venerdì 14 maggio 2021 - Phastidio

Scozia, la miccia lunga della secessione

Riprende la lunga guerra di posizione tra Boris Johnson e la premier scozzese Sturgeon. Ma l'indipendenza scaverebbe una voragine nei conti pubblici scozzesi

 

Il risultato delle elezioni legislative scozzesi ha consegnato la maggioranza assoluta alle forze secessioniste dal Regno Unito. Lo Scottish National Party (SNP) della First Minister uscente, Nicola Sturgeon, che si ferma a un solo seggio dalla maggioranza assoluta, e i Verdi. Un simile esito riaccenderà il confronto con Westminster per un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia, dopo quello fallito nel 2014. Tra tatticismi e portafoglio, la situazione è destinata a restare fluida per molto tempo.

Boris Johnson ha più volte detto che un nuovo referendum indipendentista è escluso per almeno una generazione, dopo l’esito del 2014, quando i no ottennero il 55% dei voti, ma questa è una posizione piuttosto ovvia e comprensibile. L’opinione pubblica scozzese, ancora alle prese con la ripresa post Covid, si è lievemente raffreddata all’idea, e oggi un nuovo referendum avrebbe esito molto incerto.

Sturgeon: referendum entro il 2023

Sturgeon si dice d’accordo sulla necessità di ricostruire post pandemia ma vede un nuovo referendum possibile entro un paio d’anni al massimo. Anche se l’ultima parola sull’ammissibilità del referendum spetta a Westminster, il realismo politico consiglia di non opporre un diniego a oltranza, che servirebbe solo a portare munizioni all’indipendentismo scozzese.

Sturgeon non vuole, al momento, esiti “catalani” alla richiesta di referendum, a differenza del suo ex alleato e ora rivale, Alex Salmond, predecessore nel ruolo di First Minister, che ha creato un movimento secessionista radicale ed è stato severamente punito alle urne.

Johnson ha intanto invitato i premier di Scozia, Galles e Irlanda del Nord a una consultazione sul futuro dell’Unione, durante la quale verranno verosimilmente messe sul tavolo questioni di soldi e di ulteriori devoluzioni di poteri, anche se quest’ultime di solito non bastano mai ai secessionisti. La carta più interessante che Downing Street può giocare è quella di “suggerire” all’elettorato scozzese a quanto ammonterebbero i costi della separazione.

Riprendere il controllo, edizione scozzese

Alcuni osservatori hanno già evidenziato l’ironia di un simile confronto. Da un lato, un sentimento nazionalista che è in inequivocabile crescita negli stati del Regno, anche se per ora solo in Scozia ci si spinge alla richiesta esplicita di secessione; dall’altro, considerazioni economiche che hanno già fallito in occasione del referendum sulla Brexit, con la maggioranza dell’elettorato disposta al balzo verso l’ignoto.

Oggi i ruoli sarebbero invertiti, col Brexiter Johnson che cerca di spiegare “razionalmente” agli scozzesi quanto costerebbe “riprendere il controllo” del loro territorio. Resta il punto centrale: un’unione si regge per consenso, e dopo 314 anni quel consenso potrebbe essere terminato, almeno nei termini attuali.

Si è detto che Johnson userà la leva di molti soldi in più per la Scozia, associandola al “livellamento verso l’alto” già promesso ai collegi elettorali del Nord Inghilterra strappati al Labour. Ma se tali fondi saranno gestiti da Westminster e non da Holyrood, cioè se porteranno la bandiera britannica, il rigetto scozzese potrebbe essere garantito.

Senza contare l’irritazione causata ai parlamenti devoluti dalla legge sul mercato interno dell’Unione, scritta per il nuovo mondo post-Brexit, che ha assegnato a Londra gli ex fondi strutturali Ue, prima gestiti in ambito locale.

Alcuni osservatori suggeriscono di aumentare il peso degli stati dell’unione a Westminster, magari liberandosi dell’arcaica Camera dei Lord e trasformandola in una Camera degli Stati e delle Regioni dell’Unione. Progetto piuttosto impegnativo, sotto molti aspetti.

Una voragine di bilancio

Guardiamo ora all’aspetto economico. Secondo un’analisi del Financial Times, una Scozia indipendente si troverebbe con un buco nei conti molto simile a una voragine. Dal referendum sull’indipendenza del 2014, la posizione fiscale scozzese ha subito un significativo deterioramento, che suggerisce un deficit-Pil persistentemente vicino al 10%. Il crollo delle entrate petrolifere del Mare del Nord è stato determinante. Per tacere del fatto che siamo comunque in transizione energetica.

C’è poi da considerare il beneficio che la Scozia ottiene dalla partecipazione all’Unione. Nel 2019-20, ogni cittadino scozzese ha ricevuto 1.633 sterline di spesa pubblica in più rispetto alla media del Regno Unito. Le entrate fiscali scozzesi erano a quel tempo inferiori alla media per 308 sterline annue pro capite, dopo aver considerato la ripartizione pro rata dei ricavi petroliferi.

Come riuscirebbe un paese indipendente, peraltro privo di una sua moneta, a gestire un deficit di circa il 10% del Pil? Tagliando la spesa pubblica e aumentando le tasse, vien fatto di rispondere. Se la Scozia post indipendenza dovesse mantenere la sterlina, la sua politica monetaria sarebbe decisa a Londra, senza possibilità per gli scozzesi di avere propri rappresentanti nel comitato di politica monetaria della Bank of England.

Lo spettro doganale

C’è poi la questione dei controlli doganali, che sta perseguitando il Regno Unito post Brexit. Una Scozia entrata nella Ue e nel suo mercato unico e unione doganale, necessiterebbe di un confine fisico con l’Inghilterra. Secondo un recente studio della London School of Economics, un confine fisico scozzese moltiplicherebbe la perdita di prodotto rispetto allo scenario acquisito della Brexit, riducendo la dimensione di lungo termine dell’economia scozzese tra il 6,3% e l’8,7% rispetto al mancato verificarsi dei due eventi, Brexit e secessione di Edinburgo.

Prepariamoci quindi a una guerra di posizione tra Johnson e Sturgeon, in un quadro di elevata incertezza ma -pare- di ormai acquisita erosione di lungo termine dei legami che hanno sin qui tenuto in vita l’Unione. Il rischio per BoJo è di passare alla storia per aver presieduto alla nascita della Little England. Nel frattempo, dopo aver promesso in campagna elettorale di moltiplicare pani, pesci e sussidi, la Sturgeon dovrà gestire il viaggio verso l’ignoto.




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