Siria, Afrin | Perché la guerra contro i curdi riguarda anche noi
di Ginevra Bompiani (*)
Lanciata la campagna «SiAmo Afrin»: ovunque vi sia da una parte un progetto di convivenza pacifica e dall’altra il desiderio di mistificare e annientare, è facile decidere da che parte stare.
Una campagna per rompere il silenzio internazionale sull’invasione turca della città di Afrin e il disastro umanitario che sta causando.
Che cosa ti fa scegliere fra tutte le notizie e decidere che una di loro ti riguarda? Pur sapendo assai poco di Afrin (perché le notizie sulla guerra in Siria mi sono divenute insopportabili), mi sono alzata e ci sono andata. La stessa cosa è successa 24 anni fa quando qualcuno ha detto che la Biblioteca di Sarajevo era stata bruciata. Quella guerra lontana, di cui capivo poco, si è improvvisamente avvicinata: l’incendio ha illuminato la scena.
I libri hanno fatto la mia vita e sebbene molti dicessero: a che servono i libri dove mancano il pane, l’acqua, la luce, e i cecchini prendono di mira le donne al mercato? Sapevo di poter rispondere: danno senso alla vita, anche a questa.
E così pure Afrin, città siriana del Rojava, che i curdi hanno liberato dalle forze jihadiste e che il 18 marzo 2018 è stata occupata e saccheggiata dai turchi, nel corso di un’operazione chiamata «Ramoscello d’ulivo» (forse perché l’ulivo è il simbolo di Afrin), anche questa città si stacca dalla grande e confusa tragedia siriana e diventa in qualche modo la nostra città. La Siria è una tragedia e una menzogna, alla quale non possiamo aggiungere né togliere niente. Possiamo solo guardare e piangere come nell’Apocalisse di Giovanni i mercanti piangono su Babilonia: «Guai, guai, immensa città, Babilonia, possente città; in un’ora sola è giunta la tua condanna!».
Ma Afrin è qualcosa di più: è il luogo dove la ferocia è più sfacciata (il 16 febbraio i turchi avrebbero effettuato un attacco con gas tossici; il 22 febbraio avrebbero bombardato un convoglio di aiuti umanitari; secondo l’Onu i fuggiaschi sono stati usati come scudi umani; secondo le milizie curde sono stati arruolati contro di loro ex-combattenti dell’Isis; e secondo un’inchiesta, l’Unione Europea ha dato alla Turchia 80 milioni di euro per acquistare mezzi blindati e armi); ed è il luogo dove la mistificazione è più impudente, visto che nel silenzio-consenso di Oriente e Occidente, il popolo che ha combattuto con successo la jihad viene poi sgominato dai cosiddetti alleati.
Ma è anche l’unico luogo sulla terra dove alla generale fame di guerra e aggressione, viene opposto l’esperimento di una convivenza pacifica, non solo interna, ma con i popoli siriani, iraniani, turchi e iracheni, con i quali i curdi coabitano da anni senza pretendere di spostare le frontiere o di ritagliarsi un proprio territorio (causa infinita di guerra fra Israele e Palestina); infine è il luogo dove è stato istituito, seguendo l’idea di Ocalan, un confederalismo democratico, che nel 2014 ha dato luogo al Contratto Sociale del Rojava, che «rifiuta il nazionalismo, e promuove una società egualitaria, paritaria, rispettosa dei diritti delle minoranze» (quella che verrà definita una «democrazia senza Stato»).
È anche il primo tentativo di rovesciare il patriarcato a favore di una convivenza pacifica guidata dalle donne. E questa non è certo l’ultima ragione, per cui il mondo assiste in silenzio all’annientamento di un popolo e una cultura.
Alla Città dell’Altra Economia, nella piccola «stanza dei convegni», ascoltando le poche persone che parlavano (la giovane e bella Hawzhin Azeez, co-fondatrice della Fondazione Hêvî, responsabile del progetto di ricostruzione della città di Kobane); Paolo Bernabucci, presidente del Gruppo di Umana Solidarietà; Karim Franceschi, che ha combattuto al fianco del popolo Kurdo per liberare Raqqa – dice che adesso che un Paese membro della Nato ha invaso e occupato Afrin, le armi non servono più, ma è la società civile mondiale che deve agire e far sentire la sua voce – e altri coraggiosi rappresentanti di questa o quella associazione – invisibile fra loro, ma presente, Zero Calcare che ha disegnato il logo – mentre li ascoltavo, pensavo: qui non siamo condannati all’impotenza, qui possiamo fare qualcosa.
Ed ecco alcuni suggerimenti: raccogliere fondi a favore degli sfollati di Afrin (circa 400mila, senza cibo né tende) a questo indirizzowww.l2l.it/siamoafrin. Prendere la parola, in qualsiasi forma o modo, per interrompere il silenzio della comunità internazionale, spingerla ad agire e a fornire aiuti umanitari, svegliare l’opinione pubblica, denunciare l’ipocrisia, sostenere le forze rivoluzionarie e democratiche del Rojava.
Perché ovunque vi sia da una parte un progetto di convivenza pacifica (com’era un tempo la Jugoslavia), e dall’altra il desiderio di mistificare e annientare, è facile decidere da che parte stare e sapere che cosa fare, perché ne va del nostro presente e della sola idea di futuro che non coincida col deserto.
(*) pubblicato sul quotidiano «il manifesto»