giovedì 1 settembre 2016 - Marco Scipolo

Rimbocchiamoci le maniche | Gilles Rocca: "In Tv farò arrabbiare la Ferilli" (Intervista)

Il fascinoso attore e regista romano si racconta ad AgoraVox in questa lunga intervista. Lo vedremo recitare accanto a Sabrina Ferilli nella fiction “Rimbocchiamoci le maniche” in onda da mercoledì 7 settembre in prima serata su Canale 5. L’artista confida: «Preferisco i ruoli drammatici. Amo trasformarmi per il personaggio». E rivela che sarà anche nel film di Natale con Lillo & Greg.

(Si ringraziano per le foto Andrea Ciccalè, Fabrizio Di Giulio e Roberto Chiovitti)

 

JPEG - 2.3 Mb
Gilles Rocca - Foto di Andrea Ciccalè

Bellezza e talento possono coesistere anche nel panorama cinematografico italiano. Ne è la riprova Gilles Rocca, 33 anni, romano, attore in ascesa e regista intraprendente. «Recitare significa essere ogni giorno una persona diversa senza pagarne le conseguenze», afferma ragionando sulla sua professione. Il suo non è un nome d’arte. «All’anagrafe sono proprio Gilles», precisa il poliedrico artista. Un nome scelto in particolare dal papà, grande appassionato di motori e ammiratore di Gilles Villeneuve, il pilota di Formula Uno scomparso nel 1982.

Alto 1 metro e 80, capelli castani, occhi verdi ed un fisico scolpito (grazie alla perfetta corporatura atletica si è aggiudicato, nel gennaio 2015, la copertina del magazine For Men), Rocca dimostra grande naturalezza nella recitazione. Interpreterà un personaggio negativo nella nuova serie televisiva Rimbocchiamoci le maniche targata Mediaset (otto puntate, per la regia di Stefano Reali) dove l’attrice Sabrina Ferilli, la protagonista, indosserà le vesti di un’operaia di provincia, Angela Tusco, madre di tre figli, con un matrimonio in crisi e una prospettiva professionale insicura perché la fabbrica dove lavora deve chiudere e lasciare spazio alla speculazione edilizia come prevede il piano regolatore del paese. Angela, capocucitrice della manifattura tessile Charmant, non si arrenderà ed entrerà nell’agone politico per cercare di mettere in salvo l’opificio ed il lavoro delle sue colleghe. Passione, politica, impegno civile, complotti sono gli ingredienti principali di questa fiction prodotta da Rti-Endemol Shine Italy e girata ad Offida (nome cambiato in tv, però, in Offidella per tramutarlo in un centro immaginario) e in altri luoghi delle Marche e del Lazio. Nel cast, diversi attori tra i quali: Sergio Assisi, David Coco, Marco Falaguasta, Michela Andreozzi, Maurizio Mattioli, Andrea Giordana, Benedetta Gargari.

Gilles Rocca sarà uno degli antagonisti di Angela Tusco. Divo dei fotoromanzi, ha già recitato in varie fiction televisive (Carabinieri, I Cesaroni, Sangue caldo, Ris, Distretto di Polizia, Don Matteo). Ex calciatore professionista, da cinque anni milita pure nella compagine dell’ItalianAttori, la rappresentativa di attori e registi – ideata da Pier Paolo Pasolini – che scende in campo a favore di iniziative benefiche.

Nell’intervista che ci ha gentilmente rilasciato, oltre a fornirci qualche dettaglio in più sulla serie tv e sul suo personaggio, ripercorre anche alcune tappe della sua carriera, parla dell’esperienza nel cinema d’autore, della sua passione per la regia ed annuncia i suoi prossimi impegni professionali. Da cineasta è una fucina di idee: sono già numerosi, finora, i cortometraggi d’impegno sociale da lui diretti ed interpretati nei quali si mostra interessato ad accendere un faro su fenomeni e problematiche che attanagliano il nostro Paese e non solo. È un regista che osserva con molta attenzione la realtà attuale che ci circonda. Muove da lì per denunciare alcune situazioni e risvegliare la coscienza degli spettatori, facendo riscoprire valori spesso dimenticati.

