mercoledì 7 marzo 2012 - Mazzetta

Russia: la resistenza punk all’oscurantismo di Putin

La resistenza russa è punk

I Cosacchi hanno promesso che vigileranno sulle chiese e chiedono che le femmine indiavolate e blasfeme siano affidate al giudizio dei credenti. Il potere della chiesa è tale che sacerdoti ortodossi entrano nei negozi e nei supermercati e fanno la spesa senza pagare mentre fiumi di denaro vanno ad arricchire le casse della chiesa e di selezionati credenti.

La chiesa ortodossa partecipa indubbiamente alla grande razzia delle risorse della Russia e le sono bastati pochi decenni per ritornare ad ottenere una presa sul potere temporale tanto simile a quella dell’epoca zarista da sembrarne un’amara parodia. Parodia amara perché in effetti non c’è niente da ridere e perché il volto della chiesa russa è quello arcigno di una predicazione in linea con i cristianesimi di retroguardia, che non ha pudore a pronunciare parole terribili e a supportare moralmente i crimini peggiori.

I cosacchi citati sopra, ad esempio, sono gli stessi che non più tardi di un mese fa si offrivano come volontari per formare “squadre del vizio”, che dovrebbero avere il compito di far rispettare un controverso divieto di “propaganda omosessuale”, una genialata che non è stata partorita a Teheran, ma a metà strada tra il consiglio comunale San Pietroburgo e il patriarcato ortodosso. Alla chiesa di Mosca non piacciono gli omosessuali e non perde occasione per negare loro agibilità e legittimazione sociale, proprio come quella cattolica.

L’appoggio del patriarcato al partito di Putin ha l’aspetto di una solida relazione d’affari. La chiesa ortodossa chiede e Putin concede, ottenendo in cambio il massiccio apporto elettorale dei credenti e qualsiasi legittimazione morale gli possa servire, se domani dovesse aver bisogno di sgozzare degli infanti sulla Piazza Rossa, ci sono buone probabilità che il patriarcato russo finirebbe per farfugliare qualcosa sui bambini peccatori. Un rapporto chiaro, impostato sulla reciproca convenienza e del quale Putin sembra tenere con mano sicura le redini, insieme ai cordoni della borsa e dei privilegi.

Il problema è che all’inevitabile sparizione di Putin, prima o poi, il potere del patriarcato difficilmente resterà intaccato in maniera drastica e incisiva e molto probabilmente non lo sarà per niente. Un lascito ingombrante a carico dei suoi successori che si ritroveranno la chiesa come chiave di volta della politica russa, in dittatura come in democrazia. Che alla chiesa non sembra affatto interessare, dopo l’inferno del comunismo si gode questo paradiso immeritato e ingrassa. Le immagini del sacerdote ortodosso che entra in un supermercato di quelli lussuosi, riempie cinque borse di alcolici e articoli costosi e se ne va senza pagare e senza essere disturbato dal personale o da altri, sono state girate dal collettivo Voina, che ci ha messo anche l’attore che impersonava il prete e che ha realizzato la performance. Un documento che testimonia un fenomeno che ha ben pochi paragoni al mondo, dove ci sono ben pochi paesi che concedono licenza di razzia ai sacerdoti.

Voina è il nome di un collettivo artistico che conta oltre duecento artisti e un numero imprecisato e imprecisabile di simpatizzanti che mette in scena originali performance urbane per denunciare il potere e le sue evidenti contraddizioni.

Una boccata d’ossigeno in un paese che insieme al ritorno del governo dell’uomo forte e dello zombie clericale, soffre anche il dilagare di un conformismo prodotto dal ripiegamento dei russi nel privato, in attesa forse di tempi migliori. A quelli di Voina non è bastato dichiararsi un collettivo patriottico per sfuggire alle ire di Putin e alle attenzioni dei servizi di sicurezza, ai quali piacciono sì i patrioti, ma non quelli anarchici che disegnano enormi falli davanti alla sede di quello che fu il KGB e ancora meno quelli ribaltano le auto della polizia nel corso di una performance contro l’autoritarismo putiniano. Inutile poi dire che il richiamo agli eroi anarchici antizaristi che predicavano il regicidio sia visto da Putin come un’istigazione a colpire la sua pur protettissima persona.

Le rudi maniere con le quali sono stati prelevati dalle loro case due degli esponenti più in vista del collettivo, incappucciati e rimossi dalle loro case insieme al loro contenuto e subito ridotti in isolamento, spiegano bene il livello d’irritazione del regime, che infatti li accusa di minacciare allo stato. Non si può dire tuttavia essere sicuri che Putin sia particolarmente impressionato dalle performance del gruppo, in fondo dopo la scontata vittoria alle elezioni sono centinaia i russi che sono stati arrestati per festeggiare altri sei anni durante i quali varrà solo la sua volontà o quasi.

