giovedì 2 novembre 2017 - Sabina Greco

Povertà a Sapri: si piange miseria

Siedi ancora sulla panchina.
Dormi ancora fuori.
Trascini ancora cartoni.
Nulla è cambiato.
Sono mesi, oramai.
Nella vita di quell’altro sono addirittura anni che passa le notti sulla panchina o a terra in stazione, quando il freddo incalza.
Eppure qualcosa di diverso c’è: ora, almeno quei denari per pagarti un affitto di casa da queste parti ci sono. Ci sono anche gli appartamenti, grandi e piccoli, i più sono sfitti, non abitati, morti, in attesa di agosto, forse anche luglio, quando la stagione è buona. A quel punto s’imbottiscono di genti che vengono da fuori, dando vita a quella strana figura del turista-simil pollo, vista la ben nota spennatura, i prezzi salgono alle stelle. Gli altri mesi dell’anno – corre fine ottobre – non ne hanno bisogno, dei denari, stanno bene, non manca niente, possono evitare di prender gente ovvero, di prender denari. E così noi ci restiamo lì fuori, in strada, come prima. Eppure, si vede, siamo brava gente, siamo educati, siamo ordinati, siamo puliti – ci dicon tutti.
Preso atto, risulta ancor più strano quell’altro fatto, qui abitudine, in quel di Sapri, d’una pia gente: oltre ai tributi, vecchia storia, giammai dovuti, non pagano i conti, non pagano i dipendenti, detestano corrispondere, detestano onorare, detestano rispettare un prezzo dato e già impresso dalla mano di quell’uomo o da una legge di natura. Son capaci e senza ritegno, per la meraviglia di chi vien da fuori, di chiedere a quell’altro, or svogliato, uno sconto sul pantalone quando già il prezzo è meno di un caffè, da questi parti 0,70.
Per contro amano svisceratamente, più della moglie o del marito, più dei figli, più della nonna, tutto il giorno e incondizionatamente quell’altro aspetto d’un avaro, d’un ingordo, d’uno sparagnino, ch’è quello di piangere miseria. La centra in pieno già l’essenza pur Treccani, quando alla stessa voce recita quel “lamentarsi con ostentazione della povertà, spesso esagerandola intenzionalmente per muovere gli altri a pietà, o anche simulandola per avarizia.”
E' proprio lei, l’avarizia, a regnare sovrana nei cuori di coloro che, qui e per indole, sono soliti a non pagare.
Pretendono d’avere ora quel bene tale, vuoi perché serve o per sola smania, ma a pagarlo tornano domani… o domani l’altro… o a fine mese… o quando dicono che devono arrivar dei denari… che hanno speso già per altro. Una storia infinita che si ripete e riecheggia per i vicoli d’una cittadina, frustrando quel bottegaio che a fine lavoro si sa gabbato, senza incasso e senza il bene, quello stesso pure andato.
 
Pretendono di fare impresa e pertanto anche un lavoro per il quale servon cose, giustamente e mica una, che levano al fornitore campando la stessa storia, ti pago poi, ti pago dopo, quello stesso dopo che mai è.
Vivon fieri e s’ergon ville, si rinnovano le facciate, fuori e anche dentro, sulle spalle d’un inferiore (a loro vista), che a lavoro finito non si vede affatto corrisposto d’ogni spettanza sua arretrata. Non ci son denari, non ti posso dare, torna domani, forse hai fortuna, che sia pubblica o privata l’amministrazione pirata, che sia il singolo o la famiglia lo stesso aguzzino. É sempre lui, quel cuore avaro, che trattiene a suo piacere ciò che è già di quell’altro, sì tradendo una stessa vita che in essenza sempre nutre e pur fluisce, mai indugia.
Non è povero a chi scarseggia o pure manca, per davvero, già il soldo e non acquista, ma è povero chi s’appropria di ciò che è già dell’altro, per il solo gusto dell’attaccamento e del possesso, indistinto e morboso. Nulla ottiene, dacché è nata, nemmeno quella santa ammonizione che l’avarizia ordina peccato insieme agli altri suoi compagni. Poco convince tal ammonizione, come biasimare chi si beffa, se già colui che la sancisce è un ghiottone del possesso e dell’attaccamento. Pure lui se la vende bene, dalla notte d’un tempo ameno, quella storia d’un premio dopo cullando l’anima per razziare il bene.
Poco tange se già l’avaro è ad abitare il mondo intero. Per sondare ciò ch’è fuori è uopo vedere dentro, in quella casa detta propria, che per noi oggi par essere Sapri, seppur vissuta da una panchina in quel parco d’una stazione, ferroviaria, terra di passaggio.



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