Gilles Rocca - Foto di Fabrizio Di Giulio

Cosa ci può anticipare di Rimbocchiamoci le maniche?

Il personaggio di Sabrina Ferilli, che in questa fiction parte come operaia in fabbrica, è una donna molto forte a livello umano e le sue colleghe la spingono a candidarsi come sindaco di questo paesino. La Ferilli riesce a vincere le elezioni e, in questa località, va a contrastare tutte le cose negative, cerca di riportare ordine per quanto lei possa. Una delle brutte piaghe di questa cittadina è l’alcolismo nei giovani. E chi è il “diavolo” in questo ambiente? Io…

Perché? Chi è il suo personaggio?

Il mio ruolo è quello di Antonio, 26enne, proprietario di un wine bar sul mare, un ragazzo molto spaccone e spocchioso, circondato da belle ragazze e abituato ad averla sempre vinta. Antonio fa bere i ragazzi minorenni e, a volte, organizza per loro, in alcuni posti, delle “bevute alla cieca” a pagamento (ovvero non si sa cosa i minorenni bevono). Il personaggio di Sabrina Ferilli farà emettere dei provvedimenti, comincerà a mettermi dei bastoni tra le ruote. Avrò a che fare anche con la figlia della Ferilli, interpretata da Benedetta Gargari. Ci saranno diverse vicissitudini. Insomma, nella fiction sono un poco di buono…

La vedremo già nella prima puntata?

Sono in tre puntate: seconda, quarta e settima. Ma il mio personaggio, anche nelle puntate dove non mi si vedrà, sarà comunque nominato perché i ragazzi più giovani tengono sempre molto presente questo bar dove si va a bere.

È soddisfatto di questa partecipazione?

Si tratta di un’occasione molto importante che mi ha dato il regista Stefano Reali, uno dei miei primi maestri nella scuola di recitazione. Mi scontrai con lui perché sosteneva che per fare l’attore devi avere una cosiddetta “ferita”, cioè devi andare a prendere un tuo dolore in un momento di bisogno a livello artistico che ti consenta di tirar fuori il meglio dal personaggio. Io lo contestavo un pochino perché sostenevo che se uno aveva avuto una vita perfetta… Ma lui mi diceva: non ti preoccupare, ché tutti hanno una “ferita”. Infatti, poi così è stato. E sono riuscito a capire esattamente di cosa parlava. La cosa bella è che, dopo anni, ci siamo ritrovati a lavorare insieme. Mi ha chiamato per fare questo provino. Gli è piaciuto molto. La Ferilli è stata contenta della scelta che è stata fatta per il mio ruolo.

Come ha studiato per calarsi nella parte?

Ho studiato più che altro dai più giovani. Tu studi sul copione le battute, poi, ovviamente, il tuo personaggio devi un po’ costruirtelo dalle tue esperienze, dalla vita vissuta, da quello che vedi. Essendo un pochino più grande d’età del mio personaggio, ma avendo superato quegli anni non da tantissimo, sono andato alla ricerca di quali erano gli atteggiamenti dei baristi, dei gestori dei locali, attingendo dalle esperienze che avevo vissuto in spiaggia: d’estate, uno va in questi baretti sul mare e c’è sempre quello che fa il più “figo”. Stefano Reali mi chiedeva questo: il personaggio doveva essere molto romano e greve. Il privilegio è stato quello di lavorare con Sabrina Ferilli che non nasconde la sua romanità, anzi lei è di Fiano Romano e quindi ha quel tipo di “calata” un po’ più della campagna romana, e ciò ti consente di non dover recitare, come si fa in molte fiction italiane, in dizione perfetta. Dovevo essere un personaggio molto rozzo, arrogante, che non aveva paura di nessuno. Ecco, io mi sono studiato un po’ di personaggi che vedevo nella vita normale. Ho studiato molto dalla strada per questo personaggio. 

Com’è lavorare accanto ad un’attrice del calibro di Sabrina Ferilli?