Anche in alcuni paesi democratici si sono viste iper-reazioni del genere a proteste che non avevano la minima “velleità di sovvertire il sistema” e neppure la condanna a sette anni che rischiano gli attivisti di Voina pare eccessiva, se confrontata alle richieste di certi pubblici ministeri a carico di qualche manifestante italiano colpevole solo di aver rotto le scatole. O ancora alla possibile condanna alla pena capitale per uno come Bradley Manning negli Stati Uniti. Considerazioni che comunque non sminuiscono affatto la durezza del regime putiniano.

Allo stesso modo le Pussy Riot, gruppo musicale punk e femminista molto attivo e provocatorio nel combinare arte e politica, avrebbero rischiato grosso anche in altri paesi troppo cristiani o troppo musulmani o indù, se avessero deciso d’improvvisare un concerto non invitate nel tempio principale di quelle religioni, come hanno fatto nella cattedrale di San Basilio. Che per di più hanno riempito di liriche che non hanno mancato di apparire blasfeme agli occhi dei fedeli. Anche loro e le loro compagne del collettivo rischiano una condanna a sette anni di carcere, tre di loro sono state arrestate e due sono in sciopero della fame. Come fresche madri avrebbero diritto ad attendere il processo vicino ai figli, ma non è stato loro concesso.

Probabilmente in alcuni paesi le avrebbero anche fatte squartare, tirate da quattro cavalli o cammelli, ma c’è ben poco d’ironico in performance tanto estreme da esporre i performer al martirio e supportate da motivazioni serie e drammatiche, facilmente rintracciabili nella critica che propongono. Il ritorno del medioevo non ha risparmiato un solo angolo della società russa, come testimonia il crollo dell’aspettativa di vita, che al tramonto dell’Unione Sovietica era più o meno allineata a quelle dei paesi occidentali e che dopo Gorbaciov è precipitata a livelli africani, sotto i sessant’anni.

Stessa fine ha fatto la condizione femminile, con la donna russa che ha visto il peggiorare della sua condizione sociale accompagnato da aumento della domanda di cure familiari, funzionando da ammortizzatore sociale in un paese nel quale lo stato sociale è velocemente evaporato e l’homo sovieticus ha lasciato il passo a un maschilismo brutale, spesso declinato in una realtà occupata da ingombranti e spesso violenti compagni di vita travolti dall’alcolismo, altra atavica piaga russa di ritorno. Il dilagare della criminalità organizzata non ha aiutato, estendo ancora di più la platea di singoli e organizzazioni impegnati nello sfruttamento e nella sottomissione della donna, sempre benedetta dalla chiesa.

Un maschilismo che il virile Putin ha interpretato a modo suo, condannando all’invisibilità sociale sua moglie e le due figlie, delle quali non esistono nemmeno immagini recenti. Un record assoluto per un capo di governo, che nemmeno Stalin. Se della moglie si mormora che sia ospite di un monastero dal quale è prelevata nelle rare occasioni ufficiali nelle quali lui decide d’esibirla, vuol dire che c’è qualcosa di più della semplice tutela della privacy che aleggia sulla famiglia di Putin e sulle sue presunte amanti, anche al netto dell’inquietante terrore che il ri-presidente russo esercita sui russi che lavorano nel campo dei media.

Se un noto editorialista ortodosso ha definito la performance delle Pussy Riot in San Basilio come “una buffonata come ne inscenavano ai tempi di Pietro il Grande” non è una coincidenza e agli osservatori stranieri viene facile concludere che il produrre performance alle quali seguono inevitabilmente conseguenze tanto estreme per i loro interpreti e lo sfidare un potere dotato di un potenziale intimidatorio come quello di Putin armati di nulla, non possono essere spacciati per una carnevalata. Anche perché in mezzo a tanto sfascio dello stato le carceri russe non sono migliorate significativamente dai tempi dei soviet.

Altri sei lunghi anni di Putin attendono i russi e le russe, molti dei quali attingono ispirazione dalla grande tradizione russa di lotta anti-autoritaria e dalle esperienze occidentali contemporanee per costruire ed esprimere il dissenso a un regime che appare più determinato che mai nello schiacciare qualsiasi focolaio di dissenso organizzato. Non sarebbe la prima volta nella storia, se i performer di oggi diventassero degli eroi della Russia in un futuro più lontano, ma per ora si devono accontentare di un presente da martiri e di considerare le condanne che dovranno scontare come un investimento a fondo perduto nella speranza di un futuro migliore.




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