martedì 3 gennaio 2017 - Antonio Moscato

Rojava | Il Partito dell’Unione democratica (PYD) e l’autodeterminazione kurda

I kurdi della Siria, cioè del Kurdistan occidentale (Rojava) sono ormai diventati gli ineludibili protagonisti del processo combinato di rivoluzione, controrivoluzione, guerra civile e autodecisione in corso nel paese.

di Uraz Aydin

Il PYD aveva, di fatto, già assunto il controllo nelle enclaves prima di Kobane, poi di Afrin e di Jazira dopo il ritiro delle truppe del regime di Assad nel luglio 2012, e nel gennaio 2014 aveva dichiarato l’autonomia in questa regione, in reazione al loro mancato invito alla Conferenza di Ginevra.

Ma è soprattutto con l’assedio di Kobane da parte dello Stato islamico e l’audace resistenza delle Unità di protezione popolare (YPG), in particolare delle donne combattenti nelle file dell’YPJ, che le forze legate al PYD e l’esperienza dell’autodeterminazione nel Rojava hanno ottenuto una legittimazione e godono di un sostegno a livello internazionale. Come è noto, l’assedio di Kobane alla fine è stato infranto con l’appoggio di militanti kurdi e turchi che hanno oltrepassato di forza il confine turco-siriano, dei peshmerga iracheni e certamente delle forze aeree statunitensi. In seguito, le Forze democratiche siriane (FDS), di cui gli YPG costituiscono il nucleo militare principale, sorretto dagli Stati Uniti e, in una certa misura, dalla Russia, svolgono un ruolo cruciale nella guerra contro lo Stato islamico.

In questo articolo, cercheremo di esporre brevemente le radici politiche del PYD, la sua collocazione nel movimento nazionale kurdo di Siria, la linea ideologica, le sue posizioni nella rivoluzione, nonché le principali modalità e difficoltà del processo di autodecisione in corso nel Rojava.

 

Il nazionalismo kurdo sotto il Baath

Il nazionalismo kurdo in Siria rappresenta un paesaggio fortemente frammentato. La moltitudine di partiti va ben oltre quel che si può vedere in altre parti del Kurdistan. Se è difficile seguire i raggruppamenti e le scissioni perpetue, si può sicuramente dire che attualmente sono attivi più di una quindicina di partiti kurdi. La maggior parte di essi deriva dal Partito democratico del Kurdistan di Siria (PDKS), fondato nel 1957 e da cui si sono rapidamente distaccate tendenze di “sinistra” e di “destra” che si sono scisse per dar vita a distinti partiti intorno al 1965. Lo sviluppo frazionista nei partiti kurdi dell’Irak (preso come modello), le condizioni di attività clandestine, le accuse di collaborazione con il regime e le infiltrazioni e gli interventi dei servizi segreti hanno perpetuato le scissioni. Le divergenze politiche dipendevano essenzialmente dal tono assunto verso il regime e dagli obiettivi politici che andavano dal riconoscimento dei diritti culturali, linguistici e civili al riconoscimento costituzionale dei Kurdi come minoranza. Tuttavia, è importante sottolineare che l’autonomia non è mai stata praticamente rivendicata prima del 2011 (a parte il partito Yekiti). Facciamo comunque notare che la cittadinanza è una questione cruciale, visto che dopo il censimento eccezionale del 1962 oltre 120.000 Kurdi si sono visti ritirare la loro nazionalità e sono stati classificati o come “stranieri” muniti di una specifica carta di identità, o come “maktumin”, non registrato, senza carta di identità e senza diritti.

