lunedì 5 ottobre 2020 - UAAR - A ragion veduta

Senza dio: liberi di esserlo e liberi di dirlo

In occasione dei 41 anni della sentenza della Corte Costituzionale che, dichiarando illegittimo il giuramento davanti a dio, ha sancito la parità di diritti tra credenti e non credenti, vi proponiamo un articolo dal n.4/2020 del bimestrale dell’Uaar, Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano


Il Comune di Verona aveva negato i suoi spazi pubblicitari ai manifesti Uaar. Ma la Cassazione ha accolto il ricorso, riconoscendo i diritti di atei e agnostici

Correva l’anno 2013 quando l’Uaar lancia una forse fra le migliori campagne informative che da sempre la distinguono, Vivere bene senza D. Un gioco di impatto visual-semantico vedeva la scritta Dio con la D barrata da una X, l’emersione grafica dell’Io e in basso lo slogan: «10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati c’è l’Uaar al loro fianco».

Evidente la molteplicità di messaggi trasmessi in un unico cartellone: il numero tutt’altro che esiguo di non credenti in Italia (almeno uno ogni sei cittadini); il fatto che mediamente siano felici “comunque”; ma, ancora, la possibilità purtroppo che l’altra faccia del diritto di libertà religiosa non venga rispettato e che anzi si venga discriminati per questo; e che, infine, esiste una associazione rappresentativa di atei e e agnostici che si batte per ciascuno di loro e al fianco di chiunque ne avesse concreto bisogno.

Un modo per far sapere che siamo tanti, felici come non credenti e anche rappresentati e difesi se occorre. Un modo per far sapere che esiste l’Uaar.

La campagna, grazie ai circoli sparsi sul territorio, è apparsa in moltissime città: Roma, Milano, Bari, Bologna, Ancona, Torino, Cagliari, Firenze, La Spezia, Ragusa, Parma. Anche a Verona, ma solo su spazi privati. Perché nella città scaligera la Giunta comunale, allora sotto la guida leghista di Flavio Tosi, rifiuta la concessione degli spazi pubblici di affissione: nei manifesti ravvisa infatti «un messaggio potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione». Beh certo, se si considera una offesa l’affermazione non tanto dell’inesistenza di Dio (il manifesto non dice nulla a proposito) quanto della sua irrilevanza per singoli individui, si ritorna in un sol balzo a quegli anni ‘50 nei quali si riteneva l’ateismo illecito perché in contrasto con il bene protetto dall’articolo19 della Costituzione, la libertà religiosa. Poiché però, persino in Italia, non sono mancate evoluzioni dottrinali, giurisprudenziali e soprattutto di interpretazione autentica delle disposizioni della Carta vivente, ed è quantomeno dalla sentenza della Consulta n. 117 del 1979 che l’ateismo e l’agnosticismo sono ricompresi a pieno diritto nella tutela del diritto umano fondamentale di libertà di coscienza, immediato è giunto il ricorso dell’Uaar secondo l’articolo 702 del codice di procedura civile, onde poter far accertare prima, e cessare poi, il comportamento evidentemente discriminatorio del Comune di Verona.

Con una sconcertante mezza paginetta di ordinanza il giudice in primo grado non accoglie però quanto richiesto: secondo il Tribunale di Roma negare l’affissione non è stato discriminatorio «perché, lungi da una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla religione, ha semplicemente valutato un profilo di opportunità sul contenuto formale del messaggio, sul suo linguaggio e tenore letterale, non certo sulla possibilità di far valere le posizioni della società istante in ordine alle proprie convinzioni in materia di religione». L’Uaar non ci risulta sia una società, ma a parte questo dettaglio (?) fa rimanere allibiti la messa nero su bianco del fatto che, per questi togati, la pubblica amministrazione possa sindacare la libertà di coscienza e di espressione per ragioni di “opportunità” e non di legittimità. Insomma, se avessimo cambiato il manifesto (grafica, contenuto, messaggio… dettagli, insomma) avremmo potuto esporlo, quindi cosa ci lamentavamo a fare?

