sabato 7 maggio 2016 - Osvaldo Duilio Rossi

Politica, Petrolio, Potere - Pier Paolo Pasolini

Più passa il tempo, più i fatti confermano la profezia di Pier Paolo Pasolini. Un pensiero attraverso cui possiamo inquadrare gli avvenimenti-chiave di oggi, Aprile 2016. Il lettore scelga quali altri eventi storici osservare dalla stessa prospettiva – con lo stesso metodo – e provi a usarlo in futuro per confermare o smentire la lucidità del pensiero di Pasolini: dal terrorismo pianificato su scala globale all’ambiguità delle opposizioni politiche (potere nel potere); dalle intermediazioni del “mondo di mezzo” (scoperchiato con lo scandalo romano del 2015) alla collusione del mondo politico con quello mafioso…

Petrolio oggi come ieri

Il referendum trivelle del 17.04.2016 attira il 31% di votanti (di cui l’86% schierato per il “sì”), dimostrando il disinteresse della maggioranza degli Italiani per il tema petrolifero.

Un incidente occorso il giorno stesso a un oleodotto IPLOM sversa 50 tonnellate di greggio nel rio Fegino, affluente del torrente Polcevera che sbocca nel Mar Ligure.

Magistratura e quotidiani, intanto, svelano il caso Tempa Rossa e avviano un’inchiesta che indaga per accertare l’esistenza di un’associazione a delinquere costituita da dirigenti dell’Eni (come il vicepresidente Ivan Lo Bello, la responsabile Sicurezza e salute Roberta Angelini e il responsabile della produzione nel distretto meridionale Luca Bagatti), membri del Governo italiano (come il capo di Stato maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi e il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi), altri politici con incarichi vari (come il membro dell’assemblea del PD Paolo Quinto e il sindaco di Corleto Perticara Rosaria Vicino) e imprenditori rampanti (come Gianluca Gemelli, compagno della ministra Guidi, e Nicola Colicchi). Un sodalizio impegnato a sbloccare i vincoli gravanti sullo stabilimento petroliferio di Corleto Perticara (PZ) e a controllare il porto di Augusta (SR) per trasformarlo in un polo di stoccaggio di petrolio.

Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, dichiara il 22.04.2016, per altre faccende, formalmente indipendenti dal caso petrolifero:

I politici non hanno mai smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo “con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”, ma non sono soldi loro, sono dei contribuenti.

Dichiarazione presto ridimensionata («Non ho mai pensato che tutti i politici rubino»), ma che viene seguita da un’altra, forse più allarmante, del procuratore antimafia Franco Roberti: Non sono più i mafiosi a cercare i politici, ma i politici a cercare i mafiosi. […] Oggi la vera svolta è il salto della mediazione: le mafie mandano in Parlamento e nelle istituzioni i loro uomini.

Raffaele Cantone, il capo dell’Autorità nazionale anticorruzione, conferma che un’area grigia della politica «non vede l’ora di essere avvicinata [dalle mafie] per fare soldi», mentre Giuseppe Pignatone, il procuratore capo di Roma, informa che «oggi quasi in ogni operazione antimafia troviamo un amministratore locale coinvolto».

