sabato 21 gennaio 2017 - Antonio Moscato

Plan Condor: una sentenza ipocrita

Gennaro Carotenuto ha scritto che “lascia un po' di amaro in bocca la sentenza per il processo per i cittadini italiani vittime del Piano Condor, l'internazionale del terrorismo di stato delle dittature latinoamericane addestrate e orchestrate da Henry Kissinger, pronunciata a Roma: nove ergastoli ma ben 19 assoluzioni, tra le quali Gavazzo e Troccoli e ben sei terroristi di stato, tra i quali Arellano Stark e Contreras, morti prima di una sentenza che giunge a 40 anni dai fatti. 

L'impianto accusatorio tiene, mettendo una volta di più, anche giudizialmente, nero su bianco il Condor, ma in particolare la gamba uruguayana del processo resta monca. Solo il civile Juan Carlos Blanco, il lugubre ministro degli esteri della dittatura, è stato condannato all'ergastolo mentre tredici militari, alcuni dei quali rei confessi di tortura e sparizione di persone, sono assolti. La giustizia penale ha i suoi contorti percorsi, che non finiscono oggi, già che si andrà in appello, ma la condanna del Cóndor va ben oltre i processi. E' ormai nella storia ed è nella coscienza dei popoli: Nunca Más, mai più, e per Omar Venturelli, Juan Montiglio e gli altri desaparecidos italiani oggi comunque giustizia è fatta”.

Ho apprezzato molte volte i commenti di Carotenuto, ma questa volta non mi convincono.

Non è solo una sentenza che “lascia un po’ d’amaro in bocca”, ma uno scherno deliberato agli ingenui familiari delle vittime del Piano Condor che hanno sostenuto forti spese legali, di viaggio, ecc., per ottenere in Italia quella sentenza che era impossibile in patria.

Neanche uno degli accusati reperibili è stato condannato, neppure l’uruguayano Jorge Néstor Troccoli, che risiede in Italia e che ha rivendicato più volte il suo passato di assassino e torturatore di Stato.

Mi pare indecente che a distanza di quaranta anni non si sia riusciti a concludere il processo con qualcosa di più di un riconoscimento platonico che quei crimini ci sono stati, ma con una sentenza che facesse pagare le loro colpe a militari e civili perfettamente identificati ma arrogantemente sicuri dell’impunità.

Il vicepresidente dell’Uruguay, Raúl Sendic che era presente alla sentenza insieme alla presidentessa dell’Istituzione Nazionale di Diritti Umani, l’ex magistrato Mirtha Guianze, si è dichiarato deluso dalla sentenza, ma da buon pentito (era stato un Tupamaro) ha commentato che “naturalmente speravamo in un diverso risultato, ci sentiamo defraudati dalla sentenza, ma rispettiamo la separazione dei poteri. Questa era una delle possibilità, l’avevamo prevista, sapevamo che poteva accadere.”

Il governo italiano era rappresentato al processo dalla sottosegretaria Elena Boschi, scelta forse non per la sua particolare competenza in fatto di diritti umani, ma perché, dopo la batosta del referendum, ha scelto di tacere sulle questioni politiche più importanti ed ha quindi tempo libero. D’altra parte sono tutti d’accordo con Sendic: la separazione dei poteri comporta che non ci sia nessuna ingerenza…

Francamente Gennaro Carotenuto non mi convince soprattutto quando dice ottimisticamente che “comunque giustizia è fatta”. La condanna del Plan Cóndor sarebbe “ormai nella storia e nella coscienza dei popoli”. Ma allora perché perdere due anni e tanti soldi per chiedere giustizia a un paese come l’Italia, che ha una storia lunghissima di sentenze vergognose, a partire da quella sul “malore attivo” di Giuseppe Pinelli?

Pare che le spese per i ricorrenti uruguayani siano state coperte dal governo del loro paese: ma è una manifestazione in più di ipocrisia da parte di un regime “progressista” che ha protetto i criminali repressori con patti di impunità come quello del Club Naval, li ha incarcerati - quando proprio era impossibile non farlo - in prigioni speciali per vip, per passarli poi subito agli arresti domiciliari nelle case lussuose arredate con i beni sottratti alle vittime. Uno dei querelanti, Sebastián Artigas, che ha perso due zii sotto i colpi della dittatura militare, ha denunciato soprattutto il ruolo di José “Pepe” Mujica che quando era presidente aveva dichiarato che non voleva vedere incarcerati dei poveri “vecchietti”, e aveva insabbiato o fatto slittare continuamente i processi in totale complicità con il potere giudiziario.

A parte l’Argentina, che paradossalmente è l’unico dei paesi “progressisti” in cui due presidenti non di sinistra hanno dovuto fare qualcosa di concreto per punire gli “eccessi” della dittatura (sotto la pressione prima di una forte mobilitazione delle piazze, poi di un tenace movimento di madri, nonne e figli di desaparecidos), in tutti i paesi latinoamericani i militari torturatori e sterminatori sono rimasti impuniti, protetti dall’omertà di casta delle nuove generazioni militari, e dalla viltà di “progressisti” o “socialisti” come Michelle Bachelet. E rappresentano un’incognita permanente per ogni progetto democratico.

Diversi familiari delle vittime del Plan Condor e alcuni avvocati hanno espresso clamorosamente (ma senza che i mass media italiani ne parlassero molto) la loro indignazione per la sentenza. Uno di loro, l’avvocato Fabio Maria Galiani, che rappresentava sia la Repubblica dell’Uruguay, sia la parte civile Soledad Dossetti, aveva dichiarato che “in tutta la mia esperienza non ho mai visto in Italia un’assoluzione di fronte a un compendio probatorio come questo”. Ma non è uruguayano, è italiano! Dove vive?

L’Italia è il paese in cui ci sono voluti sette anni per ammettere che Stefano Cucchi non si è ucciso da solo, ed è anche il paese in cui se un giudice in primo grado fa per coscienza o per un miracolo una sentenza secondo coscienza (per esempio sull’amianto, o sulla ThyssenKrupp…), si può stare sicuri che sarà cancellata subito in appello, o al peggio in Cassazione. Non è l’unico paese europeo ad avere una magistratura così, ma certo non è l’ultimo nella graduatoria del cinismo e dell’ipocrisia. 




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