martedì 7 marzo 2017 - Aldo Giannuli

Tomaso Staiti di Cuddia

Era una domenica mattina di fine inverno del 2009 e, come ogni seconda domenica del mese, ero a Piazza Diaz per il mercatino del libro, quella volta in compagnia del mio amico Raffaele che mi presentò Tomaso Staiti (già deputato del Msi) suo conoscente, che passava occasionalmente da quelle parti.

L’uomo fu gentilissimo e, siccome stavo raccogliendo materiale e testimonianze in vista del mio libro sul Noto Servizio (uscì nel 2011 per la Tropea), ne approfittai per chiedergli una intervista che mi concesse senza farsi pregare, nonostante sapesse che fossi iscritto a Rifondazione Comunista.

E non solo non mi lesinò notizie e ricordi, ma mi mise a disposizione libri, opuscoli, riviste della sua biblioteca e molti erano pezzi assolutamente rari. Parlava del suo passato, devo riconoscerlo, con laicità e grande onestà intellettuale.

Personaggio molto particolare Staiti: fazioso (come egli stesso si definì sin dal titolo di un libro di memorie) ma capace di autocritiche tanto personali quanto della propria corrente e del proprio partito. Non amava affatto Almirante, ma mi aiutò a capirlo. Soprattutto mi fece capire il ruolo della corrente romualdiana cui era appartenuto, una corrente molto particolare, quella di maggiore spessore culturale del Msi, come attestano le sue pubblicazioni.

I romualdiani non erano propriamente dei nostalgici , perché avevano una visione realistica degli errori del ventennio e, meno che mai, erano nostalgici di Salò (dove pure Romualdi era stato nelle massime gerarchie-vice segretario del Pfr) o dei suoi 18 punti di Verona, dei quali parlavano con molta irriverenza (“per la maggioranza degli italiani i 18 punti di Verona sono i punti che aveva il Verona l’anno scorso prima di andare in serie B” disse uno di loro in un congresso, suscitando le reazioni che è facile immaginare).

E Staiti rimproverava ancora ad Almirante quell’immobilismo culturale che, ancorando l’identità del Msi alla nostalgia, aveva impedito che potesse avere un vero ruolo politico: una nicchia residuale con scarse possibilità di inserirsi nella dialettica politica.

Di Romualdi, Staiti fu allievo e direi figlio spirituale ed a lui fu sempre molto legato, ma, pur se con sofferenza, una volta riconobbe “Romualdi cercò di dare dignità ad una politica che non poteva averne”. Alludeva alla ricerca di un inserimento nelle dinamiche politiche del tempo senza smarrire l’identità di destra radicale.

E forse il punto debole di quella corrente politica -e dello stesso Staiti- fu proprio questo tentativo di conciliare il realismo politico con la persistente vocazione antisistema. Quando il Msi divenne Alleanza Nazionale e venne costituita la Fondazione Giorgio Almirante, diversi missini dissero: “Finalmente Almirante ha una fondazione… e Romualdi un partito”. C’era del vero, ma An non ebbe mai una vocazione antisistema ed, anzi, vi si omologò ben presto e, per questo, Staiti non vi aderì, preferendo peregrinare fra le diverse organizzazioni dell’arcipelago nero (Fn, Mis eccetera) che puntualmente lo deludevano e dalle quali usciva dopo poco.

Una volta mi confessò di aver votato una paio di volte per Rifondazione, identificandola come unico partito antisistema rimasto e, con la stessa motivazione, attualmente votava per il M5s. Lui non era un dannunziano ma c’era molto D’Annunzio nel suo fascismo, quantomeno dal punto di vista estetico.
Ci siamo frequentati per quasi un decennio: gli ho sempre portato copia dei miei libri di cui mi faceva puntuale critica, lui venne regolarmente a vedere le mie serate alla Fondazione Corriere.

La frequentazione con Staiti mi ha permesso di “vedere dal di dentro” il mondo del Msi, ma anche quello di una certa mondanità in cui si aggiravano Gianni Agnelli, Beppe Piroddi, Odile Rodin ed altri personaggi simili.

Da storico (e da storico della contemporaneità che ha molti protagonisti ancora in vita) mi sono sempre fatto un obbligo di non parlare solo con i testimoni della mia parte ma anche con tutti gli altri, compresi quelli del polo opposto e di non avere pregiudizi e fare sempre credito di buona fede al mio interlocutore del momento, salvo, ovviamente, valutare alla fine la testimonianza ricevuta. E questo ho cercato di insegnare anche ai miei allievi, uno dei quali pubblicò una interessante intervista proprio a Staiti su “Historia Magistra“, la rivista di Angelo D’Orsi.

Da militante politico ho sempre ritenuto doveroso rendere l’onore delle armi all’avversario leale.

Pur nella distanza delle posizioni politiche (lui è sempre restato fascista, come mi confermò a gennaio scorso, quando lo vidi per l’ultima volta ed io sono sempre comunista) scattò prima il rispetto reciproco, poi la simpatia, infine direi l’amicizia. Ed amici lo siamo stati non perché sinistra e destra non esistono più e sono valori superati, ma proprio perché lui restava uomo di destra ed io di sinistra, rifiutando entrambi la brodaglia “post ideologica” del “né di destra né di sinistra”. E laicamente riconosco il valore intellettuale e l’onestà di un uomo non comune.

Spero che i lettori capiranno questo insolito necrologio.




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