È spaventoso, perché quando sei preso in una fiction o in un film la cosa che speri è di lavorare con il protagonista, il personaggio più importante, perché sei sicuro al cento per cento che non ti tagliano niente perché le scene a due sono quelle, quindi è anche un po’ una garanzia. Quando hai la Ferilli davanti agli occhi ti accorgi che è una donna che ha vinto l’Oscar. Attribuisco alle sue scene intime con Servillo il merito di aver contribuito a far vincere l’Oscar al film di Sorrentino La grande bellezza. Secondo me, è un’attrice molto più brava di quello che appare nelle fiction italiane. Devo dire che c’era molta sudditanza. E mi ricorderò sempre che sul set mi guardò negli occhi e mi fece un sorriso, e quel sorriso era proprio della serie: sei bravo, stai tranquillo, andrà tutto bene. Se sbagli il primo ciak, il secondo, il terzo… cominci ad avere paura di farle perdere del tempo. Invece, è andato tutto liscio. Sono felicissimo di aver lavorato con lei che sul set è una “macchina da guerra”, una donna di un fascino incredibile, una grande professionista.

Quando e come è nata la sua vocazione artistica? Lei, prima, parlava di una “ferita”…

La “ferita” me la porto tuttora appresso. Nasco in una famiglia di artisti, nel senso che mio padre da molti anni gestisce gli strumenti musicali in Rai, sono più di cinquant’anni che si occupa di musica. Io sono sempre stato negli studi televisivi. Ho sempre respirato l’aria del cinema grazie a lui nei film di Gassman, Tognazzi, Totò che mi faceva vedere… Mia madre era un’estimatrice di Eduardo De Filippo, di Peppino… La fortuna-sfortuna è che ho avuto sempre una grandissima predisposizione per lo sport, quindi per tanti anni della mia vita ho fatto il professionista come calciatore: ho giocato quattro anni con la Lazio, con l’Empoli, col Frosinone. Perciò, fino ai 20-21 anni non ho potuto esprimere questo mio lato artistico per la recitazione ed impegnarmi nello studio: ero occupato sei giorni su sette, vivevo lontano da casa. Però c’è sempre stata, fin da piccolo, una passione per la recitazione. Quando ho avuto un bruttissimo infortunio che mi ha costretto a lasciare lo sport, mi sono ritrovato senza nulla da fare di così importante che mi potesse riempire la vita. Grazie al calcio mi chiamarono a fare una fiction, Carabinieri, che fu il mio primo ciak. Lì feci il sequestratore di persona. Per riuscire a dare bene le battute, mi sono messo a studiare e ho frequentato per due anni una scuola di recitazione dove ho incontrato diversi registi importanti tra cui Stefano Reali ed ho capito così quali erano i mezzi per riuscire a dare un certo tipo di battute. E lì è uscita tutta la mia passione per la recitazione e per la regia. Non mi sono più fermato, ho iniziato a lavorare e sto andando avanti ancora dopo dieci anni.

A quale scuola di recitazione si era iscritto?

Ho frequentato la Jenny Tamburi. In questa scuola ho fatto anche diversi stage e casting con registi quotati. Poi, il più grande insegnamento l’ho avuto sul set. I due anni di scuola mi sono serviti per avere le prime nozioni. È stata una passione che mi ha travolto. Non sono mai stato molto ligio al dovere, invece in questa scuola mi sono ritrovato ad essere un secchione, uno che aveva proprio fame di sapere, di recitazione, desiderio di mettersi alla prova. Infatti, i miei primi cortometraggi sono nati proprio lì. Di lì a poco, ho fatto Carabinieri, I Cesaroni, Ris, Distretto… È andata sempre meglio.

Gilles Rocca - Foto di Fabrizio Di Giulio

Al cinema l’abbiamo vista protagonista, nel 2014, in Tre tocchi di Marco Risi. Questo film cosa rappresenta nella sua carriera?

