martedì 12 gennaio 2016 - Ennio Francavilla

Sulla Lingua Globalizzata: per un possibile approccio al tema della giustizia linguistica

Ennio Francavilla - Lingua possibile

Chi può ragionevolmente dirsi a favore dei privilegi? Chi può giustificare e agire a favore di un ingiustificato vantaggio?

Tutti risponderanno che si dovrebbero avere, nel limite del possibile, le stesse possibilità di partenza.

Eppure quando si parla di lingua internazionale, il privilegio di chi è madrelingua inglese pare ignorato. Chiunque sarebbe in grado di riconoscere in ciò un privilegio, ma al contrario di quanto accade di fronte ad altre palesi ingiustizie, di fronte a quella che ha come oggetto la lingua internazionale l'indignazione è pressoché nulla. Sembra che l’inglese si sia imposto per una sorta di volontà divina e che si debba accettare la sua supremazia con la più totale rassegnazione e investendo un’impressionante quantità di denaro e di energie per riscattare la colpa di essere nati non anglofoni. Infatti quelli che possono permettersi di apprendere fruttuosamente una lingua straniera ci si affannano, come se si trattasse di recuperare un vantaggio di tipo atletico e non di un’incolmabile distanza; come se non si trattasse del patetico tentativo dello schiavo di parlare la lingua del padrone.

Perché quando non si oppone resistenza alcuna all’angloamericano della globalizzazione, si legittima la lingua che si è imposta con la forza dell’imperialismo britannico prima e statunitense poi. Perché, più in generale, se si accetta di parlare in un contesto internazionale la lingua di una nazione che si è imposta sulle altre, implicitamente si sta legittimando la sua superiorità.

L’INGLESE, LINGUA CIVILIZZATRICE

A sostegno delle loro tesi reazionarie e razziste, a difesa dei massacri perpetrati a danni dei popoli colonizzati, i filo-colonialisti non esitano ad esaltare i benefici dell’ opera “civilizzatrice” dei bianchi: strade, scuole, ospedali etc. Questo a dir loro sarebbe un dato apprezzabile di per sé, a prescindere che ciò sia stato fatto per perfezionare il meccanismo di sfruttamento delle risorse depredate.

A questi presunti benefici aggiungerebbero naturalmente anche quello linguistico. Dal loro punto di vista, le potenze coloniali hanno insegnato ai popoli “selvaggi” una lingua evoluta, prestigiosa, utile. Quindi il radicamento delle lingua coloniale inglese garantirebbe un vantaggio alle ex colonie, quello di non dover apprendere la lingua straniera più studiata al mondo - altra giustificazione (o almeno attenuante) del giogo secolare.

Questo argomento è proprio di una mentalità contigua a quella colonialista: dato che l’aspetto linguistico è ovviamente da considerarsi fondamentale, secondo tale argomento, il colonialismo non sarebbe da rigettare in tutti i suoi caratteri fondamentali. Esaltare la convenienza dell’ufficialità (o co-ufficialità) della lingua inglese nelle ex colonie britanniche significa fare esattamente lo stesso: legittimare l’opera “civilizzatrice” di quell’immane tragedia che fu il colonialismo e contribuire a perpetuarlo nella sua versione più moderna.

L’INGLESE SI AUTO-ELEGGE LINGUA DELLA GLOBALIZZAZIONE

Dal punto di vista linguistico il neocolonialismo è molto più evidente che da quello politico, economico o culturale. Vale a dire che il neocolonialismo si manifesta di più attraverso l’imposizione della lingua inglese che, ad esempio, attraverso i profitti delle multinazionali.

E’ ormai evidente che l’angloamericano domini su ogni altri lingua veicolare e risaputo che la sua diffusione ha origine dal colonialismo classico e che si sia giovato poi delle fortune della superpotenza USA. Dalla caduta del muro di Berlino l’inglese si è imposto come la lingua del vincitore, dell’unica superpotenza superstite della guerra fredda. L’insieme dei processi che hanno definito la globalizzazione ha fatto poi sì che, per la prima volta nella storia, una lingua nazionale si auto-legittimasse lingua internazionale.

Così, oggi, a livello planetario, nei contesti internazionali, la politica (anche quella contro la globalizzazione), l'economia (anche quella antiliberista), la cultura contemporanea (anche quella contestataria), i mezzi di comunicazione e di informazione, la scienza, la formazione, il volontariato, lo sport, la pubblicità, sono quasi sempre servi dell'angloamericano, rinunciano sempre più spesso alle traduzioni, all'interpretariato e in generale al multilinguismo e non concepiscono minimamente l'idea di una lingua equa (se non per altro perché artificiale) come l'Esperanto; ma in ogni campo sempre più anche le lingue nazionali (l'italiano in modo particolare) sono travolte da anglicismi non adattati che garantiscono l'adesione a quest'anglocentrica visione del mondo. Anche a livello quotidiano il più comune mortale non anglofono non esita a imbaldanzirsi non appena gli pare di aver acquisito una qualche familiarità con la lingua globalizzante, farcendo i discorsi più banali di tecnicismi inglesi perfettamente traducibili e cercando di risultare al passo coi tempi a forza di yesfree e easy.

IL PARADOSSO

Dunque, trattandosi di una questione linguistica, il parallelo con il colonialismo classico viene a mancare da subito innanzitutto per il carattere globale (e non più regionale) della diffusione linguistica, ma anche, in un secondo momento, per il fatto che la lingua imperialista continua a diffondersi nonostante il chiaro declino dell’impero che l’ha imposta al mondo. Mi riferisco al fatto che ormai da anni, senza che ciò sia appannaggio degli esperti di economia mondiale, l’impero statunitense rischia di cedere la sua egemonia a quello cinese.

Eppure a livello mondiale governi e privati cittadini investono ingentissime quantità di denaro e di energie per imparare una lingua che si è auto-eletta globalizzante e che per giunta è emanazione di un impero ormai decadente.

Perché? L’argomento preferito degli anglicisti furiosi è che l’inglese sarebbe la lingua più semplice e funzionale di tutte (quindi con la pretesa di aver preso in considerazione tutte le lingue del mondo!).

Contro questo argomento, invece, senza ricorrere al malese, basterebbe ripassare un po’ di storia, per scoprire molto facilmente che anche altre lingue internazionali del passato come il greco, il latino e il francese continuarono a diffondersi anche per molti secoli dopo la caduta dell’impero che le aveva imposte; lo stesso vale per altre lingue coloniali (lo spagnolo, il portoghese, ma anche il russo); aggiungendo che oramai nell'insegnamento delle lingue straniere a livello mondiale il cinese, notoriamente considerato lingua molto ardua da apprendere, sta invece letteralmente dilagando.

Dunque è provato che per motivi anche diversi da quelli politici ed economici, una lingua imperialista può continuare a diffondersi: per strutture già predisposte, per prestigio culturale, per moda etc. senza che ci si debba riferire a una sua qualche qualità intrinseca. 

Insomma, deridiamo l’alternativa dell’Esperanto (invece assolutamente rispettabile) e ci affanniamo, fino a maledire la nostra lingua madre, per impararne una che ci è stata illegittimamente imposta da un padrone ormai decrepito e cascante, ma ancora capace di agire in modo violento e crudele. Senza ragionare su una possibile alternativa all'imperialismo linguistico, restiamo inerti, nell'attesa del prossimo, ormai imminente impero.




Lasciare un commento