La moltitudine di partiti ha portato negli anni Novanta del secolo scorso ad alcuni raggruppamenti. Ad esempio, i partiti vicini alla corrente irachena-kurda di Jalal Talabani si sono raccolti nell’Alleanza democratico kurda di Siria (“Hevbendi”), mentre quelli legati a Mesut Barzani hanno costituito il Fronte democratico kurdo di Siria (“Eniya”). Fra i partiti non provenienti originariamente dal PDKS, va sicuramente annoverato in primo luogo il PKK e il suo “partito fratello”, il PYD, fondato nel 2003. Il leader del PKK, Abdullah Öcalan, insieme alla sua organizzazione, aveva goduto dell’appoggio di Hafez al-Assad – nel quadro della sua rivalità con il vicino turco – fino alla fine degli anni Novanta; i campi del PKK erano insediati in Siria dall’inizio degli anni Ottanta. Quindi la questione kurda in Siria non era all’ordine del giorno del PKK e solo dopo che il regime cessò di offrire riparo a Öcalan e la fondazione del PYD, quest’ultimo prese a interessarsi della politica siriana.

Un altro importante partito fu quello di Michel Temo, il Partito del Futuro kurdo, fondato nel 2005, che privilegiò la collaborazione con l’opposizione araba all’inizio della rivoluzione, ma il suo assassinio inflisse un duro colpo al suo movimento, che si scisse. Il Partito dell’Unione kurda di Siria, noto sotto il nome di Yekiti e sorto dalla fusione di vari gruppi – tra cui una piccola corrente troskista che si richiamava fin dagli anni Ottanta alla IV Internazionale, diretto dal poeta Marwan Othman[1] - va anch’esso segnalato come di “sinistra” nel ventaglio politico kurdo. L’intervento politico di Yekiti, più aperto, più radicale, che puntava a mobilitare la comunità kurda non solo nel Rojava ma direttamente nella capitale, con un programma classista, a partire dal 2002, all’indomani della breve primavera di Damasco, è stato importante sul piano dello scontro con il regime e della politicizzazione che portò allo “Serhildan” (la rivolta, in kurdo) di Qamishlo.[2]

 

Dall’intifada kurda alla rivoluzione siriana

Un avvenimento chiave fu dunque la rivolta di Qamishlo nel 2004, altrimenti detta l’intifada kurda, in cui per la prima volta migliaia di kurdi, dopo scontri con tifosi nazionalisti arabi, in occasione di una partita di calcio e dopo una severa repressione di polizia, scesero in strada per affermare la propria identità curda e rivendicare i loro diritti di cittadinanza. La sollevazione non si fermò a Qamishlo o alla sola regione del Rojava, ma alla fine conquisto i quartieri kurdi di Aleppo e di Damasco. Vennero abbattute statue di Assad padre, attaccati commissariati, edifici pubblici, centri del Baath.

Fu al momento di quella rivolta che si assistette per la prima volta per più di dieci giorni alla mobilitazione di una gioventù kurda radicale e autonoma dai partiti tradizionali del nazionalismo kurdo, che si rivedrà nei primi tempi della rivoluzione. Accanto alla gioventù radicale, va precisato che furono soprattutto Yekiti e il PYD le punte di lancia delle mobilitazioni (l’emittente televisiva legata al PKK, Roj TV, faceva direttamente appello all’insurrezione). Ma la repressione del regime fu feroce. Alcune organizzazioni giovanili si formarono all’indomani della rivolta, prendendo le distanze dal pacifismo dei partiti tradizionali – a volte orientate verso la lotta armata, pur senza tradurla in atto. La prospettiva dell’autonomia si fece largo nelle coscienze di fronte alle rivendicazioni di uguaglianza dei diritti e della cittadinanza sostenuti dall’Alleanza e dal Fronte.[3]

Contrariamente a quel che si pensa, le prime mobilitazioni spontanee del 2011 nel Kurdistan siriano si presentarono piuttosto presto, a fine marzo, soprattutto nella città di Amuda, poi a Serekaniye. Anche se Bachar al-Assad cercò di tenere a bada la situazione accettando di concedere la nazionalità ai Kurdi con lo statuto di “stranieri” (non però ai “maktumine”) questo non fu sufficiente e rispedire a casa la gioventù kurda. Come nel resto del paese, si formarono comitati di coordinamento e il Movimento giovanile kurdo (TCK), fondato nel vivo degli avvenimenti, svolse anche un importante funzione di mobilitazione.

