venerdì 21 ottobre 2022 - UAAR - A ragion veduta

Qatar. Mondiali amorali tra relativismo culturale e diritti negati

“Prima viene il mangiare, e poi viene la morale”. Così recitava uno dei personaggi di Brecht ne L’Opera da Tre Soldi, ed è quasi impossibile dargli torto: a pancia piena si ragiona effettivamente meglio e si devia l’attenzione su questioni etiche e morali. 

Quasi impossibile, appunto. A sbugiardare almeno in parte Brecht interviene infatti l’atteggiamento dell’Occidente, che quando si tratta di fare affari con le teocrazie islamiste dimentica la morale e passa ad ingozzarsi senza soluzione di continuità. Gli idrocarburi del golfo scaldano gli animi e inebriano le coscienze, con buona pace dei diritti umani, subito sacrificati sull’altare dell’appeasement, della realpolitik e del businessmaking. Poteva essere altrimenti per i mondiali del Qatar?

Il piccolo stato del golfo persico, arido, dal clima inospitale e grande poco più della metà del Lazio, rimase insignificante sino alla scoperta di enormi giacimenti di greggio negli anni ‘40. Poi fu il turno del gas naturale, presente in quantità tali da rendere l’emirato uno dei maggiori produttori del pianeta. Petrolio e gas sono stati il carburante di una crescita economica alla quale, tuttavia, non ha fatto seguito alcun avanzamento nei diritti umani. Forse è stata la natura rapidissima, se non vertiginosa, della crescita economica a determinare una tale sproporzione tra ricchezza e sviluppo umano. O, più probabilmente, l’islamismo wahabita ha soffocato sul nascere qualsiasi tentativo di avanzamento nel campo dei diritti umani. Il boom economico è stato reso possibile in larga parte dall’impiego di lavoratori stagionali provenienti dal corno d’Africa, sottoposti a condizioni di sfruttamento che già in un report dell’UNHCR del 2008 venivano definite “schiavistiche” (slave-like). In 14 anni la situazione non è cambiata di una virgola se non che al menefreghismo mostrato dai governi occidentali si è aggiunto quello della FIFA, che, dato il suo sforzo nel contrastare al suo interno il sessismo e l’omotransfobia, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione di far svolgere la kermesse sportiva più vista al mondo in Qatar, noto per essere un faro dei diritti civili e della parità di genere.

L’emirato presenta infatti un codice legislativo tra i più omofobi del pianeta: l’omosessualità è punibile infatti con la reclusione fino a 7 anni, e in alcuni casi addirittura con la morte. Per qualche motivo, il fatto ha divertito molto il presidente della FIFA Sepp Blatter, il quale in un’intervista nel 2010 suggerì ridacchiando che le persone LGBTQ+ si “astenessero da ogni attività sessuale”. Forse sarebbe stato più logico (e più opportuno?) chiedere alle istituzioni del Qatar di “astenersi da ogni pregiudizio religioso”, ma Blatter ha preferito invece la via del multiculturalismo e del dialogo (sicuramente la migliore, con interlocutori così recettivi) dichiarando che il calcio non deve avere “confini”, e sottolineando l’importanza di essere “aperti a tutte le culture”. Viene però da chiedersi fino a che punto vada estesa quest’apertura. Essere ben disposti verso un regime teocratico che opprime sistematicamente la metà femminile della popolazione, rinchiude oppositori politici e perseguita le minoranze sessuali e religiose, più che apertura mentale, è totale noncuranza dei principi etici. Troppo spesso, inoltre, in ambienti “progressisti”, la presenza di un qualsiasi background culturale viene addotta come scusante per le tradizioni più brutali.

L’equivoco nasce dal fatto che nel termine cultura si vuole vedere una connotazione positiva innata: nulla di più falso, e se ne fa dedurre con pessima approssimazione che tutte le culture sono uguali. Questa interpretazione apre pericolosamente la strada al relativismo culturale, in apparenza uno strumento di emancipazione, nella realtà un’arma a doppio taglio che finisce per blindare il dibattito e soffocarlo sotto una pioggia di accuse di razzismo, suprematismo, o islamofobia. I fautori dell’innatismo culturale ignorano però (o forse fingono di ignorare) che le culture non sono dei blocchi granitici inamovibili ed immodificabili, anzi: molto spesso è necessario armarsi di scalpello e scalfirle. Sino a meno decenni fa di quanti siamo disposti ad ammettere, il delitto d’onore era parte della tradizione culturale italiana. Poi è intervenuto il femminismo della seconda ondata, che con una buona dose di picconate più che di scalpellate ha disintegrato una tradizione per nulla edificante. Le culture cambiano. Addurre la cultura come giustificazione per i peggiori usi e costumi è quanto di più reazionario possa esserci, e il mondo progressista farebbe bene a rifletterci.

Simone Morganti

 




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