giovedì 9 gennaio - Giovanni Greto

Takuya Kuroda, Alfredo Rodriguez e Braxton Cook al Blue Note di Tokyo

Tre concerti insipidi per un pubblico troppo generoso

Trio Kudora
(Trio Kudora Foto MAKOTO EBI)

Nel mite autunno di Tokyo ho assistito a tre concerti di poco spessore, gli ultimi due, nell’ordine, davvero brutti.

Il trombettista giapponese Takuya Kuroda (Ashiya, febbraio 1980) si è presentato, per un’unica data, alla testa di un nonetto composto da cinque fiati, una chitarra elettrica, un basso elettrico, un piano e tastiera, una batteria, per dar vita a un progetto Special. Niente di nuovo nella sua musica, votata principalmente al Funk, ma in cui si inseriscono un Post Bop, un po’ di Soul e l’onnipresente Hip-Hop.

Per una persona che non frequenta con assiduità le sale di concerti , potremmo definire, il suo, un concerto ascoltabile, senza infamia né lode, durante il quale non ci si annoia troppo, per la contenuta durata di ognuno dei due set – nel mio caso, il primo, si ferma a 62 minuti.

Sei i brani in totale, da Takscoce al bis Made for Love. Un apprezzabile affiatamento, un nuovo ingresso, il sassofonista Tomoaki Baba, unico fiato privo di spazio per le improvvisazioni.

I solo più lunghi sono spettati al leader, che prevedibilmente ha posto in secondo piano il secondo trombettista (Miki Hirose).

Dignitosi, anche senza entusiasmare, i suoi assolo, come pure quelli del sax tenore Craig Hill e del trombonista Corey King.

Attenta la sezione ritmica, impegnta a mantenere un tappeto sonoro inappuntabile, costituita dal pianotastierista Takeshi Ohbayashi, dal chitarrista Akira Ishiguro, dal bassista Rashuqan Carter e dal batterista Tomoaki Kanno, dietro un drum set allargato – 2 timpani, un tom, 4 piatti, 2 rullanti (una moda che ha preso piede da qualche tempo, di cui personalmente, non afferro l’utilità).

Trio Rodriguez
(Trio Rodriguez Foto Great The KABUKI cho)

Passano solo tre giorni, allorchè mi accingo ad ascoltare il trio del pianista cubano Alfredo Rodriguez, che subito si è presentato con una serie di ringraziamenti stucchevoli ad un locale che lo invitò quando ancora non era molto conosciuto (ma non è che lo sia tanto anche adesso, almeno per chi scrive).

La musica cubana si impone sempre per una gradevole cadenza e varietà ritmica , le quali, tuttavia, se non sono unite a una capacità intelligente di scelta del repertorio o a una meritevole dote compositiva, riducono la musica stessa ad un ascolto superficiale, tipico di una festa di partito o di un ultimo dell’anno o simile.

E’ stato questo il caso di Rodriguez, che ha percosso il pianoforte dall’inizio alla fine del set (in totale, 73 minuti), eseguendo sei titoli, più due bis, di un repertorio costituito da brani conosciutissimi come Besame mucho ; El Manisero, composto nel 1922 da Moisès Simons, diventato nel tempo un ballabile plurinterpretato (anche nelle versioni italiane o anglofone) ; Guantanamera di Joselito Fernandez Diaz, che la scrisse nel 1928, dedicandola ad una donna di Guantanamo.

Accanto ai ritmi latini del trio – completato da Yarel Hernandez al basso elettrico e Michael Oliveira alla batteria – si insinuava l’ormai onnipresente Funk, che non si sposa bene particolarmente con la musica cubana.

Ciò nonostante, Rodriguez continua ad essere invitato al Blue Note – ha rivelato che questa era la sua ottava presenza, proponendo, rispetto a quanto si può vedere nel web, una musica eseguita in modo superficiale, nella certezza che la ballabilità dei ritmi cubani possa bastare per soddisfare il pubblico giapponese. Un atteggiamento di poco rispetto verso un popolo, ormai in grado di sfornare musicisti validi sia nel Jazz, che nel Latin che nella musica classica.

Cook
(Cook Foto di TSUNEO KOGA)

Braxton Cook chi era costui? Potrebbe iniziare così, prendendo a prestito l’incipit di un capitolo dei Promessi Sposi, l’indagine su di un musicista americano giovane, classe 1991, che non conoscevo per niente. E che non vale nemmeno la pena di conoscere.

Si tratta di un altosassofonista, cantante, capace anche di accompagnarsi alla tastiera, il quale, nonostante una patente versatilità, non riesce a convincere in nessuna delle tre situazioni elencate.

Si presenta alla guida di un quartetto, completato da Lucas Kadish, alla chitarra elettrica ; Henoc Montes, al basso elettrico ; Curtis Nowosad, alla batteria.

Ha dato vita ad un easy listening vicino a quei noiosi e importuni Jingle, di cui siamo prigionieri, nei momenti di attesa telefonica.

Come sassofonista, il suo suono non mi piace. Il più brutto esempio della scaletta ascoltata è il quinto brano, MB (For Ma’Khia Bryant). Dopo l’inizio, affidato ad un lungo assolo, parte un accompagnamento batteristico su di un pad elettronico, esiziale ed indisponente, a tal punto che verrebbe voglia di lasciare in un batter d’occhio il locale.

Ci sono episodi di Breaks tra la batteria in alternanza con il sax e la chitarra. Il risultato è sconfortante, soprattutto per l’incapacità di Nowosad di avvincere la platea : pesante sia nel tocco, che nella corporatura, non ha mai un’invenzione intelligente che possa stupire, come molti batteristi di jazz, ahimè scomparsi.

Il concerto si conclude – 65 minuti la durata complessiva – con un inutile funky a tempo medio.

 




Lasciare un commento