A livello dei partiti, furono principalmente il Movimento del Futuro, Yekiti e il Partito kurdo della Libertà (Azadi) a partecipare fin dal primo momento alle manifestazioni. Gli altri partivi si misero in moto soltanto durante l’estate. Michel Temo, leader del movimento del Futuro, fu l’unico a partecipare al Consiglio nazionale siriano (NS), fondato al momento della Conferenza di Istanbul nel mese di luglio. Questa sua posizione gli avrebbe consentito di intessere legami tra le opposizioni siriana e kurda, se non lo avessero assassinato nell’ottobre 2011. I suoi funerali si trasformarono in gigantesche manifestazioni a Qamishlo. Esse accelerarono il lavoro di raggruppamento dei partiti kurdi sorti dal PDKS, che alla fine sono entrati nella rivolta, dando vita sotto l’egida di Mesut Barzani, al Consiglio nazionale curdo di Siria (ENKS), cui si sono aggiunti Yekiti e Azadi. Nacque così il più ampio raggruppamento del movimento nazionale kurdo in Siria.

Soltanto due partiti si tennero in disparte, quello di Temo, sempre membro del CNS) e il PYD. Quest’ultimo, che restava ai margini della sollevazione che scuoteva il paese, come anche la regione kurda, aveva costituito dal settembre un coordinamento di vari partiti arabi baathisti di sinistra (“marxista”, “comunista”, “leninista”) e un partito arameo-cristiano. Il loro orientamento era piuttosto quello di trattare con il regime per ottenere concessioni democratiche, senza la prospettiva di rovesciare il regime e – secondo loro - senza rischiare di spalancare la porta a una guerra civile. Centinaia di militanti del PYD uscirono così di prigione, insieme ai militanti jihadisti.

Criticando l’ENKS accusato di fare il gioco della Turchia (per i rapporti tra Barzani e Ankara) e del CNS che non forniva alcuna garanzia per i diritti del popolo kurdo, il PYD optò per una “terza via”. Tramite il proprio Movimento per una società democratica (Tev-Dem) che raccoglie partiti e associazioni della società civile con cui è collegato, ha dichiarato la fondazione di un Consiglio popolare del Kurdistan occidentale, che avrebbe costituito la principale struttura amministrativa nel Rojava, una volta che il PYD e gli YPG vi avessero assunto il controllo dopo il ritiro delle truppe del regime.[4]

 

Il PYD e il confederalismo democratico

La fondazione del PYD deriva dalla tendenza del PKK al decentramento e, parallelamente, dal radicale cambiamento di prospettiva politica da parte di Öcalan. Poco prima del suo arresto, nel 1999, il leader del PKK aveva abbandonato l’obiettivo di un Kurdistan indipendente e unificato (ormai, secondo lui, una forma di “conservatorismo”) e proposto un nuovo obiettivo strategico basato sulla sua tesi della “repubblica democratica”. Formulata probabilmente in vista di aprire delle trattative, Öcalan vi proponeva una soluzione per la questione kurda tramite la trasformazione democratica della Turchia, senza mutamento dei confini. Gli obiettivi in questo modo si limitavano al riconoscimento dei kurdi da parte dello Stato e al rispetto dei loro diritti culturali (come pure alla liberazione dei prigionieri e all’autorizzazione dei combattenti a reinserirsi nella vita civile).

Tuttavia, si è ben presto appurato che da parte dello Stato non c’era alcuna intenzione di negoziare. Inoltre, con il consolidarsi della regione autonoma kurda in Irak in seguito all’intervento americano, il Sud del Kurdistan (iracheno) e il PDK di Barzani – rivale storico del PKK – diventavano un polo d’attrazione per il popolo kurdo. Quindi, la prospettiva di una soluzione del problema kurdo limitata alla trasformazione democratica del regime turco implicava un rischio politico effettivo per il PKK. Öcalan ha così dovuto effettuare di nuovo un mutamento strategico, tenendo conto di tutte le parti del Kurdistan.[5] La fondazione del PYD in Siria (2003) e quella del PJAK in Iran (2004), al pari del progetto politico che avrebbe in seguito assunto il nome di “confederalismo democratico” risultano da questo nuovo approccio.

