mercoledì 14 giugno 2023 - Phastidio

Si fa presto a dire fondo sovrano europeo

La strada verso una cosa chiamata sovranità europea è impervia e lastricata di interessi nazionali. Questa resta la maggiore vulnerabilità della costruzione europea nell'epoca dei blocchi geopolitici

 

Intervenendo in audizione davanti al parlamento francese l’1 giugno, il commissario Ue al Mercato interno, Thierry Breton, ha ribadito l’importanza della creazione di un fondo sovrano europeo per finanziare (più verosimilmente, sussidiare) le aziende di specifici settori e acquisire partecipazioni in quelle di “importanza sistemica”. Una simile struttura sarebbe, tra le altre cose, una sorta di risposta europea allo statunitense Inflation Reduction Act, il programma di sussidi ambientali che minaccia di causare delocalizzazioni in Europa.

Il tema non è inedito: è stato introdotto per la prima volta dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2022 e ribadito in una comunicazione della Commissione dello scorso febbraio. Da allora, tuttavia, nulla è accaduto. O meglio, si è deciso di rinviare la discussione sul fondo sovrano europeo e prorogare a fine 2024 l’allentamento dei vincoli agli aiuti di Stato. I quali, come noto, servono ai paesi dotati di ampia capacità fiscale. Primo fra tutti, la Germania, che ha già avuto modo di gettare sul piatto sussidi pesanti per l’energia durante l’emergenza, e oggi potrebbe ripetersi per sussidiare le proprie imprese energivore nel tentativo di contrastare la forza di attrazione dell’IRA statunitense. E i paesi che non dispongono di tasche profonde come quelle tedesche?

PROTEGGERE AZIENDE STRATEGICHE-SISTEMICHE

I negoziati per il nuovo fondo dovrebbero iniziare a luglio, in parallelo alla revisione del quadro finanziario pluriennale (MFF). Lo strumento, ha ribadito Breton, dovrebbe sostenere aziende di settori strategici, in particolare riguardo a sanità ed energia, e potrebbe essere usato per rilevare o partecipare imprese che rivestono “ruoli chiave strategici, se non sistemici”, entro le catene del valore europee, per evitare che cadano “nelle mani di altri, dove non potremmo più intervenire”. Obiettivo è quello di “ridurre la dipendenza internazionale della Ue e dare forza alla reindustrializzazione dell’area”.

Tutto molto suggestivo, ma con molteplici domande ancora senza risposta. Ad esempio, dove trovare i fondi per lo strumento? E quanti? E come strutturare gli interventi finanziari? Con quale titolarità negli indirizzi industriali delle eventuali partecipate, che dopo tutto resterebbero aziende con una precisa nazionalità, e quindi destinate a restare sotto il controllo di una legislazione nazionale, oltre a pagare le imposte in uno specifico paese o in caso in più paesi in funzione dell’eventuale organizzazione multinazionale. E non sarebbero sufficienti normative nazionali tipo Golden Power, per evitare che simili aziende strategiche e sistemiche finiscano in mano a “entità esterne” alla Ue?

Sul finanziamento di tale fondo c’è ancora nebbia. Potrebbe attingere alla quota del Next Generation EU non utilizzata dai paesi, ammesso che alla fine resti qualcosa. Oppure tramite aumento delle cosiddette risorse proprie della Ue, come la tassa di confine sulle importazioni ad elevata impronta carbonica (Carbon Border Adjustment Scheme, CBAM), oppure tramite l’ETS, l’Emission Trading Scheme, cioè i “permessi a inquinare”, la cui disciplina è in evoluzione per accomodare la transizione ecologica. Oppure utilizzare il gettito della tassazione concordata in sede Ocse per limitare condotte elusive delle multinazionali. Quando accadrà. O ancora, spostare fondi da capitoli di spesa del bilancio pluriennale della Ue, col rischio (anzi, la certezza) di veti nazionali in caso di ridimensionamento di specifici capitoli di spesa.

Quello che al momento pare escluso è il ricorso a nuovo indebitamento comune. Non solo per motivi legati a ovvie resistenze nazionali dei paesi cosiddetti virtuosi, ma anche perché con uno strumento del genere è evidente il rischio di conflitto con gli interessi nazionali, veri o presunti. Per quale motivo un paese dovrebbe versare soldi per una quota di un’azienda non sua, che magari compete con quelle nazionali o che è stata designata come capofila strategico europeo? E i diritti sociali in assemblea, come si eserciterebbero? Pesando le azioni o contandole? Un rompicapo non da poco, come si intuisce.

UN CFIUS PER L’EUROPA?

Altra criticità, nel percorso verso questa elusiva “sovranità europea”, è relativo allo scrutinio degli investimenti esteri. La Ue non dispone dell’equivalente dello statunitense CFIUS, il comitato inter-agenzie che valuta le acquisizioni di aziende e immobili da parte di non residenti. Questo scrutinio oggi avviene nei singoli paesi dell’Unione. Pensate se esistesse un’agenzia europea deputata ad approvare le acquisizioni di non residenti nei singoli paesi. Pensate che le cose procederebbero in modo lineare e senza scosse oppure che vi sarebbero eventuali accuse di danneggiare gli “interessi nazionali” dei paesi coinvolti in eventuali veti?

Perché si fa presto a parlare di “sovranità europea”, che potrebbe anche apparire come uno spericolato ossimoro, ma la verità è che ogni paese osserva questa presunta dimensione attraverso la propria lente nazionale. C’è un Emmanuel Macron in ognuno dei nostri governanti, per farla spiccia, e mi stupirei del contrario. Magari cambiano le forme espressive, ma non la sostanza. Al netto di quei governanti che magari hanno una concezione piuttosto singolare del concetto di “interesse nazionale”, lo limitano a prosciutti e piatti tipici, lanciano minacce del tipo che per l’Europa “è finita la pacchia”, e poi chiedono “un occhio di riguardo” per proprie regioni che hanno sofferto calamità naturali. Strano modo di fare. Ma passiamo oltre.

La stessa definizione di strategico-sistemico entro le catene di fornitura è filtrata dalle lenti degli interessi nazionali. Quindi, per tirare le somme, la Ue soffre ovviamente di quello di cui sappiamo soffre da sempre: la tensione tra cooperazione e competizione, e l’impossibilità di definire in modo “operativo” il concetto di interesse nazionale. Perché non esiste una “nazione europea”. Ma, attenzione: anche l’approccio alla “ognuno per sé” rischia di produrre problemi e veri e propri guai, soprattutto nell’epoca della rinascita dei blocchi geopolitici.

Per tutto il resto, ci sono delle caricature di fondi sovrani nazionali. E dove, altrimenti?

 




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