sabato 21 ottobre 2017 - Rocco Di Rella

Referendum “autonomistici” e futuro del regionalismo

Le radici del leghismo sono in Veneto e in Lombardia. In Veneto tanti non hanno ancora elaborato il lutto per la fine della Repubblica veneziana, mentre, tra il Garda e il Ticino (soprattutto a nord di Milano), c’è un discreto numero d’interessati ammiratori del modello federale svizzero, ossia del refugium evasorum in cui vorrebbero trasformare la Lombardia.

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Queste sono le origini del leghismo: venetisti nostalgici e svizzerofili interessati.

Il successo elettorale del leghismo è figlio delle ruberie scientificamente organizzate da una parte della classe politica campana dopo il terremoto del 1980. Furono quei furti di denaro pubblico a scatenare una crescente indignazione verso il ceto politico che la Lega capitalizzò elettoralmente all’inizio degli anni novanta. Per dirla con le parole di Antonio Bassolino: “La Lega dovrebbe erigere monumenti in onore di Gava, Pomicino, De Lorenzo e Di Donato. Senza di loro, non avrebbe mai avuto i voti che ha preso”. Difficile dissentire dalle sue parole di verità.

Aiuta a capire il fenomeno leghista anche il personale ricordo di un surreale dibattito andato in onda nel corso di una delle prime puntate di “Milano, Italia” di Gad Lerner, durante il quale leghisti veneti e lombardi concordavano sul fatto che lo scheo e la lega dovessero diventare le nuove monete in Veneto e in Lombardia.

Il vuoto politico creato dalle inchieste giudiziarie su Tangentopoli trasformò un movimento secessionista come la Lega in un protagonista assoluto della politica nazionale. E’ utile, infatti, chiarire che i leghisti hanno sempre usato a sproposito la parola “federalista” e solo per mascherare maldestramente il loro obiettivo di distruggere l’Unità d’Italia. Al loro ingresso nel Parlamento, erano per la divisione dell’Italia in tre repubbliche. Poi le repubbliche in cui dividere l’Italia sono diventate due, una delle quali avrebbe dovuto chiamarsi Padania. All’altra non hanno mai dato ufficialmente un nome, ma era sottinteso che Terronia fosse quello più gradito.

E’ anche il caso di rammentare che, nel 1996, i leghisti dichiararono l’indipendenza della cosiddetta Padania, il cui confine meridionale resta ancora oggi indefinito.

Una prima risposta politica alle trovate leghiste arrivò con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, approvata dal centrosinistra e ratificata dal referendum popolare del 7 ottobre 2001. Quella riforma, non impeccabile da molti punti di vista, attribuì più competenze alle Regioni e costrinse la Lega ad alzare l’asticella delle sue rivendicazioni nella legislatura 2001-06, in cui si fece promotrice di un’altra riforma costituzionale, quella sulla “devolution”, sonoramente bocciata dagli italiani, con una valanga di NO (il 61,3%), il 25 e il 26 giugno 2006.

La pesante sconfitta referendaria del giugno 2006 sembrava aver sepolto le velleità secessionistiche della Lega. Il definitivo cambio di rotta sembra volerlo dare l’attuale segretario della Lega, non casualmente milanese, che vuole nazionalizzare il suo partito, perché gli immigrati extra-comunitari rendono elettoralmente molto di più dei meridionali. L’italianizzazione della Lega, però, è un processo solo avviato, contro cui sono ancora molto forti le resistenze interne. La sua conclusione sarà eventualmente suggellata dal cambio di nome del partito, la cui denominazione ufficiale è ancora oggi Lega Nord per l’Indipendenza della Padania.

Per ora, coerentemente con l’attuale denominazione del partito, dobbiamo fare i conti con i due referendum indetti in Veneto e Lombardia, in cui si voterà domenica 22 ottobre.

Volendo dedurre le intenzioni sottostanti ai quesiti referendari, si può immediatamente constatare la loro sospetta genericità. I quesiti, infatti, non indicano le materie su cui chiedere le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” attribuibili alle Regioni in base al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Basta poi informarsi un po’ per scoprire che l’originaria versione, bocciata dalla Corte costituzionale, del quesito referendario veneto era: “Vuoi che il Veneto diventi una Regione indipendente e sovrana?”. Si viene anche a conoscenza del fatto che il referendum veneto si terrà deliberatamente il 22 ottobre, data in cui, nel lontano 1866, si tenne il plebiscito di annessione del Veneto al Regno d’Italia. Infine, si scopre che la Regione Emilia-Romagna ha anch’essa chiesto le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” attribuibili ex art. 116 della Costituzione, specificando le materie su cui vuole essere più autonoma, e le ha chieste, in maniera leale e collaborativa, con una semplice delibera del Consiglio regionale.

Bastano questi quattro indizi a provare il carattere anti-italiano e anti-nazionale delle due consultazioni referendarie.

Zaia e Maroni, per dirla con le parole del Re di Spagna, hanno dato prova di una slealtà inaccettabile convocando due inutili, costosi e pericolosi referendum per ottenere dei plebisciti contro la Repubblica italiana.