Questo progetto come quello dell’autonomia democratica che lo completa a livello locale è fortemente ispirato dagli studi del teorico socialista libertario Murray Bookchin (che ha partecipato al movimento trotskista negli anni Trenta negli Stati Uniti). Dopo un ripensamento del marxismo, Bookchin sostituisce la contraddizione capitale-lavoro con quella capitale-ecologia e propone una battaglia anticapitalista tendente al decentramento delle città, a una produzione alimentare locale, all’impiego di energie rinnovabili. Nel progetto di “municipalismo”, queste piccole città autonome amministrate grazie a consigli democratici, formerebbero tra loro unità confederali per risolvere problemi che vanno oltre i confini del loro comune.[6] 

Tuttavia, nei vari testi programmatici del PKK e negli scritti di Öcalan, ciò a cui corrisponderebbero questi concetti resta, nella pratica, piuttosto vago: si tratterebbe della confederazione dei partiti ed associazioni legati al PKK o di un progetto più ampio ed inclusivo? È un progetto plurietnico per tutti i popoli del Medio Oriente, o un progetto per il Kurdistan e il cui protagonista sarebbe il popolo kurdo? L’autonomia significa il rafforzamento delle amministrazioni locali esistenti, oppure si tratta di un progetto politico più sovversivo?[7] Le domande si possono moltiplicare a livello degli strumenti da impiegare per conquistare l’autonomia e dei rapporti con gli Stati interessati, per non parlare di quelli con il modo capitalistico di produzione…

Come pone in rilievo Alex de Jong nel suo eccellente articolo sugli sviluppi ideologici che ha conosciuto il PKK, gli scritti di Öcalan e i testi del PKK (di cui Öcalan è «il supremo organismo teorico», stando allo Statuto) indicano un «potenziale di vaghezza» per cui è possibile trovarvi ogni tipo di risposte a questi problemi e, con tutti gli inconvenienti che questo comporta, il carattere vago e incompiuto del suo progetto politico può risultare utile e aprire a soluzioni più vaste.[8] Al di là di questo, tuttavia, da quei testi (e dalla pratica delle organizzazioni legate al PKK), emergono due punti essenziali. Il rifiuto dello Stato-nazione (sostituito dalla «nazione democratica», concetto ancora una volta vago) e la rilevanza dell’ecologia e della liberazione della donna (a volte basata sull’identificazione donna-natura-vita), che si ritrova nella Carta di Rojava.

 

Rojava, potenzialità e contraddizioni

Il modello amministrativo presentato nella Carta o il «contratto sociale» di Rojava (2014), che ha preso ormai il nome di Sistema federale democratico della Siria del Nord e del Rojava, colpisce per l’accento che pone sull’importanza della democrazia («autoamministrazione», dei diritti delle donne e dei bambini, dell’ecologia, della laicità e ovviamente sul carattere plurietnico della regione. In un territorio le cui diverse parti sono controllate dallo Stato islamico, dalle bande jiahdiste di Al Nusra e di Ahrar al Sham e dal regime sanguinario di Al Assad, non è poco. Il contratto - che si dice è accettato dai popoli kurdo, arabo, armeno, siriaco (assiro, caldeo e armeno), turkmeno e ceceno – rifiuta lo Stato-nazione, lo Stato religioso e militare e l’amministrazione centrale e si dichiara come parte di una Siria parlamentare, federale, pluralista e democratica.

La dimensione plurietnica del regime nel Rojava, che ha portato a modificarne il nome – Öcalan aveva del resto proposto che fosse solo «Federazione della Siria del Nord»[9] - viene criticata da correnti nazionaliste presenti nell’ENKS. Ad esempio, il segretario generale del Partito progressista democratico, Ehmed Suleyman, dice in un’intervista del gennaio 2015 che non si tratta di un «progetto per i Kurdi. L’autonomia democratica è stata fondata con gli arabi, i siriaci e i ceceni. Non possiamo risolvere la questione kurda in questo modo. Il nostro popolo deve capire che quello che hanno fondato non apparterrà ai kurdi». Contro questa prospettiva di includere le differenti etnie nel processo di costruzione del processo dell’autonomia alcuni partiti dell’ENKS sostengono ad esempio lo spostamento delle popolazioni arabe installate nel Rojava nel quadro della politica della «cintura araba» negli anni Settanta.[10]

