracciando un affresco del nostro mondo in conflitto. Le azioni si susseguono come tableaux vivants, scandite da un commento proiettato sullo schermo, in italiano e in inglese, un flusso di coscienza che le accompagna e si rivolge al pubblico. È così che in un sottile e spaesante gioco di sovrapposizioni, il pubblico diventa insieme attore dell’ideale percorso urbano di uno spettatore dal teatro verso casa e testimone delle vicende evocate in scena.

Spettacolo-paesaggio, La Plaza riflette lo stile che Pablo Gisbert e Tanya Beyeler hanno adottato per rispondere all’urgenza di misurarsi con il proprio tempo e di portare lo sguardo fuori dal teatro, nella piazza dove accade la vita.

Come si legge nelle note di regia, il palcoscenico diventa un’agorà, che ci permette di espandere i concetti di spazio e tempo, di andare oltre i limiti fisici di ciò che ci circonda e di osservare le tensioni create dalle forze che governano l’idea stessa di vita. Uno spazio circolare occupato da monumenti e persone; un luogo specifico capace di immaginare se stesso e proiettarsi nel futuro, concepito come un periodo sconosciuto e imprevedibile, che si concretizza come risultato di situazioni inaspettate. La civiltà avanza con trepidazione, mentre la realtà diventa paradossalmente sempre più soggettiva, emotiva e impenetrabile.

Però questo tourbillon e questo commento continuo bilingue che appare sul display, affatica lo spettatore. Gli inserimenti di troppi personaggi (a un certo punto si commemora la scomparsa poco più che 50enne di Linda Lovelace, la protagonista di “Gola profonda”), impediscono di capire che cosa gli autori vogliano comunicare, a meno che non sia la vita stressante della civiltà tecnologica.

Da segnalare, infine, che concluso lo spettacolo, ritornano subito le luci in sala, senza che alcun attore compaia a ringraziare il pubblico e/o per ricevere l’applauso.

Dura circa ottanta minuti MILK (2022), in prima italiana al teatro alle Tese. E’ definito nei crediti una performnce visiva, ideata dal giovane regista e autore teatrale palestinese (Kufer Yasif, 1992), assieme al Khashabi Ensemble di Haifa, un collettivo artistico indipendente palestinese, nato nel 2011 da due attrici, un attore, una scenografa e un regista.

In Milk – che in arabo indica sia il latte che il possesso (letteralmente “è mio”) – si indaga sulla maternità e sul dolore per la perdita.

Simbolo della vita e della sopravvivenza, il latte diventa metafora di morte, violenza e perdita.

Fin dalla prima scena, c’è la sensazione che si assisterà ad una tragedia : un gruppo di madri che hanno perso i loro figli in conflitti di guerra, o per motivi di fame o a causa di calamità naturali, cercano di sostenere manichini a grandezza naturale – usati dagli studenti di medicina per studiare l’anatomia umana – come se fossero i loro figli morti, ma alla fine non ci riescono. Metaforicamente, cercano la loro maternità perduta.

Nel susseguirsi dell’azione, il pavimento scuro, fatto di strati rettangolari di materiale spugnoso, verrà a poco a poco inesorabilmente distrutto dalla furia delle madri.

Il latte cola abbondante come un liquido maligno che quasi fa annegare le donne e mette a dura prova l’arrivo di un figlio adulto che, dapprima abbracciato, vezzeggiato o baciato, verrà poi respinto con livore, ribrezzo, rinnegato, al punto che dal suo corpo colerà copioso un sangue rosso vivo.

Spesso l’insieme delle madri e del figlio crea immagini che si riferiscono all’iconografia cristiana come la Pietà o la Passione di Gesù.

Ciò che sgomenta, al punto di apparire un incubo, è il fatto che in Milk si intersecano una miriade di storie, che non trovano uno sbocco conclusivo.

Ed ecco spiegato, grazie alle note di regia, come lo spettacolo si occupi di un disastro che non ha mai fine. Non ci occupiamo delle cause, nè della tipologia o delle conseguenze, ma del modo in cui (il disastro) divide il tempo in due – un prima e un dopo – e lo separa, trasformandolo in qualcosa che non ha né durata, né fine. Il passato diventa presente e il futuro perde ogni significato se non quello di ripetizione infinita. Come avviene un disastro? In un attimo. Come finisce? Non finisce mai. Questo è MILK, una peformance visiva di estetica post-catastrofe.

Molto belle e funzionali all’azione ora lenta, ora esasperatamente veloce, le musiche originali di Raymond Haddad, con una scelta azzeccata degli strumenti da utilizzare, episodio dopo episodio.

 

 




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