venerdì 30 novembre 2018 - YouTrend

Primarie PD: due favoriti, tante incertezze

Il Partito Democratico si avvicina al Congresso tra molti dubbi e una certezza: Nicola Zingaretti è il favorito, ma chiunque uscirà vincitore, avrà davanti a sé l’ultima occasione per rilanciare il partito. Vediamo la situazione.

di Matteo Senatore

Reduce dalla peggiore sconfitta elettorale della sua storia, con appena il 18,7% dei voti conquistati alle Politiche del 4 marzo 2018, il Partito Democratico sta aprendo la contesa per eleggere il nuovo segretario. Le primarie del partito si terranno, curiosamente, ad un anno esatto di distanza da quel risultato, il 3 marzo 2019, e saranno particolarmente rilevanti. Il vincitore infatti sarà chiamato subito ad una prova significativa, dovendo guidare il partito alle elezioni europee del 26 maggio 2019.

Nelle ultime settimane sono state sciolte le riserve sulle varie candidature: la poltrona sarà contesa tra sei candidati. In rigoroso ordine di presentazione delle candidature: Nicola Zingaretti, attuale presidente (riconfermato per un secondo mandato proprio a marzo 2018) della Regione Lazio; l’ex ministro del lavoro nel secondo governo Prodi, Cesare Damiano; il deputato Francesco Boccia; il capo ufficio stampa e responsabile comunicazione dei Giovani Democratici Dario Corallo; Marco Minniti, ex ministro dell’Interno nel governo Gentiloni; Maurizio Martina, segretario uscente dopo essere stato reggente a seguito delle dimissioni dalla carica di Matteo Renzi e l’outsider Maria Saladino, unica candidata donna. Fino a pochi giorni fa era candidato anche il senatore Matteo Richetti, che ha poi ritirato la propria candidatura per appoggiare Martina.

Secondo lo statuto del PD tutti i candidati affronteranno una prima fase riservata ai soli iscritti del partito, che si riuniscono in convenzioni nei circoli locali. I tre candidati che ottengono il maggior numero di voti, purché superiori al 5%, e in ogni caso tutti candidati che ottengano almeno il 15% dei voti in questa prima fase, sono poi ammessi alla seconda fase, costituita dalle primarie nazionali, con cui si eleggeranno anche i membri dell’Assemblea nazionale del partito. In questa seconda fase il vincitore deve ottenere il 50% più uno dei voti; viceversa il segretario sarà eletto tra i due candidati più votati dai componenti dell’Assemblea nazionale in un ballottaggio a scrutinio segreto. Quest’ultima è ovviamente l’opzione che tutti vorrebbero evitare, perché il rischio sarebbe quello di delegittimare il voto popolare.

Attualmente i sondaggi che sono stati pubblicati mostrano come ci siano tre favoriti che sembrano aver scavato un solco significativo sugli avversari e che quindi dovrebbero essere quelli che con più probabilità arriveranno a sfidarsi a livello nazionale: si tratta di Nicola Zingaretti, Marco Minniti e Maurizio Martina.

Nicola Zingaretti

Tra i tre che partono in ‘prima fila’ Zingaretti è stato il primo ad ufficializzare la sua candidatura, il 7 luglio 2018. Una figura che sembra puntare più a sinistra rispetto alla segreteria Renzi. La sua giunta nel Lazio è sostenuta anche da Liberi e Uguali e lui ha buoni rapporti con diversi tra i fuoriusciti dal partito. Il sostegno gli arriva dall’area degli sconfitti delle ultime primarie, in particolare Andrea Orlando, ma anche dai centristi guidati da Dario Franceschini. Zingaretti inoltre ha l’appoggio, particolarmente rilevante, dell’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Si tratta, al momento, del principale favorito: in quasi tutti i sondaggi è dato in vantaggio, anche se con un margine variabile rispetto ai suoi rivali.

Marco Minniti

L’ex Ministro dell’Interno è il candidato che viene percepito come più in continuità con l’operato dei governi a guida PD. Sotto il governo Gentiloni è diventato il ministro più popolare, grazie soprattutto alla sua politica di linea dura contro l’immigrazione. Alle elezioni politiche del 4 marzo però, candidato nel collegio uninominale di Pesaro, è giunto soltanto terzo, sopravanzato anche da un candidato “fantasma” del Movimento 5 Stelle (espulso dal M5S prima del voto). Minniti si sta in ogni caso ponendo come lo sfidante principale di Zingaretti e sembra interessato a puntare al bacino di quegli elettori rimasti ‘orfani’ di Renzi dopo le ultime sconfitte e che non vedono di buon occhio uno spostamento del partito a sinistra.

