mercoledì 17 luglio 2019 - Phastidio

Tassi bassi e debito crescente: il circolo vizioso

Sono i mercati che bullizzano la Fed, non Trump

Da qualche tempo, i mercati stanno invocando massicci tagli dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. In questo, si sono affiancati ai tweet da bullo di Donald Trump, che non perde occasione per ribadire tutta la rozzezza del suo armamentario ideologico, sostenendo che la Fed starebbe legando mani e braccia all’economia statunitense, ponendola a svantaggio competitivo rispetto a Cina ed Eurozona.

La situazione è già surreale di suo, perché i mercati oggi scontano, a fine 2020, un robusto 28% di probabilità di taglio dei tassi di un intero punto percentuale, oltre ad un 75% di probabilità di un taglio di 25 punti base nella seduta del FOMC del prossimo 31 luglio.

Si è parlato di “tagli assicurativi” per mantenere in essere l’espansione, ma ci si scorda che l’entità di taglio scontata dai mercati entro la fine del 2020 assomiglia, più che ad un piccolo taglio “preventivo”, ad un contrasto a condizioni recessive. Che ad oggi negli Stati Uniti non ci sono.

Si dirà (lo dice la stessa Fed, nella persona del suo presidente, Jay Powell) che le condizioni di incertezza internazionale sono molto elevate, e pertanto serve essere pronti ad agire. Ironicamente, quelle condizioni di incertezza sono state causate soprattutto dall’azione protezionistica di Trump, a cui quindi basterebbe battere i piedi con maggior forza del solito per impadronirsi anche della politica monetaria statunitense.

Peraltro, è utile sapere che i libri di testo di economia classificano le guerre commerciali come shock negativi dal lato dell’offerta. Che significa? Che, di solito, tali eventi tendono a ridurre la produzione e ad alzare il livello dei prezzi. Quindi, in simili condizioni, una politica monetaria espansiva rischia di essere controproducente, perché stimolerebbe un’inflazione già in ascesa.

Il punto è che, oggi, le tensioni commerciali non stanno producendo alcuna pressione al rialzo sui prezzi. Non solo non c’è inflazione, ma le metriche usate dalla Fed tendono ad essere ancora lontane dalla soglia considerata ottimale, il famoso 2%.

Possiamo quindi affermare che una guerra commerciale ha smesso di essere uno shock negativo dal lato dell’offerta? Non lo sappiamo per certo. Quello che invece sappiamo, dalle audizioni semestrali della Fed davanti a Camera e Senato Usa, è che i policymaker stanno verosimilmente valutando nuovi metodi per stimare il livello dei tassi d’interesse d’equilibrio.

Sinora, di solito, si tendeva ad usare qualche versione adattata della cosiddetta Regola di Taylor, che indica a quale livello dovrebbe essere fissato il tasso nominale di breve periodo (controllato dalla banca centrale), per eguagliarlo al tasso reale di equilibrio, quello a cui corrisponde un livello di domanda aggregata pari all’offerta aggregata di piena occupazione, cioè al Pil potenziale.

La Fed, oltre ad alcune varianti della Regola di Taylor, sta monitorando anche una regola di target di livello cumulato dei prezzi. Con tale metodo, si quantifica il “buco” di inflazione cumulata nell’ultimo ventennio. Cioè di quanto la crescita dei prezzi è stata inferiore al 2% annuo di obiettivo, moltiplicato per la finestra temporale di osservazione.

Secondo questa regola il tasso sui Fed Funds, che è il tasso chiave di politica monetaria, dovrebbe oggi essere pari a zero, come si può osservare nel grafico qui sotto. Una grande differenza con le varie regole di Taylor, che vedrebbero quel tasso compreso tra il 2 ed il 3,5%.

Prospettiva storica di alcune regole di politica monetaria

Non sappiamo se questo approccio metodologico finirà con l’affermarsi. Quello che tuttavia conta è che pare farsi strada, tra le banche centrali, l’idea di “compensare” per il mancato raggiungimento dell’obiettivo annuo di inflazione. Questo significa che potrebbero esservi margini per una politica monetaria molto aggressiva in senso espansivo, per la gioia di Trump e della sua antitesi, ad esempio Alexandria Ocasio-Cortez.

Difficile sfuggire alla sensazione che, in questo modo, sia possibile giustificare tutto ed il suo contrario. Ma difficile anche sfuggire alla sensazione che tale ipotetica funzione di reazione delle banche centrali sia la risposta alle pressioni deflazionistiche presenti nel sistema economico globale.

 

Da dove originano, tali pressioni deflazionistiche? Potrebbero derivare dall’innovazione tecnologica e dalla globalizzazione in senso lato, ma potrebbero anche essere frutto di un elevato e crescente rischio di “deflazione da debito” che consegue all’enorme aumento di indebitamento in atto da circa un ventennio, ed al quale i mercati non sono estranei.

Quando in un’economia il debito assume un elevato peso, basta poco per indurre reazioni avverse negli agenti economici: le famiglie risparmiano di più, le banche e gli intermediari finanziari prestano meno. Da ciò si creano le basi per rallentamenti economici che rischiano di sfuggire di mano nella misura in cui i mercati dovessero entrare in panico, producendo effetti terribilmente reali sull’economia.

In effetti, sono circa vent’anni che le banche centrali corrono in soccorso di mercati che ad intervalli regolari rischiano di collassare sotto il peso di debiti agevolati da una politica monetaria lasca, che a sua volta serve a stimolare l’economia ma anche (o soprattutto?) ad evitare crack finanziari planetari. Più che da Trump, potremmo dire che la Fed è stata bullizzata con successo proprio dai mercati, nell’ultimo anno.

Un gioco di specchi tra l’economia finanziaria e quella reale, in cui il debito si autoalimenta, minaccia periodicamente di seppellire sotto il proprio peso il genere umano, e viene “posto in sicurezza” dalle banche centrali, con le stesse prassi che ne hanno favorito l’aumento. Chissà perché, non pare esattamente una dinamica sana.




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