giovedì 6 settembre 2012 - Trilussa

Sarajevo, mon amour

Era da tempo che ci pensavo. Mi aveva colpito tempo fa il libro della Mazzantini “Venuto al mondo”, poi un altro un po’ strano, particolare anche dal titolo, “La cotogna di Istanbul” di Paolo Rumiz evocandomi interesse e sensazioni che si sono mescolate e sommate, a poco a poco, a quelle della visione di alcuni film importanti e molto belli come “No man’s Land” e “Il segreto di Esma”.

Tutto questo, insieme a drammatici ricordi televisivi un po’ fumosi ma sempre presenti, mi hanno fatto riflettere sulla tragedia assurda di un popolo intero a noi così vicino, sulla nostra iniziale e totale indifferenza e infine su un intervento postumo inadeguato e non sufficiente. Ma soprattutto riflettere sulla nostra distanza, fisicamente piccola ma moralmente grande, da una tragedia vera, grande, anacronistica e soprattutto talmente prossima a noi da far diventare colpevole il nostro distacco, criminale il nostro disinteresse.

I film suddetti sono stati con merito iperpremiati alle mostre più importanti del cinema mondiale ma non hanno avuto quel successo di pubblico e di interesse che meritavano perché non appartenenti né al filone di tipo evasione-erotico-popolare-demenziale, in cui siamo maestri, e né a quello ipertecnologico-spettacolare-megagalattico delle grandi e costosissime produzione americane che imbottiscono menti e orecchie di devastazioni e clamori con il rischio che alcuni effetti di queste esagerazioni possano arrivare anche nella profondità sensibile del cervello fino ad alterare e a rendere pericolosamente inefficaci quei fini meccanismi di auto controllo che impediscono a qualche studente ”born in USA” di vestirsi da Rambo ed imbracciare un fucile automatico e sterminare gli incolpevoli insegnanti della propria scuola, con contorno di amici, conoscenti e qualche poliziotto poco prudente.

I film in questione, come i libri suddetti, hanno poco spazio mediatico perché costringono a fare quella cosa che appare un po’ in disuso dalle nostre parti che è quella di pensare. Hanno lo spiacevolezza di presentare cioè davanti agli occhi del frastornato spettatore una inattesa realtà cruda e spiacevole che lo costringe prima a pensare e poi a prender atto della sua condizione inconsapevole non solo di essere privilegiato (di solito senza merito), ma anche di indifferente, di disinteressato alle vicende di un popolo così vicino ma così immensamente emotivamente lontano come quello bosniaco.

Perché stiamo parlando della città di Sarajevo, una città martire dove mancano moltissime cose, dove manca il lavoro, dove mancano prospettive certe, mancano le industrie, manca una classe politica che faccia gli interessi di un popolo ferito, ma non mancano certo i cimiteri. Bianchi, enormi, li vedi da ogni parte, su ogni collina, li vedi anche se non li cerchi, se non li vuoi vedere. Stanno li, file interminabili di esili pietre bianche senza orpelli, senza una base su cui puoi scrivere un saluto, una preghiera ma solo una eretta e semplice pietra bianca. E sotto ognuna di queste c’è un corpo. Giovane, anziano, una donna, un ragazzo, un bambino, strappati alla loro vita e alle loro speranze.

Che colpa avevano gli abitanti di Sarajevo? Qual era il loro peccato? Solo quella di vivere in una città che chiedeva la propria indipendenza, che voleva vivere la propria vita autonoma dopo la parentesi di Tito: una unione forzata di popoli e religioni che tuttavia manteneva un proprio equilibrio, che assicurava, nella situazione chiaramente antidemocratica su cui si reggeva, una certa stabilità ed un certo benessere abbastanza equamente condiviso.

Finalmente ci sono andato ed ho visto. 
Ho visto i segni inconfondibili della guerra ma anche una diffusa e contagiosa aria di festa ed una grande voglia di divertimento, voglia di dimenticare, un desiderio assoluto di ripartire. Lo dimostrano le centinaia di ragazzi, e donne e uomini di ogni età, che ogni sera si danno appuntamento nelle stradine del quartiere turco, nella città vecchia, negli antichi caravanserragli diventati bar, nei negozietti sempre aperti e nei tanti localini dove si può cenare con pochi marchi (bosniaci).

Se parli però con le ragazze ed i ragazzi che hanno vissuto di persona la tragedia degli anni 90 capisci che non possono dimenticare. Non possono dimenticare di avere vissuto i loro vent’anni sotto la minaccia delle bombe e dei cecchini, quando uscire di casa era un rischio, vivere in una città dove mancava tutto, il cibo, l’acqua, i vestiti, i medicinali, l’energia elettrica e ti scaldavi con stufette fatte in casa che alimentavi tagliando gli alberi nel cortile e poi, quando erano finiti, usavi i mobili di casa. Raccoglievi la neve e la facevi sciogliere per avere l’acqua, mandavi i figli piccoli a scuola solo di notte, sempre di corsa, quando era buio e la possibilità di incontrate una pallottola del cecchino appostato sul palazzo di fronte ridotta per il buio assoluto di una città abbandonata da tutti.

Siamo andati a vedere il tunnel. Un budello di 800 metri dallo scantinato della casa più vicina alla pista dell’aeroporto, al tempo presidiato dalle truppe Onu. Da li transitavano generi alimentari, acqua, armi anche, medicinali, tutto quello che poteva alleviare i sacrifici di un assedio ad una città di oltre mezzo milione di abitanti durato dal ‘92 al ‘95.

Oltre ad un pezzo del tunnel originario ci sono un filmato, delle foto, dei documenti. Ora è un posto turistico ma l’atmosfera è coinvolgente e ti rendi conto perfettamente degli orrori di una guerra, di tutte le guerre, ma ti rendi anche conto di quanto eroismo ci può essere nella povera gente, nel volontario che scava otto ore al giorno nel buio umido della terra e nella vecchietta che ti aspetta fuori dal buco con la brocca dell’acqua per dissetarti.

Alcune foto in galleria riguardano la tragedia di Sebrenica, altra vergogna della nostra cara vecchia Europa ma ognuno può documentarsi sulle vicende storiche che hanno travolto questa terra bellissima e dalla gente straordinaria.

Mussulmani e cristiani, cattolici e ortodossi, chiese e moschee danno al mondo l’esempio di come si possa convivere in pace fra popoli e religioni. Passeggiando per la Bascarsija, il centro turistico della città, accanto a negozietti, bar, ristoranti chiese e moschee si possono incontrare ragazzi in pantaloncini corti e ciabatte infradito per mano a ragazze musulmane elegantissime, con graziosi vestiti che le incorniciano il volto sempre ben truccato mentre magari digitano sul telefonino. Un Islam moderato che non spaventa ma che anzi fa riflettere sulla esagerazione di alcuni nostri costumi occidentali.

Visitare Sarajevo quindi non è solo vedere una città ma scoprire un popolo e diventare partecipi di una tragedia. Una tragedia che ci è passata sopra la testa senza che ce siamo perfettamente resi conto, che ci ha distolto ben poco dai nostri piccoli problemi.

Un’opportunità quindi per recuperare un passato, un motivo in più per programmare una visita a Sarajevo, una città accogliente e aperta, dove, certo non guasta, si può pranzare con un piatto di Cevapcici (salsiccette di carne) e un loro strano pane soffice e saporito spendendo appena un paio di euro. 




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