Il suo livello di fiducia è discreto, se comparato con quello delle altre figure del centrosinistra: secondo i dati Ixè infatti a settembre la fiducia in Minniti era del 27%: superiore di 9 punti a quella attribuita a Matteo Renzi e di 6 punti rispetto a quella verso Martina. Meglio di lui solo Gentiloni al 37% e Zingaretti al 30%. Il duello Zingaretti-Minniti si delinea anche nell’analisi sul gradimento: secondo un sondaggio Demos di ottobre il governatore del Lazio è al 40%, con una crescita di ben 7 punti rispetto a settembre, mentre Minniti lo tallona da vicino, al 38%. Si tratta tuttavia di valori sempre molto lontani da quelli su cui si attestano gli esponenti del governo, in particolare Salvini (60%) e il premier Conte, secondo al 59%. Molto staccato in questa classifica è Maurizio Martina, il cui gradimento è fermo al 31%.

Maurizio Martina

Il reggente uscente, come Zingaretti, punta a presentarsi come un candidato più a sinistra, ma la sua alleanza con Renzi (di cui era vice-segretario) si è interrotta di fatto solo dopo il voto del 4 marzo. Alle primarie del 2017 era in ticket con l’ex premier e la sua candidatura è comunque sostenuta da diversi esponenti di quell’area, come l’ex ministro Graziano Delrio e l’ex consigliere economico Tommaso Nannicini, oltre che dal presidente del partito Matteo Orfini. Anni prima Martina era però stato un sostenitore di Pierluigi Bersani, e successivamente di Gianni Cuperlo, quando questi perse le primarie per la segreteria nel 2013, proprio contro Renzi. Un sondaggio di Euromedia datato 8 novembre lo mostra come il più conosciuto tra gli sfidanti delle primarie con un dato dell’86,3%, contro l’82,2% di Zingaretti e il 79% di Minniti. Anche in questo caso però il responso sulla fiducia, calcolato ovviamente su chi ha affermato di conoscerlo, lo penalizza: Martina infatti si attesta su un modesto 21,2%, addirittura inferiore ai risultati di Richetti e Boccia e ben lontano dal 38,1% di Zingaretti e dal 39,5% di Minniti, che in questo caso supera entrambi i principali contendenti.

Primarie, i sondaggi

Dal momento in cui è stata ufficializzata la candidatura di Martina, sono stato pubblicati diversi sondaggi. Rilevazioni che, come spiegato da Lorenzo Pregliasco, sono sempre da prendere con estrema cautela quando si tratta di elezioni primarie. Il 14 novembre Demopolis ha attestato all’attuale governatore del Lazio una forbice compresa tra il 33 ed il 39%, con Minniti circa tre punti indietro, tra il 30 ed il 36%. Il 21 novembre, invece, il giorno prima della “discesa in campo” ufficiale del reggente in carica, era stato pubblicato un sondaggio di EMG: secondo questi dati Zingaretti sarebbe stato il più votato, con il 38% dei consensi, ben 10 punti avanti rispetto a Minniti, fermo al 28%. Martina si sarebbe attestato al 15% con Matteo Richetti (poi ritiratosi) quarto con l’8%. In tutti i casi citati va comunque precisato nuovamente che i candidati che possono accedere alla fase nazionale saranno verosimilmente solo tre, per cui bisognerebbe valutare come si ripartirebbero le preferenze di chi sostiene i quattro candidati “minori”.

Affluenza, fattore decisivo

Secondo i sondaggi dunque, queste dovrebbero essere le primarie più equilibrate nella storia del partito. Non è mai capitato infatti che il segretario non venisse eletto direttamente al primo turno. L’unico caso simile si verificò primarie nazionali del 2012, quando però si competeva per la candidatura a premier e non per la segreteria del partito. Allora Bersani prevalse su Renzi al ballottaggio, che però in quel caso era previsto tra tutti gli elettori delle primarie e non, come in questa circostanza, ristretto all’Assemblea nazionale. Un altro dato molto importante in queste competizioni elettorali, che ne determina il successo e che può influenzare molto il risultato finale, è quello della partecipazione.

Negli anni il numero di elettori presenti ai “gazebo” del PD è andato costantemente calando: nel 2007 furono tre milioni e mezzo, scesi a tre nel 2009, due milioni e ottocentomila nel 2013, e appena un milione e ottocentomila nel 2017. L’attuale attenzione degli elettori democratici sul duello per la segreteria si dimostra comunque alta: secondo Demopolis infatti oltre l’80% dei suoi elettori si sta interessando alla questione (di cui il 40% “con attenzione”), ed è facile prevedere che queste percentuali saliranno con il passare delle settimane, come già accaduto in passato. Per il partito dunque, viste le recenti delusioni e i sondaggi che lo attestano al 17,1% (ultima Supermedia) sarebbe già un buon risultato riuscire ad invertire la tendenza sulla partecipazione alle consultazioni. Resta l’incognita su come questo possa influire sui risultati.




Lasciare un commento