venerdì 27 ottobre 2017 - Aldo Giannuli

Referendum in Veneto e Lombardia: un segnale da non trascurare

Si tratta di referendum consultivi e di nessuna efficacia giuridica immediata, lo so, ma non per questo va trascurato il significato politico, distinguendo fra le due regioni. Se in Lombardia la prova ha avuto un esito ad esser generosi mediocre, in Veneto il risultato è un netto successo ed occorre chiederci il perché di questo successo che, insieme al caso scozzese ed a quello catalano è la terza occasione di tendenze centrifughe che registrano un successo di massa.

In nessuno dei quattro casi il tentativo è andato pienamente a segno: in Scozia ha votato più della metà degli elettori ma la tesi secessionista, pur di poco, è andata in minoranza, mentre in Catalogna e Lombardia le percentuali dei Si sono state oltre il 90% ma ha votato meno della metà degli elettori.

In Veneto gli elettori hanno votato massicciamente per l’autonomia ed ha votato ben di più della metà degli elettori, ma il referendum è solo consultivo. Ciò non di meno, i referendum dicono che circa la metà della popolazione è schierata con la spinta separatista. Anche nel caso del lombardo veneto inteso complessivamente, siamo intorno a quei valori.
Si tratta di casi molto diversi fra loro: quello italiano, ad esempio, è assai più recente degli altri due che vantano antiche radici irredentiste e, inoltre, non ha il retroterra culturale degli altri due casi, ma tutti tre hanno in comune la rivolta contro il fisco (un po’ meno nel caso scozzese).

Il caso italiano richiede qualche spiegazione in più. Di fatto, il separatismo fu un fenomeno recente, dei tardi anni ottanta primi novanta incarnato dalla Lega, ma andò declinando già al 1998-99 per poi sprofondare con la bocciatura della riforma della devolution (referendum del 2006) e con gli scandali della Lega.

Nel 2008 l’ipotesi secessionista era il ricordo di una nube passeggera e la conferma più evidente venne dal corso politico della Lega salviniana, che abbandonava il profilo secessionista del “sindacato territoriale”, per abbracciare quello della Lega nazionale, pronta a sbarcare nel sud, ad imitazione del Fn della Le Pen.

Ora scopriamo che quel sedimento separatista è ancora vivo e mantiene le sue radici e non possiamo che chiederci perché e da chi è costituito. Che si tratti di un fondo culturale è sicuramente da escludersi nel caso lombardo (salvo un certo antimeridionalismo della provincia, che c’è sempre stato, ma che ha un carattere essenzialmente sub culturale): la regione con la massima partecipazione al moto risorgimentale prima e resistenziale dopo.

Mentre c’è qualcosa di più vero nel caso Veneto: regione che, salvo Venezia, ha partecipato molto scarsamente al moto risorgimentale e la cui base contadina e cattolica è stata a lungo una delle capitali del non expedit. Dunque una regione da sempre segnata da un assai limitato senso di appartenenza nazionale.

Queste radici hanno avuto il loro peso, e in parte spiegano il differenziale di comportamento delle due regioni, ma la molla principale è stata un’altra: quella fiscale. L’Italia è da sempre una delle nazioni europee a più forte pressione fiscale (senza, peraltro, offrire i servizi dei paesi scandinavi), ma dal 2011 è nettamente in testa alla classifica con un valore del 55% che, ormai ci siamo abituati a considerare una cosa normale.

Di questo, la responsabilità ricade su Monti, ma, più ancora sul Pd che di Monti fu fervido sostenitore ed il cui indirizzo fiscale ha proseguito con Letta, Renzi ed ora Gentiloni. Ci sono state piccole limature, ma, nella sostanza, il Pd ha fatto del montismo senza Monti. E le conseguenze sono queste. Ed è sintomatico che a rivoltarsi siano (come in Catalogna e in Scozia) i ceti medi delle regioni economicamente più forti, in cui c’è un forte tessuto di Pmi: le più colpite dall’inasprimento fiscale. Poi, la coincidenza del referendum lombardo veneto con quello catalano ha contribuito a ridare fiato alla protesta. Sintomatica, in questo senso, la confluenza dell’elettorato del M5s determinante in Veneto (come rivelano le analisi dell’Istituto Cattaneo): il che conferma il carattere antisistema del voto al M5s.