Le dichiarazioni fanno eco allo scandalo petrolifero e, benché indipendenti da esso, consentono di inquadrarlo in un sistema di malgoverno libertino e sfacciato (anche «perché è venuto meno il controllo sociale», ritiene Pignatone, cit.) che sembra uscito dall’universo di Sade: sesso e potere (con relazioni affettive che influiscono sulla legislazione), politica e denaro (con interessi privati tutelati da scelte pubbliche faziose) dimostrano un’interdipendenza tenace, che resiste a qualsiasi mutazione politica. I favoritismi e le manovre di governo, gli emendamenti personalizzati e le cointeressenze, la difesa delle posizioni personali spacciata per tutela delle cariche pubbliche, la capitale che orchestra il malaffare nelle provincie del sud… crimini e (mis)fatti che rievocano Petrolio, il libro incompiuto di Pasolini (1992/2015) che inquadra tutto il pensiero dell’intellettuale in un orizzonte di senso, allora, proiettato verso il futuro e, oggi, quasi didascalico nell’analisi di un’Italia che vive sempre meno di rapporti sociali e comunitari, ma sempre più di rapporti societari e associativi, mafiosi, basati sul profitto personale, anziché sull’“antica” solidarietà sociale. Il quadro rappresenta un’Italia governata (oggi come ieri) da personaggi che confondono i propri interessi privati (traendo profitti personali) con quelli pubblici (addebitando costi e rischi alla collettività) e che manipolano le leggi per trarne profitto o per lasciare impuniti o insabbiare i crimini commessi dalla bassa manovalanza su loro mandato; faccendieri e sicari che dipendono economicamente dai potenti perché sbrigano gli affari sporchi, ma che, proprio per questo, possono tenere in pugno i potenti col ricatto (Pasolini 1992/2015: app. 65 bis).

[S]i sono costituite le condizioni culturali e ambientali perché si possa ostentare il Potere anche come affare palese e segreto criminale senza più destare scandalo alcuno. Anzi, come appaia legittimo da parte dei potenti inquisiti muovere guerra contro la magistratura e fare e disfare leggi costituzionali e ordinarie per garantirsi l’impunità perenne (D’Elia 2005: 50-51).

La maggioranza del mondo politico, infatti, ha rimproverato Davigo per aver alzato la voce e per aver creato lacerazioni pericolose per la coesione dello Stato; ma «pericolose per chi?» chiede Vannucci (2016):

Per i cittadini, o per chi nella classe dirigente è riuscito negli ultimi decenni a disinnescare con intese opache, accordi sottobanco, scambi di favori, o magari con leggiad personam e provvedimenti ad hoc i meccanismi di bilanciamento e di controllo istituzionale formalmente assicurati dallo Stato di diritto?

Ideali traditi e ideologia traditrice

La domanda (retorica) di Vannucci (2016 cit.) sembra puntare il dito tanto sulla “casta” quanto sui “sudditi” che la legittimano, tollerandola o addirittura cercando di partecipare ad essa. Una posizione ambivalente, nei confronti di vittime e carnefici, tipica di Pasolini, che scriveva: «vi hanno insegnato come il servo può essere felice odiando chi è, come lui, legato, come può essere, tacendo, beato, e sicuro, facendo ciò che non dice» (1964: 4).

La legittimazione del malaffare (per omertà indiretta o compartecipazione diretta) da parte delle persone che subiscono il Potere – modello appreso e replicato in ogni strato della società (Pasolini 1975 e 1992/2015: app. 71-73) – sposta continuamente il confine tra vittima e carnefice. Lo sposta talmente tanto spesso e tanto rapidamente da farlo sparire in una relazione (perversa) che farebbe impallidire i libertini di Sade (citati diffusamente da Pasolini). La prepotenza dei sadisti, infatti, esprimeva un significato ideologico nella cornice di una società costituita in massima parte da vittime convinte dei valori, invece, irrisi e calpestati dai carnefici. Gli Italiani di oggi, però, sulla scia di modelli balordi, rinnegano l’identità reciproca (anche dei più prossimi) e, così facendo, destituiscono chiunque (anche i libertini stessi) di qualsiasi peso. Peso attribuito, invece, solo al denaro. Idea che Pasolini aveva già espresso in merito al sottoproletariato del boom, imborghesitosi poi con l’avvicendarsi delle generazioni; le ultime delle quali hanno raggiunto il potere (tramite intrighi e misfatti), conservando però l’ideologia originale, che consiste tutt’ora in una dissociazione mentale:

di qua sono io, povero, che conosco il vero mondo, il mondo dei malandrini, dei dritti, della malavita […]; di là sei tu, ricco, poveretto, che del mondo non sai nulla, che sei un farlocco, buono per essere derubato, se capita. Accetto il dato di fatto che tu sia il mio padrone, ma come padrone ti ignoro, se vuoi ti considero un re e ti servo, ma in realtà tu non esisti (Pasolini 1973b).

