lunedì 6 febbraio 2012 - alfadixit

Siamo in uno stato di diritto; anche troppo

Parlare oggi di diritti senza menzionare i doveri sembra di scomodare la più ovvia retorica, ma questa pare proprio essere l’istantanea del nostro paese.

L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. E’ l’articolo primo della costituzione, un articolo dove i padri fondatori intendevano affermare che è sulla “fatica” del lavoro che deve poggiare la società e la convivenza civile. Ed è proprio il lavoro, visto prima di tutto come dovere, il filo conduttore che ha guidato il nostro paese nell’immediato dopoguerra, un filo fatto di sacrificio, altruismo, senso della collettività, onestà, principi scolpiti nelle menti di quegli uomini autodiretti che hanno scritto molte delle pagine più belle del nostro paese; dalle macerie all’opulenza. Ma sono anche i principi che proprio quella stessa società dell’opulenza ha liquefatto, estirpato, seppellito definitivamente sotto due metri di terra, e senza lapide per giunta, per poterli dimenticare più velocemente. La nostra si è definitivamente trasformata nella società dello spettacolo e dei diritti.

Il diritto al lavoro appunto, il diritto all’istruzione, all’assistenza, il diritto alla pensione, il diritto alla casa, alla libertà, il diritto ad avere diritti o in altre parole, a pretendere prestazioni dalla collettività. Questo, si diceva, non è però quello che ci insegna la storia, non solo questo perlomeno. Il diritto allo studio è legittimo solo se chi lo esercita compie il proprio dovere con impegno e dedizione e, ovviamente, portando i risultati attesi. Altrimenti tutto decade, è insomma un diritto della società sospenderlo perché i diritti, tutti, sono figli della fatica e prima di tutto di doveri, perché non sono gratuiti ma pesano sulle spalle della collettività, ed è proprio l’interesse della collettività ad avere priorità rispetto a quello del cittadino. Forse questo lo abbiamo dimenticato, ma è la base fondante di una normale democrazia.

Così il diritto al lavoro, sacrosanto certo, ma solo per chi quel diritto lo suda, solo per chi è disposto a confrontarsi col mercato, il diritto vale insomma per coloro che accettano la buona e la cattiva sorte, quei momenti cioè che inevitabilmente attraversano la vita di tutte le comunità. Mi chiedo ancora come possa essere considerato un diritto percepire una pensione non guadagnata. Parlo di quell’esercito di pensionati che a sessant’anni o prima, sono stati messi a riposo con 35 anni di contributi. E questi non sono certo quelli che mangiano pere cotte e camminano col bastone. Per non parlare poi di pensioni baby, reversibilità e rendite di ogni tipo.

Il fatto è che la parola “dovere” è definitivamente fuori moda, scomoda, evoca un rigore addirittura tossico per la società dei consumi, ma soprattutto ci inchioda alle nostre responsabilità. E’ più facile nascondersi dietro il paravento dei diritti, è più facile brandire la spada del populismo perché cacciare gli assenteisti è più difficile che difenderli, accettare ciondolanti studenti fuori corso è più facile che richiamarli, percorrere le scorciatoie dettate dai “furbetti” è perfino esaltante. Insomma il buonismo è più popolare del rigore, fa più audience perché tutti “tengono famiglia”. Il punto è però che il nostro paese è collettività solo per un mese ogni quattro anni, durante i mondiali di calcio, il resto è tutto un “si salvi chi può”. La coesione sociale, quella vera, è il punto da cui ripartire. Altro che crisi.

C.D. per www.alfadixit.com




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