Ora vediamo le ripercussioni politiche prevedibili partendo da quelle generali ed istituzionali, per poi affrontare quelle nei partiti. In primo luogo, è facile prevedere una spinta convergente in Friuli e, forse in Alto Adige (non nel Trentino), ma, a seguire, anche altre regioni potrebbero reclamare lo statuto speciale, mettendo a dura prova l’unità del paese, anche perché, a differenza degli anni novanta, questa volta potremmo trovarci di fronte a tendenze centrifughe nel meridione. E la cosa potrebbe man mano avere conseguenze anche fuori di Italia: ad esempio potrebbe prendere quota un diverso progetto della comunità dell’Alpe Adria.

A metà anni ottanta si profilò una intesa a scavalco fra le regioni rivierasche del nord della Jugoslavia, del nord est italiano ed alcune regioni austriache limitrofe. All’inizio il disegno era molto ambizioso e puntava alla nascita di un soggetto decisionale con poteri abbastanza pervasivi, poi, l’allargamento alla Baviera ed ad altre regioni austro ungariche annacquò il progetto, che finì per costituirsi come una cosa di mezzo fra un patto di consultazione ed un centro studi. Alla fine la comunità nacque con l’adesione del Veneto e del Friuli, della Baviera, della Slovenia, della Croazia (entrambe poi diventate stati sovrani) della Carinzia, del’Alta Austria, della Stiria, del Salisburghese (che poi è receduto), Man mano si sono aggiunte le regioni ungheresi del Baranya, del Somogy, del Vas e dello Zala, l’autriaco Burgerland e la Lombardia. Una area di circa 200.000 Kmq e quasi 30 milioni di abitanti. Va detto che i rapporti fra la Rft e la Baviera non sono dei migliori e una spinta secessionista potrebbe innescarsi anche lì. Insomma, potrebbe riprendere fiato il progetto originario del soggetto interstatale a scavalco, diretto interlocutore della Ue (e magari andare anche al di là).

E’ sintomatico che, invece non ebbe alcuna fortuna il progetto gemello sul fianco occidentale del Mediterraneo che avrebbe dovuto mettere insieme la Catalogna, il Midì francese, la Liguria ed il Piemonte all’epoca chiamato “Bananone”. Molto dipenderà da come verrà gestita la partita dalla politica italiana, ma occorre capire che ci sono venti che soffiano potentemente nella direzione sfavorevole all’unità italiana.

Occorre convincerci che gli stati-nazione certamente sono fondati su basi culturali e linguistiche, ma non sono solo questo. Gli stati nazionali sono sistemi di interessi organizzati in equilibrio dinamico fra loro. Tanto gli interessi dei gruppi sociali quanto quelli territoriali trovano una propria composizione intorno allo Stato che agisce come magnete che tiene unito il sistema e lo regola.

Con la globalizzazione (e, in Europa, con la stravagante architettura della Ue) il magnete di ciascun paese è stato fortemente indebolito: molte attribuzioni dello Stato sono passate ad organismi sovrastatali (ad esempio la moneta in Europa), la normativa fiscale neo liberista ha consentito ai grandi contribuenti di scegliersi lo stato cui pagare le tasse, i patti sociali interni ne hanno sofferto, i flussi migratori -ed in più generale nomadismo della nostra epoca- hanno indebolito la coesione interna, le multinazionali e i poteri finanziari hanno molto più potere condizionante verso gli stati ecce cc. Per di più, la vulgata ideologica globalizzante, che vorrebbe superate le identità nazionali, contribuisce a far impallidire l’immagine degli Stati e questo ha, per conseguenza imprevista, quella di spianare la strada alle tendenze separatiste dei vari stati. Di fronte all’indebolirsi della sovranità statale (spesso ridicolizzata come “sovranismo” una delle idee più stupide degli ultimi due secoli), si profila una sorta di “sovranismo dei piccoli”, il cui scopo vero è quello di entrare nel sistema di contrattazione mondiale come soggetti non mediati o, almeno, illudersi che ciò possa essere.