Questo film rappresenta la vita. Rappresenta proprio la vita dell’attore, la mia vita, la vita dei miei colleghi. Parla delle difficoltà della vita degli attori. Per me è stata l’occasione della vita: come partire con una Ferrari. Quando hai l’opportunità di lavorare con Marco Risi sai che stai facendo qualcosa di grande. Già tre mesi prima sapevo tutte le battute. È un film che è nato negli spogliatoi dell’ItalianAttori nella quale gioco nel ruolo di attaccante. Nel film ci sono diverse scene che richiamano questa squadra. Oltre a me, vi giocano anche registi come Marco Risi, Matteo Garrone, Stefano Reali. Sono entrato a far parte di questa nazionale a 28 anni come giovane attore e lì mi sono ritrovato questi “mostri sacri” della recitazione… La cosa buona è che io non li guardavo come registi, per me erano semplicemente compagni di squadra. Loro si sono affezionati a me. Marco Risi è diventato uno dei miei più grandi amici, un fratello più grande, ci sentiamo sempre. Io sto spesso a casa sua, guardiamo tutte le partite della Roma insieme, c’è un’amicizia che per me è impressionante. Consideri che guardavo con mio papà Il sorpasso… E ho dormito nel letto di Dino Risi!

È stata, finora, l’opera più importante?

Sicuramente. Già il fatto di lavorare con un regista come Marco Risi… Assolutamente sì. Lui ha puntato su sei attori che lavorano, ma non sono conosciutissimi come Argentero o Bova, e ha potuto raccontare questo spaccato che esiste davvero: gli attori che fanno anche altri lavori per campare. Ha voluto attori che hanno avuto anche delle difficoltà all’inizio della propria carriera: chi è partito dai fotoromanzi, chi lavorava nei ristoranti e faceva canzoni napoletane… Sono storie adattate, ma c’è molta realtà. Infatti, lui ha voluto tenere i nostri nomi proprio per questo motivo. Al di là che nel film sono un cocainomane (in realtà sono uno sportivo e non fumo neanche sigarette), per il resto c’è molto della mia storia. Marco Risi ha fatto recitare dei cammei ad Argentero, Santamaria, Paolo Sorrentino, Lodovini, Maurizio Mattioli, Ida Di Benedetto, Enzo Decaro, Matteo Branciamore… Loro erano al nostro servizio. Le racconto anche un piccolo aneddoto: nel film, la palestra di pugilato è l’Audace, palestra storica romana. È la stessa dove Dino Risi girò la scena de I mostri con Tognazzi e Gassman. Nell’inquadratura c’è anche la stessa panchetta.

Gilles Rocca - Foto di Roberto Chiovitti

Quali differenze ha notato tra piccolo e grande schermo?

Il tempo. La televisione va a duemila: in tv giri molte più scene durante il giorno e c’è, purtroppo, meno cura legata al personaggio. Tre tocchi lo abbiamo girato in sette settimane, facendo due scene al giorno, al massimo tre. Con la televisione, invece, fai cinque-sei scene. Infatti, Stefano Reali girava con tre macchine in contemporanea. Con la tv hai tempi serratissimi.

Per Gilles Rocca che cosa significa recitare?

Recitare significa essere ogni giorno una persona diversa senza che ne paghi le conseguenze. Puoi essere un killer, un pedofilo, un prete, una bravissima persona, un eroe. Puoi morire e rinascere. Vivi ogni giorno la vita di qualcun altro, la fai tua. Alla fine fai quello che facevi quando eri bambino. L’attore ha il lusso di giocare per tutta la vita, quindi prendendosi sul serio per i ruoli che richiedono serietà, scherzando e ridendo per quelli che richiedono più comicità, però sempre con il massimo dello studio e dell’impegno, cercando un arricchimento senza che esso vada poi a gravare sulla psiche. Io sono innamorato di Heath Ledger, attore morto a 27 anni dopo aver fatto un ruolo come Joker. A mio parere, è l’unico attore della saga di Batman che ha portato umanità e malattia mentale ad un personaggio come Joker, nato come personaggio di un fumetto. Lui ha interpretato quel ruolo intorno ai 25 anni. Mi chiedo come sia possibile che un attore riesca ad essere così bravo, così pieno. Adoro anche Leonardo Di Caprio e Tom Hardy. Tutti attori che hanno grandissimo studio, ma che hanno pancia e cuore. Ritengo di essere più un attore di pancia e cuore che di tecnica: io ci devo credere in quello che dico, in quello che faccio.