Se questo contratto si limita principalmente alla struttura amministrativa, la Carta precedentemente adottata da Tev-Dem nel 2013, ben più dettagliata, rifletteva ancor più lo spirito libertario bookchiniano delle idee di Öcalan che ha ispirato il modello del confederalismo democratico. Le comuni, ad esempio, vengono definite come «le unità più piccole della società e le più efficaci. Sono costituite in base al paradigma della società in cui regnano i valori della libertà della donna e la democrazia ecologica in base alla democrazia diretta». Il sistema economico municipale si dice dominato dall’idea di giustizia sociale e punta a sopprimere ogni forma di sfruttamento. Le «case del popolo» aprono «alla nascita della cultura della democrazia comunitaria».

Purtroppo, però, non basta ripetere la parola democrazia perché questa funzioni senza ostacoli. Perché, per il momento, si tratta di una democrazia… senza elezioni. Se si elogia il pluralismo sul piano dei differenti gruppi etnici, piuttosto assente ne è la dimensione politica. Che il contratto sociale designi l’YPG come Esercito del Rojava ben riflette il fatto che il PYD non sia incline a condividere il controllo dei territori che dirige. L’imposizione dell’ideologia di Öcalan è visibile anche a livello dell’istruzione. Tutti gli insegnanti della scuola elementare o di altro ordine devono prima passare per una formazione basata sui testi di Öcalan e, nel cantone di Jazira ad esempio, in vari libri scolastici delle elementari figurano frasi di Öcalan e scritti sulla vita dei martiri del PKK.[11] 

A parte comunque questi esempi di imposizione di un’ideologia ufficiale fin dalla più tenera età (un dato che somiglia molto stranamente all’esperienza kemalista), a volte sono state denunciate pratiche autoritarie nei confronti degli altri partiti kurdi e dei gruppi etnici che non accettano il predominio del PYD. Ci sono stati movimenti di protesta contro il PYD e le sue pratiche, soprattutto ad Amuda e a Derabissyat nel 2013, e le forze di sicurezza legate al PYD (gli “asayish”) non hanno esitato a sparare sulla folla, provocando la morte di vari manifestanti.[12] 

Più di recente, nell’agosto 2016, l’arresto di Assan Salih, dirigente di Yekiti, è stata un’azione deplorevole. Salih era già stato imprigionato dal regime siriano per un anno e mezzo nel 2003, insieme a Marwan Othman, e la loro liberazione aveva dato vita a un corteo lungo 4 chilometri, con la partecipazione di svariate migliaia di persone.[13]…Inoltre, il fatto che il regime si sia (in parte) ritirato dal Rojava senza alcuno scontro armato, abbandonando gran parte dell’artiglieria e delle sue munizioni, pur continuando a controllare l’aeroporto, la stazione ferroviaria, alcuni impianti statali, conservando un campo militare a sud di Qamishlo e continuando ad essere presente ad Hasseke, pagando lo stipendio degli insegnanti (a parte i docenti di kurdo) viene interpretato dall’opposizione kurda come testimonianza della collaborazione con lo Stato siriano. Pur non essendo possibile escludere la tesi di un certo compromesso sul ritiro dell’esercito siriano tra il PYD e il regime, preoccupato di non moltiplicare i fronti di battaglia, ci sembra difficile parlare di una vera e propria alleanza bilaterale, come dimostrano i recenti scontri tra le milizie (YPG e asayish) del Rojava e quelle del regime sorretto dalle milizie di Assad, come pure i bombardamenti di quartieri civili ad Hasseke da parte dell’aviazione militare siriana.

