venerdì 31 agosto 2018 - Entità astratta

Rohingya, Aung San Suu Kyi complice "imprigionata" dai militari Tatmadaw

Il premio Nobel per la Pace (1991) era attesa ad un banco di prova: quello della tutela delle minoranze. Ma nonostante le elezioni stravinte nel 2015 "The Lady" sembra glissare e sminuire un tema ormai diventato un'emergenza umanitaria, investigata dall'Onu e su cui anche le Nazioni Unite hanno sottaciuto per troppo tempo. Forse Suu kyi è di nuovo "prigioniera", questa volta dei veti dei militari, all'interno dei Palazzi del Potere.

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Come in ex Jogoslavia o in Rwanda. Dopo 17 mesi la Commissione d’inchiesta dell'Onu ha espresso il suo parere: in Myanmar ci sono state violazioni dei diritti umani contro le minoranze, contro i Rohingya più di tutti, una minoranza di religione musulmana in un paese a larga maggioranza buddista.

Una catastrofe prevedibile e pianificata”. Le 18 pagine del report, che verrà presentato a Ginevra il prossimo mese, non lasciano dubbi e risuonano come una sentenza da tempo assimilata dall’opinione pubblica: torture, uccisioni arbitrarie, interi villaggi distrutti e stupri di massa. Rakhine, lo stato dell’ex Birmania che si affaccia sul Golfo del Bengala, ad ovest del paese, è teatro di uno dei più feroci genocidi degli ultimi decenni. Più di 700 mila le persone fuggite nelle regioni vicine negli ultimi dodici mesi.

Alcune fonti asiatiche parlano di 1 milione di Rohingya ammassati nelle zone costiere bengalesi, pochi chilometri a nord, nel sud del Bangladesh, in cerca di un posto sicuro. Un esodo di massa per scampare alle uccisioni dei Tatmadaw, i terribili militari birmani: più di 10mila vittime dall’anno scorso, di cui, secondo le Nazioni Unite, sarebbe complice morale anche Aung San Suu Kyi, paladina della democrazia e Premio Nobel per la Pace 1991, diventata poi la leader “de facto” del Myanmar, grazie all’appoggio dei militari, con cui dal 2015 governa il Paese.

L’Alto Commissario dell’Alto Commisariato delle Nazioni Unite per i diritti Umani Zeid Ra'ad al Hussein, conosciuto come una persona franca e schietta, ha demolito il Consigliere di Stato birmano. In un’intervista alla “BBC” Hussein ha ripreso le critiche dello scorso settembre avanzate dall’attivista musulmana pakistana Malala Yousafzai, anch’essa Premio Nobel per la Pace, che le chiese una presa di posizione chiara.

Era nella posizione di fare qualcosa” ha tuonato Hussein. “Avrebbe potuto stare zitta o dimettersi piuttosto che essere portavoce dell’esercito birmano. Non avrebbe dovuto parlare di disinformazione” ha concluso.

Il report delle Nazioni Unite, con gli oltre 875 testimonianze, non lascia spazio all’immaginazione e ai dubbi: i sei generali dell’esercito ufficiale birmano, tra cui l’alleato di Suu Kyi Ming Aung Hlaing, il bullo diventato l’uomo più potente del Paese, hanno messo in atto una pulizia etnica ai danni dei Rohinghya, i “bengalesi”, così chiamati perché non membri dell’etnia dominante bamar, nonostante da secoli vivano nel Rakhine, senza però esser stati considerati veramente natii del Myanmar.

Un mix di nazionalismo e razzismo, quella dei generali, confermata anche da Tirana Hassan, direttrice di "Amnesty International", dal Segretario di Stato Americano Rex Tillerson e dall'arcivescovo anglicano attivista dei diritti umani Desdmond Tutu.

Dall’indipendenza dal Regno Unito (1948) i Rohinghya sono stati ciclicamente perseguitati dai militari: nel 1977, nel 1991, e nel 2012, quando Suu Kyi era già parlamentare nella Camera bassa dell’Assemblea dell’Unione. Effettivamente Suu Kyi ha spesso inquadrato la situazione dei Rohinghya all'interno degli effetti negativi dei decenni di regime militare.