Dal sequestratore all’ex marine all’attore borioso e cocainomane… Nel tempo, ha vestito i panni di diversi personaggi. Quali ruoli preferisce interpretare?

Ci sono dei ruoli che ancora non ho fatto. Sicuramente sono i ruoli drammatici, dove posso mettere a disposizione il mio corpo anche nella trasformazione. In questo periodo della mia vita, sto sfruttando molto il lato estetico perché è quello che mi viene richiesto. Un fisico allenato è molto gettonato. Vengo preso per i ruoli del bello, del tenebroso… Però in Cado, che è il mio corto in uscita dal quale sto realizzando l’opera prima, sono appesantito, ho la barba incolta, le unghie sporche, sono un uomo che si può dire tutto tranne che bello. Il corpo di un attore è uno strumento. Mi piace mettere a disposizione la mia fisicità in tutti i tipi di sfaccettature legate a tante situazioni e stati d’animo che vive il personaggio, come ad esempio, in questo caso, la depressione. In Tre tocchi ho perso dodici chili in due mesi per arrivare a fare il cocainomane. Il tuo corpo è al servizio del personaggio, e se ti chiedono di essere un certo tipo di personaggio, ti devi far trovare al meglio della tua forma in modo da essere pronto. Fare l’attore è un mestiere a tutto tondo, sul corpo, sulla mente, sull’anima, su tutto.

JPEG - 1.3 Mb
Gilles Rocca - Foto di Roberto Chiovitti

Un attore di bell’aspetto riesce più facilmente a raggiungere il successo?

Non riesce assolutamente a raggiungere più velocemente il successo perché è catalogato in ruoli ben precisi. Un ragazzo molto bello ha come ruolo il protagonista, e se c’è già un protagonista quel ruolo è già occupato, a meno che non ci sia il ruolo di un bello che ha qualche puntata. È molto difficile, soprattutto perché devi far capire che oltre al bell’aspetto hai anche qualcosa da dire come attore. In Italia se sei bello fai il modello, se sei grasso l’attore comico, se sei simpatico fai il ruolo del carabiniere scemo… Invece, nel nostro Paese dovrebbero capire che dietro un bel ragazzo c’è magari anche un talento, tanto studio. Io lo vedo anche con la mia fidanzata, l’attrice Miriam Galanti, una donna meravigliosa che è stata miss Mantova e su tantissime copertine. È entrata al Centro sperimentale, si è diplomata, ed ha vinto a Venezia un premio come nuovo volto del cinema italiano. Però, prima di ricevere questo premio si è dovuta fare tre anni di Centro sperimentale, ha dovuto far vedere che è brava oltre che bella.

Quale consiglio offre a chi vorrebbe scegliere il mestiere di attore?

Sicuramente di essere molto curioso e di sperimentare tante cose. Cercare di riprendersi, di guardarsi tantissimo per capire cosa si sta facendo, di individuare una scuola di recitazione ottima e non di quelle che si trovano su internet che ti promettono di diventare qualcuno. L’importante è anche entrare a far parte di un gruppo di lavoro, avere sinergia con altri professionisti che vogliono fare le stesse cose. Produrre più materiale possibile, fare dei cortometraggi, delle prove attoriali, cercare una buona agenzia. Bisogna avere la fortuna di trovare persone oneste: una cosa importante per chi vuole fare questo mestiere.