Sembra di leggere il profilo psicologico di Gemelli, che intrattiene una relazione con la ministra Guidi per sfruttarne il ruolo politico e amministrativo, per ottenere favori, per comportarsi con lei «come un sultano», per prendere ciò che lei può dargli di buono e poi trattarla «come una sguattera del Guatemala» (Longo & Grignetti 2016).

L’ideologia identificata da Pasolini (1973b cit.) funziona oggi al contrario e ribalta i ruoli: chi dovrebbe servire lo Stato (i politici), da una parte, depreda chi dovrebbe ricevere un servizio (i cittadini), dall’altra parte, pur col diritto di ignorarne i meccanismi amministrativi (cittadini perciò “farlocchi”). L’inversione dei ruoli dipende dal fatto che i “malandrini” e i “dritti” hanno raggiunto il potere e lo amministrano con i soli metodi (delinquenziali) che conoscono, con lo stesso identico scopo che il sottoproletariato, invece, dovrebbe rifiutare: rapinare il popolo sovrano per trarre benefici individuali, anziché riequilibrare la distribuzione asimmetrica della ricchezza e abolire i privilegi. Le disuguaglianze quindi crescono – quelle economiche come quelle culturali – con la conseguenza di istituire e legittimare governi scriteriati e incapaci, ma già preconizzati cinquant’anni fa:

Facciano scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sarà lo stesso: una guerra in cui l’uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre (Pasolini 1963).

Profezia della violenza

Pasolini riconosceva una società di persone perdute in se stesse, incapaci di relazionarsi umanamente, «strane macchine che sbattono l’una con l’altra» (Colombo 1975); capaci, anzi, di vedere solo i propri bisogni e gli strumenti appena disponibili per soddisfarli: «Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione e una manovra di borsa, uso quella. Altrimenti una spranga» (Ibid.). Persone edoniste e consumiste mosse dai

valori del superfluo, cosa che rendeva superflue, e dunque disperate, le vite […] dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in saccoccia (Pasolini 1992/2015: app. 126).

Gente sperduta nelle borgate, la cui architettura «condanna chi le abita alla contemplazione dell’inferno» (Pasolini 1963); quindi l’urgenza di escogitare qualsiasi espediente, anche colludere (dal basso) col Potere responsabile (dall’alto) di quell’inferno stesso.

Pasolini criticava la società intera: la borghesia e le caste, i proletari e i sottoproletari. La società quindi ha reagito di conseguenza. Qualcuno ha linciato Pasolini e il resto della popolazione ha fatto “passare in cavalleria” il mistero che ancora avvolge l’omicidio del 02.11.1975; lo hanno fatto secondo la logica mafiosa dell’omertà, per servire il Potere di cui raccolgono le briciole, ma che consente loro di condurre una vita «imperialista» (Canfora 2002). L’omicidio, qualificato ufficialmente come “omosessuale” (D’Elia 2005: 41), ha inoltre consentito di screditare la voce di Pasolini: così Giulio Andreotti (intervistato da Ivo Bernabò Micheli nell’Aprile del 1989) riteneva che il poeta «andava cercandosi dei guai». Linciaggio e tabù che, però, generano il mito, come insegnano antropologia ed etnografia. Un mito che, come quelli primitivi e classici, riposa su eventi reali e che proietta la sua ombra sul presente e sul futuro, come una profezia inaudita (del resto, nemo profeta in patria) o, al contrario, una conferma che nulla cambi mai nella sostanza.