Ma Suu Kyi, buddista, ha recentemente apostrofato come “esagerata” la versione dei racconti dei Rohinghya e delle violenze da loro subite per mano dei militari, spesso giustificandole come una "risposta" a quelle dei Rohinghya: come quelle dell’agosto scorso anno, quando a seguito degli attacchi dei Rohinghya più radicalizzati (Arakan Rohinghya Salvation Army), sono morte almeno 71 persone, tra cui 12 militari.

Tutu, un sostenitore di Suu Kyi, vede nell’ascesa al potere verso i piani alti del Myanmar di Suu Kyi un “prezzo politico troppo alto da pagare”. Troppo per una donna conosciuta come la più famosa prigioniera politica al mondo, figura politiche tra le più conosciute del pianeta, testimone e simbolo negativo della gerenza dei militari, che hanno portato la Birmania, dopo l’indipendenza, a pian piano a diventare il paese più povero del sud est asiatico. La tutela delle minoranze era uno dei banchi di prova per Suu Kyi. Ma nei fatti sembra che “The Lady” abbia perso questa battaglia (e con lei le Nazioni Unite, osteggiate dal Consiglio di Sicurezza dal veto cinese e dai suoi interessi).

Nonostante Suu Kyi abbia stravinto le elezioni del 2015, le prime veramente libere dal 1990, vinte anche in quella circostanza dalla “Lega Nazionale per la Democrazia” (LND), Suu Kyi non può esser considerata la condottiera del Paese. E anche per questo, nonostante le critiche sollevate, non le sarà ritirato il Premio Nobel per la Pace.

Aung San Suu Kyi, 73 anni, sembra esser scesa a patti con gli stessi militari che l’hanno segregata, finendo oggi, nei fatti, imbrigliata e imprigionata dalle maglie politiche e legislative tessute dal terribile Than Shwe, il generale dal pugno di ferro che fino al 2011 ha guidato la Birmania, e dai suoi successori.

Negli oltre 50 anni di potere i militari sono diventati molto ricchi e prima di lasciare “de facto” il potere in mano al popolo si sono garantiti un sistema politico non ostile, capace di garantire loro tranquillità: per costituzione un quarto dei seggi è garantito ai militari, un numero che nei fatti impedirà di cambiarla per molto tempo. I militari hanno creato anche un Consiglio nazionale della difesa e della sicurezza, che in caso di emergenza può dichiarare lo stato d’emergenza e sospendere il governo eletto: sei dei suoi undici membri, la maggioranza, sono ufficiali militari. Il che equivale a dire che se l’esercito vorrà potrà riprendersi il potere in modo abbastanza legale.

Dal 1990, quando la vittoria di Suu Kyi non fu accettata, ad oggi, pochi anni dopo la chiusura di quella che fu considerata una “fase costituente”, molte cose sono cambiate: a partire da Suu Kiy, che ha passato 15 anni agli arresti domiciliari e che, secondo molti, in passato, avrebbe usato la sua “autorità morale” per fermare la repressione contro le minoranze birmane. Questo nonostante il potere sia passato nelle mani Htin Kyaw, “fratello” politico di Aung San Suu Kyi ed esponente del LND, insignito degli oneri e degli onori delle presidenza a causa di una norma ad personam che ha impedito a Suu Kyi di esser eletta Presidente del Myanmar, relegandola, quindi, solo a leader “de facto”. Un ruolo carico di responsabilità, ma svuotato di molti poteri. 

Così, mentre la figura del Segratario di Stato del Myanmar si consuma agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, le Nazioni Unite, la stessa organizzazione che ha favorito la liberazione di Suu Kyi nei primi anni del 2000, sta aiutando il Bangladesh a ricollocare il milione di Rohingya dalla cittadina costiera di Cox’s Bazar, a sud del Bangladesh, a Bhasan Char, un’isola disabitata emersa dalle acque solo undici anni fa, e per questo poco conosciuta. Lì, nelle intenzioni di Dacca, i migranti potranno riorganizzare la loro vita, lontana dal terrore che aleggia da Naypyidaw. Uno scenario, anche questo, che però stride con le dichiarazioni ottimistiche di Suu Kyi, "figlia" di Ghandi e paladina della non violenza, che in passato aveva pronosticato un felice ritorno nella terra natia per i Rohinghya, in un Myanmar, anche per loro, veramente libero dalle ingerenze dei regimi militari.

 




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