Lei è anche un creativo regista di vari ed interessanti cortometraggi di impegno sociale, come Metamorfosi sul femminicidio, un corto ancora di estrema attualità…

Metamorfosi è stato il mio gioiello, un cortometraggio che ho scritto e diretto. Quando ho deciso di girarlo, nel 2013, sono partito come un carro armato. Ho chiamato dei professionisti amici dicendo loro che desideravo fare questo progetto. Ho detto: non ci sono soldi, facciamolo insieme, vi prometto che vi pagherò. Di lì a poco, il cortometraggio è diventato documento ufficiale del ministero degli interni e ha rappresentato l’Italia al consiglio europeo dei ministri. Ha girato tutta Europa e sono tre anni che continua ad avere un successo incredibile. Ho pagato tutti i ragazzi che ne hanno fatto parte. È stata una scommessa vinta. Quando l’ho scritto, nel 2012, del femminicidio non si parlava così tanto come oggi.

Il suo cortometraggio Fame, originale ed efficace, è contro i pregiudizi, contro l’apparenza che inganna.

Abitavo vicino ad una mensa dei poveri, nella zona degli studi della Rai di via Teulada. Ogni volta che andavo negli studi televisivi, vedevo questa lunga fila di uomini che attendevano di mangiare alla mensa. Conobbi il parroco, don Pablo, una persona squisita, molto attuale, non il classico prete. Gli chiesi se gli andava di girare un corto a sfondo sociale sul pregiudizio dell’immagine delle persone. Mi ha detto di sì. E io l’ho girato quattro anni fa in due notti, con una sola macchina: tutto luci-ambiente ovvero senza luci alternative. Abbiamo girato gli esterni in zona Prati ed il corto ha avuto un grandissimo successo.

I suoi brevi film inducono lo spettatore a riflettere. Con L’ostacolo più grande ha inteso sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dei disabili. È stato difficile girare questo corto? E nel realizzarlo, che mondo ha incontrato?

Il cortometraggio è tratto da una storia reale. Nel 2008 vinsi un premio come miglior attore nella trasmissione Volami nel cuore, un programma di sette settimane in prima serata su Raiuno. Erano stati presi dodici attori, tutti quanti del Centro sperimentale e dell’Accademia d’arte drammatica. E vinsi io che non avevo fatto né l’Accademia né il Centro sperimentale. Il regista di questo programma televisivo era Roberto Cenci. Avevamo un amico in comune, un ragazzo che giocava a pallone con me nel Cervia. Questo giovane, un giorno, era fermo in moto, in curva, nelle parti di Milano Marittima ed un uomo l’ha tamponato mandandolo sulla sedia a rotelle. Questo ragazzo ha iniziato a vivere una vita totalmente diversa da prima, e ha cominciato a giocare a basket in carrozzina. Io mi sono sentito morire quando ho saputo questa notizia, e ho voluto ispirarmi alla sua storia e a tutte le difficoltà che vedo a Roma per i disabili. Nella mia città c’è un parcheggio selvaggio: si mette l’auto in seconda-terza fila e perfino sugli scivoli per i disabili, creando dei danni incredibili a queste persone che non riescono più a circolare. Così ho scritto la storia di questo ragazzo che, inizialmente, ha una macchina di lusso, è uno spaccone, parcheggia l’auto sullo scivolo dei disabili fino a che rimane vittima di un incidente in moto e riesce a capire, finalmente, quanto era il danno che creava a queste persone. La cosa bella di questo cortometraggio è che sono riuscito a girare il finale disputando una partita di basket in carrozzina con i ragazzi del Don Orione. È stata una sensazione unica. Mi sono messo sulla carrozzina e ho giocato con loro che andavano a duemila rispetto a me. Essendo abituati a giocare così, erano bravissimi. Ero io il vero disabile in quel momento. Abbiamo passato due giornate di riprese, siamo stati benissimo.

In Cado, invece, cosa vuole sottolineare in particolare?