Pasolini, d’altra parte, faceva riferimento anche alla gente dispersa dalle guerre; profughi e naufraghi come Alì dagli occhi azzurri che, insieme a migliaia di uomini, «scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi […] varate nei Regni della Fame» (Pasolini 1964: 97); i fuggiaschi che oggi affollano le isole greche e siciliane, tra cui si confondono anche i terroristi islamici impegnati a straziare «il mondo degli uomini bennati» con una rivoluzione che il poeta – “incapace di far male a una mosca” per sua ammissione – preconizzava sanguinosa affinché salvasse il mondo «dai suoi borghesi sogni destinati a farne un luogo sempre più irreale» (Id.: 46).

Troviamo quindi un altro riflesso della profezia pasoliniana: le stragi di Milano (1969), Brescia e Bologna (1974) proiettano l’ombra fino a New York (2001) e a Madrid (2004), a Londra (2005) e a Parigi (2015), a Bruxelles (2016) – tralasciando gli esempi innumerevoli nei territori mediorientali – per mano di un terrorismo globale che, nei suoi effetti paralizzanti sulle persone, somiglia molto alla “strategia della tensione” italiana e che lascia sospettare il progetto di mandanti ancora nascosti nell’ombra, benché forse già attivi sotto i riflettori delle ribalte internazionali.

Pasolini (1992/2015: app. 101) considerava che «una finta democrazia né più né meno buffonesca del fascismo […] (mafia, sottogoverno, intrallazzi, lotte di correnti)» alimentasse i carnefici italiani, talmente tanto sfacciati da poter crollare solo sotto i colpi della violenza, che lui rifiutava, ma che considerava anche l’unico strumento con cui liberare la nazione da quei debosciati che, per profitto personale, l’avevano (e l’hanno) lasciata correre verso lo sfacelo. Governanti che hanno determinato «la “fine della nazione” e la nascita di un potere neocapitalistico “multinazionale”» (Pasolini 1974a). Fine della nazione destinata a diventare, col passare del tempo, «Crisi cosmica (fine [del] petrolio, [dell’]acqua, [dell’]aria)» (Pasolini 1992/2015: 495): la fine del mondo dovuta alla «pericolosità della natura», gestibile, superata dalla «pericolosità dell’uomo» (Id.: app. 98a), ormai scatenata.

Uno contro tutti

Il pensiero di Pasolini, insomma, poteva infastidire tanto la destra quanto la sinistra, entrambe screditate in Petrolio, ma già prima (Pasolini 1964: 44-45):

Voi non contate, siete simboli di milioni di uomini: d’una società. Questa mi condanna, non voi, suoi automi. […] Uomini che condannano altri uomini in nome del nulla: perché le Istituzioni sono nulla, quando hanno perso ogni forza, la forza fanciulla delle Rivoluzioni – perché nulla è la Morale del buon senso, di una comunità passiva, senza più realtà.

Il poeta non salvava nessuno, tanto a destra quanto a sinistra; pensava, anzi, che «l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere» (Pasolini 1974b); prevedeva e auspicava perciò che un’invasione come quella islamica – Profezia e Petrolio abbondano di indicatori in tal senso – (s)travolgesse la società intera per detronizzare i potenti balordi, tollerati e quindi legittimati dalla società medesima.

E non è vero che detestavi la violenza. Col cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio che bruciava in te (Fallaci 1975a).

Il poeta, però, lasciava aperto uno spiraglio di speranza, che nessuno ha ancora avuto il coraggio di imboccare:

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me (Pasolini 1974b).

Nessuno ancora ha colto né sembra voler cogliere la proposta di Pasolini, nemmeno quei temerari – subito redarguiti dalla casta – come Davigo e Roberti, Cantone e Pignatone, che hanno denunciato pubblicamente il malaffare (lo fanno per mestiere, del resto), ma tacendo i nomi.