La situazione è tanto più complicata in quanto il PKK-PYD ha avuto per la prima volta l’occasione di fare concorrenza al suo rivale storico dell’Irak settentrionale costruendo il proprio “Stato”, una struttura amministrativa sovrana con suoi confini, al momento sempre mutevoli. La realtà di un Rojava autonomo, consolidata dalla battaglia eroica di Kobane (che ormai costituisce un nuovo mito di fondazione per il PKK), ha consentito all’organizzazione, mutilata per la carcerazione del suo leader e da anni di negoziati senza risultati con lo Stato turco – e per giunta conclusisi in un bagno di sangue – di aprire nella sua storia una nuova sequenza.

 

Campismo e rivoluzione permanente

I marxisti rivoluzionari non si concedono il lusso di cedere alla tentazione di adottare tranquillamente una griglia analitica campista con una presa di posizione dipendente da questa. Il “campismo” nell’accezione classica, sta ad indicare il fatto di sostenere, in periodi di tensioni e conflitti geopolitici, uno dei campi presenti contro l’altro, identificato come il “male assoluto”, senza tener conto dei rapporti di dominazione di classe al suo interno. Il dibattito sul campismo riguarda soprattutto il sostegno da parte di forze della sinistra, al momento della “Guerra fredda”, al blocco dell’Est o a quello dell’Ovest, rispettivamente in nome dell’antimperialismo o della democrazia. Una polarizzazione del genere oggi ritorna a proposito dello scontro ucraino e soprattutto del problema siriano tra gli Stati Uniti/Unione europea e la Russia. Nel nostro caso, si tratta, nel quadro del contesto combinato in Siria, del sostegno, secondo la medesima modalità campista, di uno dei campi in presenza, e cioè dei Kurdi nel loro progetto di autonomizzazione o della sollevazione contro il regime, senza tener conto dell’altro processo, assegnandogli una rilevanza secondaria o collocandolo in posizione avversa.

Ci è, così, impossibile isolare il processo di autodecisione kurda dalla dinamica della sollevazione siriana e avere una visione acritica nei confronti del PYD-PKKK, giudicando come secondari le pratiche autoritarie e gli attacchi ai diritti politici, che minano maggiormente le basi del suo progetto democratico. Tuttavia, non è neppure concepibile rifiutare di tener conto del processo in corso in Rojava con le sue dimensioni effettivamente progressiste – che non hanno pari in tutta la regione – e minimizzare il potenziale emancipatore che implicano, prendendo a pretesto il rapporto (in costante evoluzione) con il regime o con gli Stati Uniti, che comportano la loro quota di pericolo e le contraddizioni cui abbiamo accennato.

Se la direzione del Rojava è, naturalmente, responsabile dei suoi atti ed alleanze, vanno affrontate anche tutte le sue contradizioni, nel quadro dei conflitti storici interetnici tra i kurdi e gli arabi nella regione e della rivalità tra le varie direzioni del popolo kurdo. Non possiamo fare altro che affrontare l’intera questione in tutta la sua complessità, elaborando un approccio critico e costruttivo al tempo stesso.[14] Essa deve avere come zoccolo di base la comunanza degli interessi delle classi lavoratrici kurde, arabe e degli altri popoli della regione e quindi dell’indispensabile intreccio tra il processo di autodecisione e la rivoluzione.

Niente di nuovo sotto il sole; l’argomento principale della prospettiva strategica della rivoluzione permanente formulata da Lev Tročkij all’indomani della rivoluzione russa del 1905, ma che è stata determinante (soprattutto per la sua assenza) per il corso di tutte le sollevazioni rivoluzionarie, dalla Rivoluzione francese alla “Primavera araba”, pone in rilievo tale necessità. I processi rivoluzionari che hanno come obiettivo la liberazione nazionale e l’instaurazione di un regime democratico si indeboliscono e alla fine falliscono se non si prendono misure collettiviste, anticapitaliste, se non si tiene conto delle aspirazioni delle classi popolari – il cui appoggio è primordiale – e le si delude. Ed anche quando movimenti che tendono alla trasformazione radicale, libertaria della società non rispettano i principi democratici sui territori che controllano, non riconoscono il diritto all’autodeterminazione degli altri popoli, non agiscono in una prospettiva antimperialista, vale a dire in totale indipendenza politica dalle forze mondiali e regionali, la loro rivoluzione è condannata a discostarsi dagli obiettivi iniziali e quindi destinata all’insuccesso.