Ora accade che lo spettro magnetico degli interessi territoriali, affievolitosi il magnetismo dello stato nazionale, si stia riorganizzandosi: la Catalogna pensa ad un sistema autocentrato con una irradiazione rivierasca, la Scozia ad un analogo ruolo nel mare del nord, il Veneto pensa realisticamente ad un rilancio dell’Alpe Adria intesa come soggetto contrattuale plurilingue, puro patto economico culturalmente eterogeneo. E’ sintomatico che nessuno dei tre pensi di uscire dalla Ue: quasi che il magnete si sia spostato dalle rispettive capitali nazionali a Strasburgo o forse a Francoforte. Così come è sintomatico il relativo fallimento del referendum lombardo: il Veneto pensa ad una espansione delle sue esportazioni verso il centro Europa, ed ha limitati interessi al rapporto con le regioni centro meridionali (salvo, forse, la Romagna).

Al contrario la Lombardia è legata al resto d’Italia da una fitta serie di legami: il blocco bancario la lega tanto al San Paolo di Torino, quanto alla Banca di Roma, è regione importatrice di capitali dal resto del paese, una buona parte dei suoi prodotti finisce sul mercato interno, il porto di Genova è il naturale sbocco verso i mercati d’oltre mare, eccetera. Infatti Milano è stata la più fredda nella partecipazione referendaria con il suo 21% e non ha mai superato la media regionale nelle altre città capoluogo, mentre la partecipazione è stata massima nella provincia ed in particolare il quella alpina, più facile preda del fascino dell’Alpe Adria.

Ed è a partire da questo che occorre ridisegnare la mappa degli interessi nazionali per reagire a questa spinta e la partita fiscale sarà al centro del dibattito. Soprattutto, occorrerà mediare con le spinte reattive che vengono dal sud e non sarà cosa semplice.
E questo ha molto a che fare con quel che accade nei partiti. Iniziamo col dire che quelli che corrono rischi interni più pesanti sono proprio i “vincitori”: Lega e M5s.

Nella Lega questo risultato avvia il tramonto di Salvini: il suo disegno lepenista è stato sconfitto proprio per il tracollo della Le Pen, mentre risorge il modello del sindacato territoriale, proprio in sintonia con i fatti catalani. E, il ritorno alla vocazione settentrionalista trova due possibili leader in Maroni e, soprattutto, Zaja che possono contare sin da questo momento, sull’appoggio di Bossi. Questo significa anche la rinuncia a competere con Berlusconi per la leadership del centro destra, anche se poi non è detto che si torni ai tempi felici dell’asse B-B. Ma questa rinuncia alla leadership italiana non potrà che essere contrappesata da una ripresa delle spinte secessioniste o quantomeno fortemente autonomiste.

Quanto al M5s, è evidente che il cuore della sua base veneta e, in parte, lombarda, batte per l’autonomismo leghista (ed il Veneto è con Sicilia, Lazio, Sardegna, Piemonte è uno dei suoi punti di forza elettorale), ma come reagirà la sua base meridionale. Certo anche nel sud emergono le spinte separatiste del neo borbonici, ma si tratta di un separatismo reattivo ed anti “nordista”, e, peraltro, anche il Piemonte non ha mai manifestato pruriti separatisti ed è sempre stato il punto debole della Lega a nord del Po.

Mentre questa posizione attuale del M5s odora troppo di leghismo per piacere a meridionali, romani e piemontesi. Insomma, se dovesse aprirsi la partita “super autonomistica” il M5s si troverebbe con una linea nordista, con un leader che più meridionale non si può, alla testa di un partito con basi elettorali territoriali divaricanti: bella situazione.

Quanto al Pd, non ci vuole molto a capire che anche questa tegola ne affretta il declino, anche se quel furbastro di Renzi ha subito giocato la carta del calo della pressione fiscale.




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