Pasolini (1974b), invece, voleva «fare i nomi dei responsabili» delle stragi e del malaffare, benché senza averne le prove: «potrei forse fare addirittura dei nomi senza paura di sbagliarmi» (Pasolini 1975/2001: 235). Trenta nomi comunque compaiono nell’appunto n. 97 di Petrolio («teste “mozzate” di Meduse» in grado ancora oggi di pietrificare il lettore) e altre dovrebbero comparire nei nn. 21 (Lampi sull’Eni) e 33 (senza titolo). Entrambi gli ultimi due appunti citati oggi risultano privi di testo, ma l’autore doveva averli scritti (o almeno abbozzati) perché altri appunti dell’opera rimandano direttamente ai loro contenuti (Pasolini 1992/2015: app. 22a): «non si può “rimandare” che a ciò che si è già scritto. Dunque, prova filologica ‘interna’ della mancanza di parti già composte» (D’Elia 2005: 16). Nomi, guarda caso, spariti. Sembrerebbe, anzi, che qualcuno abbia sottratto gli appunti trafugando le carte dallo studio del poeta (Id.: 12-13) proprio in concomitanza con l’omicidio; circostanza che destituirebbe di fondamento il movente “omosessuale” del delitto, come ha contribuito a ipotizzare Fallaci (1975c):

Supponiamo infatti ch’io sia un ragazzaccio senza nulla da perdere […] e che qualcuno mi voglia usare per tendere un agguato non a scopo di rapina ma per eliminare un uomo scomodo come Pasolini. Dietro di me […] alcuni magnaccia o alcuni tipi molto potenti che Pasolini ha disturbato e disturba. Alcuni tipi, diciamo, che vogliono farlo morire due volte, cioè fisicamente e moralmente: nella vergogna. Se mi chiamo Pelosi, servo bene allo scopo.

Le società dello spettacolo

La “forma” di un’opera contribuisce a qualificarne la sostanza, come una metafora rappresenta e soprattutto qualifica, con le sue caratteristiche, il contenuto mimetizzato nel contenitore. Pasolini, per la sua ultima opera in fieri, scelse la metafora del petrolio quasi per caso, ma ne rimase subito affascinato (1992/2015: 578), forse perché il petrolio rievoca le caratteristiche più controverse dell’Italia del boom (economico e bombarolo). Il petrolio, come anche la mafia, sporca tutto ciò che tocca, vi si invischia e non se ne stacca; dilaga a chiazze, è informe, ma anche multiforme, indefinito e mutevole come la “forma” assegnata al testo (Id.: app. 3c e 37), ma anche ai calligrammi della Nuova poesia in forma di rosa (Pasolini 1964: 148-151). Il petrolio è mellifluo e viscoso come l’omertà e il tradimento; alimenta i motori e fa andare avanti le cose, benché puzzi e inquini, come la corruzione e il nepotismo; veste il nero del fascismo, di cui rievoca il regime tramite le sue schiere di gerarchi e affaristi, ma prorompe dal lavoro degli operai, comunisti.

La metafora del petrolio restituisce una coscienza politica informe, fluida e interstiziale, adattabile a tutte le esigenze; ma anche informale pragmaticamente, benché formale apparentemente; anzi, conformista, nazionalpopolare, ma anche impegnata a uniformare le coscienze, a omologarle. Una politica che deforma l’informazione e quindi la costruzione intellettuale della realtà; che riforma le leggi per l’interesse personale di pochi; che trasforma i soldi in azioni, in sapere, in lavoro, in potere e viceversa.

Petrolio descrive il Potere come un dispositivo capace di orchestrare tutto ciò che riguarda la società, anche il pensiero degli intellettuali impegnati contro il Potere stesso. Autocritica con cui Pasolini ha dimostrato il coraggio di mettere a nudo la propria sconfitta culturale. Pasolini (1992/2015: app. 22f-30), infatti, descrive un salotto di artisti e intellettuali finanziato con i soldi dell’Eni e di altri enti. Rilevazione che configura l’industria culturale (dell’editoria, del cinema, ecc.), appunto, come un’industria, una delle tante branche del Potere. Una propaggine finalizzata fondamentalmente a riciclare il denaro. Gli artisti e gli intellettuali crederebbero di agire liberamente, ma verrebbero usati dall’industria culturale come strumenti atti a giustificare investimenti e movimenti di denaro. A nessuno (dei potenti) interessano le opere e i discorsi degli artisti, che possono produrre e pubblicare anche messaggi reazionari o “pericolosi” (ma pericolosi per chi?).

