giovedì 5 febbraio 2015 - angelo umana

Still Alice di Wash Westmoreland e Richard Glatzer


Anna Maria Pasetti sul Fatto Quotidiano del 22 gennaio definisce questo film “Classico dramma da commozione con dignità, offre più spunti di riflessione e apprezzamenti umani che non cinematografici”.

Julianne Moore ha già ricevuto il Golden Globe per la sua intensa interpretazione, facile che un altro premio arrivi dagli Oscar. Deve essere professionalmente preparata un’attrice ultra cinquantenne che si mette nella parte di un’insegnante di linguistica all’università e relatrice a convegni, che comincia a perdere la memoria e i suoi punti fermi, lei che era un’ambiziosa sé stessa affascinata dalla comunicazione, che si definiva in base alla sua intelligenza, proprietà di linguaggio, argomentazioni.



Forse però ha ragione la Pasetti: il film commuove, raggiunge lo scopo come gli americani sanno fare, ha belle immagini, una bellissima Kristen Stewart nella parte di una dei figli della protagonista, quella dei tre che empatizza di più con la madre, c’è la casa al mare e le passeggiate della protagonista sul bagnasciuga, la famiglia che non la lascia sola nel suo decadimento, può perfino tenere una conferenza sulla sua malattia. E’ coraggioso che il regista Richard Glatzer abbia deciso di mettere in scena il libro dallo stesso titolo, del 2007, di Lisa Genova (neuroscienziata e novellista 45enne americana) sulla malattia di Alzheimer, lui che è malato di Sla. Però … però gli americani sanno spettacolarizzare tutto, ci comprano con le emozioni. Che distanza rispetto alla vecchiaia dimessa mostrata in Amour di Haneke e rispetto all’Alzheimer triste di Una sconfinata giovinezzadi Pupi Avati (film del 2012 e 2010 rispettivamente).

Qui vengono date delle istruzioni su come affrontare la malattia, visto che con il progredire della vita media delle nostre società, ancora in parte opulente, sarà forse diffusissima: registrare un messaggio che ci ricordi cosa fare per avvelenarsi e farla finita in un attimo di lucidità, quando essa sia andata troppo avanti, imparare l’arte del perdere, non sentirsi ridicoli e incapaci perché questo è la nostra malattia, non siamo noi, esser dotati di smartphone con cui esercitarsi sulle parole – eppure sono gli smartphones, i navigatori satellitari e i motori di ricerca che ci stanno disabituando a ricordare e forse ragionare – essere soddisfatti che la propria vita non è stata una tragedia pure se breve come quella delle farfalle bellissime ed effimere.

E’ ottimista Julianne Moore: vorrebbe che tutto andasse avanti, rimanere in contatto con quella che era una volta, pensare a cose ancora da fare nella vita: lo spirito attivo americano. Eppure il medico non le nasconde che la malattia progredisce più in fretta e più gravemente in chi si è dedicato ad attività intellettuali. Le tornano davanti immagini dell’infanzia, la regressione a un tempo felice che era pure nel film di Pupi Avati. Rimanere ancora Alice, Still Alice, ma che non sia una vita ferma, una Still Life (altro film di Uberto Pasolini del 2013).

 

 




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