Al peggio però in questa vicenda sembra non esserci fine. La decisione della Corte di Appello, giunta ormai nel 2018, è un vero e proprio tuffo nel secondo dopoguerra. Se non si arriva direttamente a sostenere il divieto di propaganda dell’ateismo poco, ma davvero poco, ci manca. O meglio, ci si arriva ma indirettamente, attraverso la negazione che la Corte fa in radice: la campagna Vivere bene senza D non è promozione delle scelte afideistiche. «Detto contenuto non si caratterizza per alcun messaggio propositivo da parte di Uaar in favore dell’ateismo o dell’agnosticismo o più in generale in favore di valori dalla stessa propugnati; bensì assume un unico ed uniforme connotato di negazione della fede religiosa». Non volevamo dire nulla, solo infastidire la fede altrui, secondo i giudici. Giudici che per di più ci inquadrano costituzionalmente protetti dall’articolo 21 (libertà di pensiero), diritto che è però limitato dall’articolo 19 (libertà religiosa) che alle scelte ateistiche a quanto pare per loro non si applica.

Non senza difficoltà tecnico-normative, brillantemente superate dall’avvocato Fabio Corvaja che ha seguito con professionalità, competenza e passione questa, come altre, vicende giudiziarie dell’Uaar, è stato proposto ricorso in Cassazione. Che, con l’ordinanza 7892 del 2020, già commentata sulle più autorevoli pubblicazioni di settore, ha pienamente accolto le ragioni dell’associazione, annullando la decisione della Corte di appello con rinvio, stabilendo cioè che ci dovrà essere un altro procedimento ex novo. Altro procedimento che però, come è buona norma e prassi istituzionale, dovrebbe seguire le indicazioni date dalla Suprema Corte, che finalmente ristabiliscono il pieno diritto alla propaganda dei senza dio.

Attraverso tutto ciò che è mancato nei due primi gradi di giudizio: dalla già citata sentenza 117/1979 alle evoluzioni giurisprudenziali costituzionali e sovranazionali, non ultima la Corte europea dei diritti umani, al corretto inquadramento della fattispecie della discriminazione: perché si abbia non è necessario che nello stesso preciso momento qualcun altro sia invece privilegiato.

Dagli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione la Consulta ha argomentato già nel 1996 come «il fondamento della “libertà di coscienza” in relazione all’esperienza religiosa (sia) diritto fondamentale che, sotto il profilo giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’articolo 2 della Costituzione, e che, in quanto tale, spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici». Ma a quanto pare nei primi due ricorsi si erano dimenticati un po’ di dottrina per strada. O forse ne avevano troppa, ma non giuridica.

Unico limite e non certo di opportunità, nella propaganda, religiosa o areligiosa che sia, è la legge penale, secondo la Cassazione. E qui si potrebbe ribattere che, per come è strutturata attualmente la protezione del sacro, tramite blasfemia e vilipendio, non ci sembra per nulla assicurata quella stessa parità fra differenti cosmogonie che la stessa Suprema Corte vede imprescindibile.

Ma per ora, per una volta una gioia. Anche se la strada che dovrebbe essere spianata per noi non credenti è in salita, arriviamo alla meta. Con quel che si chiama autorevole precedente, fornito dal vertice della giurisdizione ordinaria, finalmente senza incertezze è stato riconosciuto o meglio ripristinato il nostro diritto a essere senza dio, a esserne contenti e a poterlo dire, anche a voce alta, anche dai cartelloni, anche negli spazi pubblici, perché nostro diritto fondamentale costituzionalmente protetto. Una decisione che va ben oltre la dimensione associativa, perché riguarda le singole individualità di tutti i non credenti; come sempre accade in tema di diritti umani, questi non si consumano quando vengono riconosciuti, ma al contrario si rafforzano sempre più come universali.

 

Adele Orioli


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