Il pubblico consuma volentieri le opere volgari e innocue, che acuiscono l’ignoranza della gente e alimentano il commercio; mentre solo una minoranza (politicamente) trascurabile – lo 0,01% della borghesia italiana, secondo Pasolini (1992/2015: app. 81) – comprende i discorsi critici degli intellettuali. The show must go on per alimentare i traffici e i mercati dell’arte, della letteratura, ecc.

Possiamo quindi ricostruire un “dispositivo” in cui la politica, la cultura e l’industria (i tre strumenti ai vertici del triangolo blu del diagramma) consentono di amministrare il sesso, il denaro e il potere (i tre “beni” adorati dalla società consumista). L’editoria e il giornalismo, la televisione e la “cultura” in genere sarebbero un’estrinsecazione, una propaggine o, meglio, uno strumento che sostiene il dispositivo in più modi: facendo circolare il denaro nei mercati del lavoro (che impiegano sceneggiatori, tecnici, redattori, ecc.), ma anche scambiando o tesaurizzando la ricchezza di mecenati e galleristi che convertono il denaro in opere d’arte e viceversa, attribuendo un “valore” monetario a quadri, sculture, ecc. (forme esclusive d’investimento e risparmio); consentendo al Potere di promuovere modelli linguistici, comportamentali e di costume, anche sessuali, tramite la pubblicità, i quotidiani e i programmi radiotelevisivi; mettendo la carne bella e fresca delle soubrette a disposizione dei serragli libertini (si pensi a chi bussava alla porta della villa di Arcore)… La “cultura”, inoltre, consentirebbe l’adesione al Potere (Pasolini 1992/2015: app. 59 e 67) secondo un paradigma ipocrita e subdolo perché lo sforzo intellettuale produrrebbe, tanto nei produttori quanto nei fruitori delle opere, un risultato contrario a quello intenzionale: la mercificazione in vece della grazia (Id.: app. 129c). La politica, dal suo canto, faciliterebbe il disbrigo delle altre operazioni.

Pasolini ha confessato in Petrolio la propria collusione involontaria col sistema e quindi l’impossibilità di smascherare il malaffare o di contribuire a sovvertirlo perché, operando direttamente nei processi produttivi della cultura – pubblicando articoli, libri e film –, egli subiva lo stesso trattamento riservato al protagonista del suo libro:

venne dunque automaticamente a far parte dell’intelligencija che ho chiamato illuminata; entrò trionfalmente nella minoranza-guida, nell’élite, che del potere ha una coscienza etica oltre che pragmatica; e che, proprio attraverso il suo atteggiamento critico verso di esso, lo preserva, mascherandone la violenza (Pasolini 1992/2015: app. 81).

Qualsiasi espressione culturale protagonista di un processo industriale o economico (editoriale, spettacolare, ludico, ecc.) partecipa al Potere (anche involontariamente, se in buona fede) e quindi lo esprime e lo alimenta o, nel migliore dei casi, ricostituisce realmente (producendo ricchezza, informazioni, ecc.) ciò che del Potere potrebbe aver distrutto intellettualmente (criticandolo, irridendolo, ecc.).

Il Potere maschera se stesso in maniera tanto subdola quanto palese: già Debord (1967 e 1988) metteva in guardia la società dalle operazioni di spettacolarizzazione – messa in scena e narrazione, proposizione e affabulazione – atte a mistificare e deformare la realtà per controllare le masse. Operazioni condotte principalmente e inizialmente tramite la televisione:

la sua mediazione finirà per essere tutto […]. [C]’è la nuova ferocia, che consiste nei nuovi strumenti del potere. Una ferocia così ambigua, ineffabile, abile da far sì che ben poco di buono resti in ciò che cade sotto la sua sfera […]: non considero niente più feroce dalla banalissima televisione. […] Tutto viene presentato come dentro un involucro protettore (Pasolini 1973a).

