sabato 1 giugno 2013 - UAAR - A ragion veduta

Separazione e divorzio, la difficoltà (legale) di dirsi addio

La notizia viene dall’Istat: aumentano (ancora) divorzi e separazioni. Nonostante i tempi per ottenerli rimangano lunghi. Di fronte a un fenomeno sociale che riguarda ogni anno decine di migliaia di persone non si può infilare la testa sotto la sabbia. Tuttavia, è esattamente questo che fa la nostra classe politica. Sempre troppo solerte nell’accogliere le richieste dei sacri Palazzi.

Secondo le rilevazioni su mille matrimoni ci sono ormai 311 separazioni e 182 divorzi (dati del 2011): erano rispettivamente 158 e 80 nel 1995. Nel 2011 si sono contati quasi 88mila separazioni e 54mila divorzi e i matrimoni in media durano tra i 15 e i 18 anni. La società cambia e i matrimoni finiscono più spesso.

Il ricorso alla separazione consensuale è alto, sebbene tra il 2010 e 2011 ci sia un calo. Nel 2010 si sono concluse in questo modo l’85,5% delle separazioni e il 72,4% dei divorzi, mentre nel 2011 l’84,8% delle separazioni e il 69,4% dei divorzi. Le separazioni non consensuali (o giudiziali) sono più frequenti al Sud (19,90%) e tra i coniugi con livello di istruzione più basso (21,50%).

Fonte ISTAT

Da ormai una decina d’anni naufragano purtroppo i tentativi di far passare una legge che limiti i tempi del divorzio. Durante la XIV legislatura il deputato Franco Grillini portò in Parlamento la proposta di iniziativa popolare dei radicali e al contempo ne arrivarono in aula anche altre. In particolare una proposta dei Democratici di Sinistra firmata da Montecchi prevedeva di ridurre gli anni di separazione da tre a uno. Venne però edulcorata per trovare un consenso ampio, ma non votò l’Udc. Il testo venne ugualmente bocciato nell’ottobre del 2003, con 218 voti contro e 202 a favore.

Visto il lassismo del Parlamento, sempre più coppie si separano all’estero: la procedura è più veloce e le sentenze vengono recepite in Italia. Tanto che ormai è diventato un settore redditizio per gli studi legali che forniscono assistenza. Intanto anche su questo fronte il nostro paese rimane agli standard di Polonia e Malta. Come se non bastasse, chi ricostituisce una famiglia in attesa del divorzio diventa coppia di fatto e quindi privo di diritti, perché la legge italiana non le riconosce.

Strano che le gerarchie ecclesiastiche si stupiscano della crescente sfiducia nel matrimonio: la responsabilità è anche loro, visto che disseminano ostacoli scoraggiando le riforme politiche e rendendo una gabbia morale e giuridica quella che dovrebbe essere una responsabile avventura. Per la dottrina cattolica infatti il matrimonio è formalmente indissolubile e non è possibile sposarsi di nuovo in chiesa dopo un divorzio, né è permesso agli ex coniugi di prendere la comunione. Ma, se si hanno le risorse e le conoscenze per affrontare un processo canonico alla Sacra Rota, si può riuscire a rendere “nullo” il matrimonio, come se non fosse mai stato celebrato.

La società è assai cambiata, negli ultimi anni, e di conseguenza anche il concetto di famiglia. Non ci sono più modelli “tradizionali” a cui far riferimento, e la stessa idea di indissolubilità è ormai saltata per aria: laicamente e razionalmente, uomini e donne si rendono conto che non esistono più scelte definitive “una volta per sempre”. Bisognerebbe prenderne atto, anche perché dovrebbe essere evidente a chiunque che mantenere in vita artificialmente relazioni spesso conflittuali, e talvolta anche violente, non conviene a nessuno, in particolare ai figli e al coniuge più debole. Ma in nome dell’adorazione del dogma si può commettere questo e altro.




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