Cado è stata una cosa inaspettata. Fortunatamente ho avuto dei produttori, tra cui Roberto Mineo, che hanno creduto nel progetto. Questo cortometraggio è legato ad una situazione di disagio che ha avuto una persona a me molto vicina ammalatasi di depressione a causa della crisi economica, dello scarseggiare del lavoro. Ne ho tratto molti spunti per raccontare questo spaccato che è la vita degli italiani, dei piccoli imprenditori che perdono la forza di credere nel lavoro perché, purtroppo, le tasse e le bollette ti schiacciano talmente tanto, ed in più c’è lo spettro dell’immigrazione. Perché uno pensa che sia l’immigrato a toglierti il lavoro, ma in realtà non è così. Cado racconta la storia di una coppia di italiani oppressi dalla crisi e di un uomo arrivato dall’Africa nel nostro Paese in cerca di fortuna: i protagonisti saranno accomunati da una tragedia simile. Una casa di produzione ha visto il corto e l’ha apprezzato molto. Ci ha proposto di scrivere l’adattamento per l’opera prima e di farlo diventare un lungometraggio. Quindi ora, con la mia fidanzata, stiamo lavorando alla sceneggiatura. Lei è una bravissima attrice ma si è rivelata pure un’ottima sceneggiatrice.

Quanto deve ai fotoromanzi?

Fare il fotoromanzo significa stare di fronte ad un obbiettivo e dover interpretare un ruolo, senza l’uso della parola, solo con la mimica facciale: è un continuo allenamento. Io devo tantissimo ai fotoromanzi, perché i fotoromanzi mi hanno scelto quando non avevo ancora iniziato a fare l’attore. Forse è stato anche un avvicinamento a questa professione. Ho avuto più di 60 copertine come protagonista con Lancio e, contemporaneamente, sono stato chiamato a Grand Hotel. Adesso continuo a lavorare con Grand Hotel. Il fotografo ufficiale di questa rivista, Max Angeloni, è diventato mio socio: abbiamo una piccola casa di produzione cinematografica che si chiama Riflessi Fotografici. Come primo cortometraggio insieme abbiamo fatto L’ostacolo più grande. Lui è il direttore della fotografia anche di Fame, Metamorfosi e Cado. E poi c’è il mio ultimo corto uscito, Casting Die-rector (2015), che ha avuto tanto successo al 48 Hour Film Project, un contest americano dove ci siamo guadagnati il premio per la miglior fotografia e anche quello per le migliori musiche originali. Abbiamo una squadra fissa formata da me, dalla mia fidanzata Miriam Galanti, dal fotografo Max Angeloni e dal compositore Andrea Camilletti.

Crede che il cinema possa svolgere anche una funzione etica?

Sì, sicuramente, deve essere anche insegnamento. Mi sono accorto che le immagini contano molto più delle parole dette. Il film ti cala dentro una realtà che ti fa sognare se è un film che tratta un tema adatto per sognare, ma ti mette comunque di fronte alla realtà.

Quali sono gli attori ed i registi che stima e considera modelli di riferimento?

Uno su tutti è Marco Risi, perché per me è stato tutto, è un insegnamento costante, è anche una supervisione per i miei cortometraggi. Come regista mi piace molto pure Placido. Sorrentino lo definisco un esteta del cinema. Di registi stranieri, adesso ce n’è uno pazzesco: Xavier Dolan, un ragazzo di 27 anni, canadese, il regista di Mommy e di altri capolavori, un genio assurdo, un fenomeno. Del passato, su tutti, Kubrick: aveva proprio una visione sua che si riconosceva. Come attori italiani, secondo me, il più forte di tutti è Kim Rossi Stuart, un tipo di attore al quale mi ispiro molto perché riesce veramente ad essere qualunque cosa. Mi ha impressionato moltissimo in Vallanzasca. Di stranieri, mi piace molto Christian Bale. Ho chiesto al mio direttore di fotografia di utilizzare per Cado quei colori verdi acidi, quelle luci acide, de L’uomo senza sonno. E anche Vincent Cassel.

E per quanto riguarda i suoi prossimi lavori, che cosa bolle in pentola?

La mia opera prima, appunto, con tutti i tempi lunghi, ovviamente, della ricerca dei soldi e della distribuzione. Siamo nella fase embrionale, nella fase della scrittura. E, inoltre, reciterò in inglese nel nuovo film di Natale, ambientato a Londra, con Lillo & Greg per la regia di Volfango De Biasi: interpreterò il poliziotto della regina. 




Lasciare un commento