La televisione spettacolarizza e quindi “normalizza” tutto, anche «la più forte comunicazione di Cosa Nostra degli ultimi 20 anni» (Roberto Saviano in “Che tempo che fa” del 10.04.2016, Rai3), come quella fatta da Giuseppe Salvatore Riina nell’intervista con Bruno Vespa il 06.04.2016 su Rai1, che “pubblicizzava” anche un libro appena pubblicato sulla famiglia mafiosa.

Pasolini (1992/2015: app. 128c), analizzando un discorso del 1974 di Amintore Fanfani (allora presidente del Consiglio dei ministri), ha eseguito (quarant’anni prima di Saviano) la prima analisi linguistica della comunicazione politica in Italia. Egli rilevava allora, per l’appunto, come il linguaggio e la grammatica spettacolari usati dai politici possano “normalizzare” qualsiasi crimine. Normalizzazione mediatica (dall’alto) che comporta una normalizzazione cognitiva dei destinatari (verso il basso).

Pasolini criticava la logica del Potere, ma aveva anche maturato la consapevolezza di agire immancabilmente al suo interno, legittimandolo (poiché legittimato da esso) ogni volta che pubblicava un articolo, un libro o un film. Voleva, forse, liberarsi di questa collusione involontaria, confessando tutto, sabotando il dispositivo dall’interno, ma fu fermato prima di riuscirci; come capita sovente in Italia a chi potrebbe sapere qualcosa di troppo, come i marescialli Mario Alberto Dettori, Franco Parisi e Antonio Muzio, il tenente colonnello Sandro Marcucci, il generale Roberto Boemio e il maggiore Gian Paolo Totaro (tutti depositari di qualche informazione sulla strage di Ustica del 1980); Gianguerino Cafasso e Brenda (coinvolti nello “scandalo Marrazzo” del 2009); il colonnello Omar Pace (responsabile delle indagini sul caso “Scajola-Matacena-Rizzo” del 2014)…

Eredità testamentaria

Pasolini divenne un personaggio scomodo appena perse qualsiasi illusione circa il proprio ruolo intellettuale all’interno della “società dei consumi” che, appunto, può solo consumare le idee, anziché comprenderle. «La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi», scriveva Pasolini (1964: 128) già undici anni prima che il significato profondo delle sue parole si realizzasse nell’omicidio all’idroscalo di Ostia.

La necessità di scrivere un testamento nasce, di solito, dalla consapevolezza della morte che si avvicina. «Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso […] io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire» (Pasolini 1992/2015: app. 99). Petrolio è il testamento di Pasolini, «“summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie» (Re 1975); «contiene tutto quello che so, sarà la mia ultima opera» (Mondo 1975); un documento tramite cui consegnare ai posteri un’eredità intellettuale, un sapere, proprio come fa il moribondo – bastonato a morte da un gruppo di popolani! – descritto nell’appunto n. 103; un appunto che fa da “cerniera” al pensiero di Pasolini, legando Petrolio a Che cos’è questo golpe?:

Io sono un uomo che vive di rendita, e non esercito alcuna professione. Passo il tempo dedicandomi a ricerche culturali da dilettante. Ed è ciò che mi ha offerto, appunto casualmente, l’occasione di venire a sapere i “fatti” in questione. [… ] [H]o molto da perdere – essendo un uomo ricco – e niente da perdere – non essendo impegnato in nessun lavoro e in nessuna responsabilità. Di conseguenza – in quanto persona che ha molto da perdere – non farò i nomi né dei protagonisti di questi fatti né dei luoghi dove tali fatti si svolgono; in quanto invece persona che non ha niente da perdere, riferirò i fatti così come mi sono stati riferiti (Pasolini 1992/2015: app. 103).