L’unico “argomento” della loro propaganda è la riduzione del residuo fiscale dei contribuenti veneti e lombardi che deriverebbe dalla maggiore autonomia regionale. Il residuo fiscale vorrebbe essere una quantificazione territorializzata del saldo tra tasse pagate e spesa pubblica sostenuta. La determinazione del residuo fiscale è fonte di aspre polemiche tra gli economisti che provano a calcolarlo. Dai loro calcoli vengono poi tenute fuori due grandezze molto importanti: gli interessi pagati sul debito pubblico e il risparmio privato trasferito dal sistema bancario. Per farla breve: il residuo fiscale non considera né gli interessi sul debito pubblico prevalentemente pagati dallo Stato italiano ai cittadini del Nord, né il risparmio privato che le banche trasferiscono dal Sud al Nord. Se si fanno bene tutti i calcoli, si scopre che forse le uniche due regioni italiane veramente assistite sono la Sicilia e la Calabria. La lodevole intenzione di ridurre l'assistenzialismo, quindi, può essere più efficacemente perseguita abolendo l’autonomia concessa alla Sicilia, anziché darla ad altre Regioni.

Quasi inesistenti sarebbero i benefici fiscali che deriverebbero dall’ottenimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Gli stessi promotori dei referendum, loquacissimi a sparare numeri e cifre sul mitico residuo fiscale, non si sognano nemmeno di fare una previsione sull’entità della riduzione di tasse di cui potremmo beneficiare. Il loro silenzio prova nella maniera più evidente che i due referendum “autonomisti” non miglioreranno affatto le condizioni di vita dei cittadini, ma serviranno solo a rafforzare potentati e consorterie autoctoni.

Il malcelato intento secessionista e l’irrilevanza degli effetti fiscali suggeriscono di far fallire le consultazioni referendarie. In Veneto è previsto il quorum di affluenza e basta non andare a votare per provare ad invalidare il referendum. In Lombardia, il furbo Maroni non ha stabilito un quorum di affluenza, ma non potrà ignorare l’eventualità di un numero di Sì inferiore al numero di voti da lui ottenuti alle elezioni regionali del 2013. Gli strumenti a disposizione degli elettori lombardi che non vogliono abboccare sono quindi due: astenersi o votare No. Chi scrive si asterrà, perché non vuole minimamente legittimare né i promotori, né le finalità, né le modalità del referendum.

C’è un motivo più grande e più importante che induce a battersi per il fallimento delle due consultazioni: avviare un serio dibattito sul regionalismo italiano.

Le funzioni e i compiti delle Regioni sono oggi estremamente confusi e contraddittori: pianificano e programmano, emanano atti amministrativi e gestiscono aziende. La confusa identità delle Regioni fa venire voglia di riconoscere a Giorgio Almirante lo storico merito di essersi battuto come un leone contro la loro istituzione. Originariamente, nel 1947, le Regioni erano state concepite come enti di pianificazione e programmazione. Sono però state istituite nel 1970 per dare delle mance di sottogoverno nell’Italia centrale alla sempre perdente opposizione del PCI. Ecco perché le Regioni gestiscono la Sanità: perché i comunisti potessero essere consociati nella gestione della Cosa pubblica. Il pagamento di queste mance ha paradossalmente prodotto la federalizzazione di ciò che non dovrebbe essere federalizzato: il Diritto alla Salute.

Dopo essere servito alle esigenze di sottogoverno del PCI, il regionalismo è diventato il cavallo di Troia della Lega per scardinare lo Stato italiano. Sarebbe il caso, una volta per tutte, di attuare le intenzioni dei Costituenti. Il fallimento delle consultazioni referendarie del 22 ottobre può quindi servire a sgombrare il campo da un’inaccettabile concezione anti-nazionale del regionalismo e a dare forza a coloro che vogliono veramente riformarlo. Le proposte più intelligenti in materia le ha fatte l’ex governatore della Campania, Stefano Caldoro di Forza Italia. Caldoro ha detto chiaramente che il numero delle Regioni va ridotto drasticamente (non dovrebbero essere più di dieci) e che va loro vietata sia l’emanazione di atti amministrativi, sia la gestione di enti e aziende. Meno Regioni, più grandi e concentrate sulla pianificazione e programmazione dei fabbisogni locali: questo dovrebbe essere il futuro del regionalismo. A questa concezione del regionalismo dovrebbe affiancarsi una chiara tripartizione dei ruoli tra Stato, Regioni e Comuni. Lo Stato dovrebbe fare le leggi, le Regioni dovrebbero fare i piani e i programmi, e i Comuni dovrebbero fare gli atti amministrativi. Ancora più sinteticamente: legislazione statale, programmazione regionale e amministrazione comunale. Una simile tripartizione dei ruoli non solo farebbe chiarezza, ma rafforzerebbe anche l’autogoverno delle comunità municipali, che, singolarmente o associate, potrebbero essere incaricate di svolgere nuove funzioni e gestire nuovi servizi. Del resto, la stessa Tradizione Italiana di autonomia e di autogoverno si è manifestata nell’ambito dei Comuni, non certo a livello regionale.

Se le Regioni devono essere enti di programmazione, meritano allora un plauso e un encomio quei governatori regionali che si sono distinti come pianificatori e programmatori. Mi riferisco in particolare a Nichi Vendola, Enrico Rossi e Sergio Chiamparino, ossia ai presidenti delle tre Regioni che hanno sinora dato attuazione al Codice dei Beni Culturali del 2004, approvando i Piani Paesaggistici Regionali. Puglia, Toscana e Piemonte hanno portato a termine il più grande e capillare compito di pianificazione mai assegnato alle Regioni. A distanza di 13 anni dalla promulgazione del Codice dei Beni Culturali, le altre diciassette Regioni (Veneto e Lombardia comprese) continuano a non attuarlo, non approvando i Piani Paesaggistici. Le giunte e i consigli che li hanno approvati sono ottimi esempi di governo regionale, e danno concretamente l’idea di ciò che le Regioni dovrebbero essere e fare. Non altrettanto si può dire di quei governatori regionali che si dilettano a convocare astiosi, pericolosi, inutili e costosi plebisciti contro la Repubblica italiana.




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