martedì 13 dicembre 2016 - Giovanni Greto

Stefano Zenni, "Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore”

(EDT Risonanze).

Ha senso ancora parlare di razza nel XXI° secolo? Cosa pensare degli Stati Uniti d’America, una nazione che ama e pretende di ergersi a paladina della giustizia, difensore degli oppressi, e che tuttavia continua a chiedere, nel modulo relativo al censimento decennale, ad ogni cittadino di dichiararsi “white, black, african american, negro, american indian or alaskan native”? Ecco allora che, chi più, chi meno, ricorre al “Passing”, cioè decide di farsi passare per un individuo di un’altra razza, religione, etnia, cultura. Un escamotage per riuscire ad imporsi nella carriera lavorativa (in politica, soprattutto) o nel mondo dello spettacolo e per essere maggiormente considerato come persona umana. Molti neri segnano la casella “bianco”, però succede che anche musicisti bianchi desiderano essere considerati neri, per entrare a far parte di una comunità musicale che ammirano e con i cui membri preferiscono e desiderano suonare. Questo e molto altro ancora si legge in “Che razza di musica”, un testo di Stefano Zenni, nato da una delle lezioni (i rapporti tra i bianchi e i neri nel Jazz) che l’Autore tiene da quattro anni per l’Auditorium Parco della Musica di Roma, un’occasione per approfondire i numerosi temi emersi in quella lezione.

Dopo una breve premessa nella quale si apprende che il libro affronta la questione del rapporto tra razzismo e musica, in particolare i repertori africano americani degli Stati Uniti come il jazz, il rhythm and blues, il soul e, marginalmente, l’hip hop ed altri generi, l’Autore introduce sinteticamente in maniera assai chiara, che cosa si intende per razzismo, spesso confuso con l’odio per il diverso, mentre il senso comune ci dice che “razzismo è credere che la specie umana sia divisa in razze biologicamente distinte, e considerare alcune di esse superiori e altre inferiori”. E ancora, la sua nascita e il luogo storico (il 1492 e la Spagna) e il suo continuare fino ai nostri giorni : c’è veramente da mettersi le mani nei capelli a leggere il modulo del censimento USA del 2010. Pur citando parecchi studiosi, saggiamente Zenni non ha segnalato subito con note a piè di pagina l’origine dei testi citati, condensando il tutto in una breve, ma importante bibliografia ragionata, in coda al volume.

Nella prima parte, “I colori della musica”, si entra nel mondo nero e in due realtà di quello bianco, il mondo ebraico e gli italo americani, che svolsero e continuano a svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo del Jazz. Detto del passing, meritano un accenno le cosiddette “one drop rules”, leggi basate sulla regola “una goccia”(one drop) : chi ha anche solo una goccia di sangue nero, è dichiarato nero, a prescindere dal colore della pelle. E ancora, il “Colorism”, il colorismo. Si tratta di una complessa stratificazione di status, legata alle sfumature di colore, “più la pelle è chiara, più alto è lo status dell’individuo; un pregiudizio che investe in modo drammatico la comunità africano americana a tutti i livelli”.

Dopo “Interludio storico. Mescolare i colori”, nel quale Zenni analizza il complesso rapporto tra “bianchi” e “neri”, che ha influenzato e plasmato l’idea stessa del Jazz, all’interno del quale i musicisti bianchi continuano a detenere un potere precluso ai neri, nella seconda parte il capitolo “Folklore e repertori”, si domanda che cosa sia, se ha senso parlare di una musica nera e se è possibile rintracciare una musica nera autentica. In “Lo swing e le voci nere” si abbattono i luoghi comuni sull’innatezza del ritmo e sulla capacità di swingare, che sarebbe un’esclusiva dei neri. E sulle caratteristiche delle voci nere che, a detta di critici e pubblico, hanno una qualità ineffabile, un colore, una grana, un’intonazione, che le distinguerebbe dalle voci bianche. Non manca una tirata di orecchie ad Amiri Baraka, LeRoi Jones nel 1963, quando pubblicò “Il popolo del blues” e guidò il movimento, di brevissima vita, BAM (Black Arts Movement) che esercitò un forte influsso intellettuale nell’affermazione di principi estetici che esaltavano i tratti espressivi non occidentali. Una sorta di razzismo alla rovescia, nel quale sono caduti musicisti come Wynton Marsalis e Nicholas Payton, che rivendicano la natura esclusivamente americana del Jazz, relegando i bianchi a un ruolo complementare.

Nel capitolo conclusivo, “Di che colore è la musica nera”, l’Autore analizza uno dei paradossi della società americana, quello di “attribuire a certi cittadini una specifica identità di “nero” senza mai definire con chiarezza quella di “bianco”. Nel congedarsi dai lettori, Zenni ricorda come, secondo W.E.B. Dubois in “le anime del popolo nero”(1903), la musica degli africano americani sia l’eccezionale dono che gli ex schiavi hanno fatto al mondo. E dunque, per “accogliere ed apprezzare quel dono è necessario fare pulizia delle incrostazioni ideologiche e mitiche di cui ci ha avvertito Stuart Hill (in “Cultura, razza e potere”, 2015). A riscoprirla nella sua complessa realtà storica multiculturale, la vicenda delle musiche africano americane sprigiona una costante forza ispiratrice, che è ideale, strategica, artistica, politica".




Lasciare un commento