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile (Pasolini 1974b).

La morte prematura – benché abbia impedito a Pasolini di svelare tutte le relazioni politiche e mafiose ricostruite dall’autore – comunque ha lasciato sopravvivere un’opera densa di indizi. L’omicidio, anzi, sembrerebbe accreditare l’autorevolezza di un testo che, in fin dei conti, riedita quanto già pubblicato negli Scritti Corsari (1975), con digressioni e stilizzazioni che girano intorno a quei contenuti stessi. Petrolio però lascia l’impressione che gli appunti “mancanti” (spariti, mai scritti, sottratti?) avrebbero potuto completare un pensiero più complesso di quello pubblicato: 522 pagine sopravvivono oggi alle oltre 2000 pianificate (Tagliarini 1975) e, anzi, sembrerebbero mancare proprio le porzioni “chiavi”, che Pasolini doveva aver scritto o abbozzato proprio perché cruciali. Testi che avrebbero potuto integrare e completare il discorso, come l’appunto n. 21, Lampi sull’Eni, che ricostruiva i legami tra l’ente, i suoi dirigenti e la politica; i nn. 33 e 34, entrambi senza titolo, ma frapposti al 32, Provocatori e spie (nel 1960), e al 34 bis, Prima fiaba sul Potere (dal Progetto); il n. 52b, Il Negro e il Roscio, allegoria della dualità politica, tra fascismo (nero) e comunismo (rosso), ma anche parafrasi del romanzo di Stendhal (Il rosso e il nero) e, forse, un riferimento esplicito al motociclista «Roscio» citato da Fallaci (1975b); il n. 100, L’Epochè, primo capitolo della metafora sul Potere debosciato; oltre altri appunti, come i nn. 13-16, 52a, 106 e 107…

Molte lacune deturpano il ritratto di Pasolini, a quarant’anni dalla sua morte. Ignoriamo ancora i nomi di tutti i suoi assassini e dei testimoni che avrebbero potuto identificarli; ignoriamo la dinamica reale del suo omicidio; ignoriamo il contenuto delle cartelle scomparse di Petrolio; ignoriamo i nomi che Pasolini avrebbe potuto affiancare alla responsabilità dei misfatti più gravi avvenuti in Italia; ma forse, più di tutto il resto, ignoriamo la sua grandezza intellettuale, preferendo invece ricordare dettagli morbosi della sua vita privata, isolandoli dal contesto in cui egli stesso li rappresentava (Pasolini 1992/2015: app. 55). Una sessualità disordinata che in Petrolio appare come l’espediente tramite cui iniziare il percorso di redenzione dalla scissione bipolare tipica della nostra società (Id.: app. 99), perché «la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza» (Fallaci 1975a); purché al peccato segua una confessione, come quella che Pasolini ha reso in Petrolio per dare l’esempio, ma anche per chiedere alla politica di fare altrettanto; cosicché alla confessione seguano il perdono e la redenzione; quindi una “verginità politica” nuova e credibile, anziché quella screditata e posticcia a cui abbiamo fatto l'abitudine da troppo tempo.

Bibliografia

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Massari G. (1973), “Il Mondo” 31.05.1973. Mondo L. (1975), “La Stampa” 10.01.1975.
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Pasolini P.P. (1974a), Un’antica intimità ci lega agli autori “di destra”, “Tempo” 18.10.1974.
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Pasolini P.P. (1975), Scritti Corsari, Milano, Garzanti.
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Re L. (1975), “Stampa Sera” 10.01.1975.
Tagliarini C. (1975), “Il Mondo” 26.12.1974.
Vannucci Alberto (2016), Se Davigo svela che il re (della corruzione) è nudo, “il Fatto Quotidiano” 24.04.2016.

(Foto: Tsuru1111/Flickr)




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