mercoledì 2 maggio 2018 - La bottega del Barbieri

Siria, Afrin | Perché la guerra contro i curdi riguarda anche noi

di Ginevra Bompiani (*)

Lanciata la campagna «SiAmo Afrin»: ovunque vi sia da una parte un progetto di convivenza pacifica e dall’altra il desiderio di mistificare e annientare, è facile decidere da che parte stare.

Martedì mattina, 23 aprile, ho trovato al risveglio sul mio cellulare le solite quattro notizie. Una di queste diceva che alle 9,30, alla Città dell’Altra Economia (a Roma), una conferenza stampa avrebbe annunciato la campagna «SiAmo Afrin».
Una campagna per rompere il silenzio internazionale sull’invasione turca della città di Afrin e il disastro umanitario che sta causando.

Che cosa ti fa scegliere fra tutte le notizie e decidere che una di loro ti riguarda? Pur sapendo assai poco di Afrin (perché le notizie sulla guerra in Siria mi sono divenute insopportabili), mi sono alzata e ci sono andata. La stessa cosa è successa 24 anni fa quando qualcuno ha detto che la Biblioteca di Sarajevo era stata bruciata. Quella guerra lontana, di cui capivo poco, si è improvvisamente avvicinata: l’incendio ha illuminato la scena.

I libri hanno fatto la mia vita e sebbene molti dicessero: a che servono i libri dove mancano il pane, l’acqua, la luce, e i cecchini prendono di mira le donne al mercato? Sapevo di poter rispondere: danno senso alla vita, anche a questa.

E così pure Afrin, città siriana del Rojava, che i curdi hanno liberato dalle forze jihadiste e che il 18 marzo 2018 è stata occupata e saccheggiata dai turchi, nel corso di un’operazione chiamata «Ramoscello d’ulivo» (forse perché l’ulivo è il simbolo di Afrin), anche questa città si stacca dalla grande e confusa tragedia siriana e diventa in qualche modo la nostra città. La Siria è una tragedia e una menzogna, alla quale non possiamo aggiungere né togliere niente. Possiamo solo guardare e piangere come nell’Apocalisse di Giovanni i mercanti piangono su Babilonia: «Guai, guai, immensa città, Babilonia, possente città; in un’ora sola è giunta la tua condanna!».

Ma Afrin è qualcosa di più: è il luogo dove la ferocia è più sfacciata (il 16 febbraio i turchi avrebbero effettuato un attacco con gas tossici; il 22 febbraio avrebbero bombardato un convoglio di aiuti umanitari; secondo l’Onu i fuggiaschi sono stati usati come scudi umani; secondo le milizie curde sono stati arruolati contro di loro ex-combattenti dell’Isis; e secondo un’inchiesta, l’Unione Europea ha dato alla Turchia 80 milioni di euro per acquistare mezzi blindati e armi); ed è il luogo dove la mistificazione è più impudente, visto che nel silenzio-consenso di Oriente e Occidente, il popolo che ha combattuto con successo la jihad viene poi sgominato dai cosiddetti alleati.

Ma è anche l’unico luogo sulla terra dove alla generale fame di guerra e aggressione, viene opposto l’esperimento di una convivenza pacifica, non solo interna, ma con i popoli siriani, iraniani, turchi e iracheni, con i quali i curdi coabitano da anni senza pretendere di spostare le frontiere o di ritagliarsi un proprio territorio (causa infinita di guerra fra Israele e Palestina); infine è il luogo dove è stato istituito, seguendo l’idea di Ocalan, un confederalismo democratico, che nel 2014 ha dato luogo al Contratto Sociale del Rojava, che «rifiuta il nazionalismo, e promuove una società egualitaria, paritaria, rispettosa dei diritti delle minoranze» (quella che verrà definita una «democrazia senza Stato»).

È anche il primo tentativo di rovesciare il patriarcato a favore di una convivenza pacifica guidata dalle donne. E questa non è certo l’ultima ragione, per cui il mondo assiste in silenzio all’annientamento di un popolo e una cultura.

Alla Città dell’Altra Economia, nella piccola «stanza dei convegni», ascoltando le poche persone che parlavano (la giovane e bella Hawzhin Azeez, co-fondatrice della Fondazione Hêvî, responsabile del progetto di ricostruzione della città di Kobane); Paolo Bernabucci, presidente del Gruppo di Umana Solidarietà; Karim Franceschi, che ha combattuto al fianco del popolo Kurdo per liberare Raqqa – dice che adesso che un Paese membro della Nato ha invaso e occupato Afrin, le armi non servono più, ma è la società civile mondiale che deve agire e far sentire la sua voce – e altri coraggiosi rappresentanti di questa o quella associazione – invisibile fra loro, ma presente, Zero Calcare che ha disegnato il logo – mentre li ascoltavo, pensavo: qui non siamo condannati all’impotenza, qui possiamo fare qualcosa.

Ed ecco alcuni suggerimenti: raccogliere fondi a favore degli sfollati di Afrin (circa 400mila, senza cibo né tende) a questo indirizzowww.l2l.it/siamoafrin. Prendere la parola, in qualsiasi forma o modo, per interrompere il silenzio della comunità internazionale, spingerla ad agire e a fornire aiuti umanitari, svegliare l’opinione pubblica, denunciare l’ipocrisia, sostenere le forze rivoluzionarie e democratiche del Rojava.

Perché ovunque vi sia da una parte un progetto di convivenza pacifica (com’era un tempo la Jugoslavia), e dall’altra il desiderio di mistificare e annientare, è facile decidere da che parte stare e sapere che cosa fare, perché ne va del nostro presente e della sola idea di futuro che non coincida col deserto.

(*) pubblicato sul quotidiano «il manifesto»




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