Sugli auguri
Non è – non è mai stato – un numero che cambia sul foglio di un calendario a modificare la direzione del treno della vita e della storia. A me pare anzi che da qualche tempo salutiamo anni che nascono e muoiono solo apparentemente, mentre tutto è come fermo al terribile 1984 immaginato da Orwell.
Anch’io come tanti sono disperato, ma mi pare di ricordare che negli anni della mia giovinezza, Marcuse ci spingeva a riflettere su un dato essenziale: non abbiamo a che fare con barbari che premono ai confini dell’impero, ma con una crisi di civiltà in un tempo feroce, che produce disperati e disperazione ben dentro i suoi confini, nel cuore pulsante delle metropoli marce e riottose, tra quelli che un tempo orgogliosamente dichiaravano «civis romanus sum» e oggi sono un corpo disgregato e putrescente. È la civiltà che interrompe se stessa e il suo corso. In questo degrado viene in mente ciò che Walter Benjamin ebbe a scrivere all’alba del fascismo: la sola, possibile speranza di futuro viene dai disperati.
Forse ha ragione chi dice che «farsi gli auguri», come l’anno scorso, non avrebbe senso. È vero anche però che, per sperare almeno nei disperati, occorre conservare una qualche fede nelle risorse di una umanità disperata. Ecco perché a me pare giusto e persino doveroso augurare almeno questo a tutti noi: che riusciamo a difendere la speranza. Che, come antiche Vestali, nei giorni che verranno noi sapremo far si che, sotto le ceneri della barbarie, il sacro fuoco della civiltà non si spenga.