Per cui, il compito principale della sinistra radicale che milita al di fuori dell’area di conflitto, a parte le indispensabili iniziative di solidarietà, è quello di operare per sviluppare questa coscienza nelle nostre rispettive società, contaminate da un flagello ideologico quale il “campismo”, per il quale l’unico antidoto resta sempre la tradizione dell’internazionalismo proletario, di cui il marxismo rivoluzionario è portatore.

Uraz Aydin

Da Inprecor, n° 633-634

Traduzione di Titti Pierini.

Di Uraz Aydin sullo stesso numero di “Inprecor” si veda un ampio articolo sulla Turchia, Coup d’Etat, dictature et union islamo-nationaliste

 

[1]Cfr. http://www.internationalviewpoint.org/spip.php?article53: Chris Den Hond, “Interview with Marwan Othman”.

[2] V. Jordi Tejel, Suriye Kurderi. Tarih Siyaset ve Toplum (“I Kurdi di Siria. Storia politica e società”), Intifada yaymlari, Istanbul 2005; Sirwan Kajjo, Christian Sinclair, The evolution of Kurdish Politics in Syria (1927-2011)http://www.europesolidaire.org/spip.php?article38710.

[3] Julie Gauthier, “Les évenements de Quamichlo: l’irruption de la question kurde en Syrie?”, in Études kurdes, n. 7, maggio 2005.

[4] Si veda Thomas Schmidinger, Suriye Kürdistan’nda Sava ve Devrim (“Guerra e rivoluzione nel Kurdistan siriano”), Yordan kitap, Istanbul 2015.

[5] Ergun Aidinoglu, Fis Köyünden Kobane’ye Kürt Özgürlük Hareketi (Il movimento di liberazione kurdo del villaggio di Fis a Kobane). Si veda inoltre l’importante intervista a Emre Ongun, “Turquie: panorama et perspectives – Sur la nature du nationalisme turc, les Kurdes, le PKK et la gauche turque”: http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article37297.

[6] Murray Bookchin, Gelecegin Devrimi. Halk Medisleri ve Dogrudan Demokrasi (“La rivoluzione del futuro, consigli popolari e democrazia diretta” - raccolta di articoli)Dipnor, Ankara 2015.

[7] Öcalan, ad esempio, affermava: «Che la Turchia mi capisca bene. Io non ho nulla contro lo Stato unitario. Rispetto la bandiera. Nella mia tomba si possono trovare tre bandiere: quella dell’Unione Europea, quella dello Stato unitario e quella del confederalismo che simboleggia la democrazia». Cengiz Kapmaz, Öcalan’in Imrali Günleri (“I giorni di Imrali [l’isola in cui il leader kurdo è detenuto] di Öcalan”), Ithaki yayinlari, Istanbul 2011.

[8] Alex de Jong, Métamorphoses idéologiques du PKK – Une chenille stalinienne transformée en papillon libertaire? [“Un bruco staliniano trasformato in farfalla libertaria? ”], in Inprecor, nn. 614-15, aprile-maggio 2015.

[10] Cfr. T. Schmidinger, op. cit. (v. nota 4).

[11] Yasin Duman, Rojava, Bir Demokratik Özerklik Deneyimi (“Rojava, un’esperienza di autonomia democratica”), Iletism yayilari, Istanbul 2016.

[12] Joseph Daher, Le PKK et la question de l’autodétermination du peuple kurdehttp://www.europe-solidaure.org/spip.php?article34050.

[13] Tejel, op. cit. (v. nota 2), p. 250.

[14] Il documento “En soutien à la lutte du peuple kurde pour vivre libre et dans la dignité” (“A sostegno del popolo kurdo perché possa vivere libero e dignitosamente”), adottato dall’Ufficio esecutivo della IV Internazionale su mandato del suo Comitato internazionale, può costituire un esempio di una tale elaborazione. Cfr. Inprecor, nn. 625-26, marzo-aprile 2015.




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