lunedì 10 luglio 2023 - UAAR - A ragion veduta

Perché l’emergenza climatica è una lotta umanista

Chiunque abbia un minimo di buon senso dovrebbe impegnarsi nella lotta per contrastare l’emergenza climatica. Noi umanisti e atei-agnostici razionalisti abbiamo una motivazione in più per farlo. Affronta il tema Giovanni Gaetani sul numero 1/23 di Nessun Dogma

 

In passato mi è stato chiesto, in quanto umanista, di impegnarmi in campagne di riformismo religioso, come supportare una traduzione più moderata del Corano o lottare per il sacerdozio femminile cattolico.

Ho gentilmente declinato l’invito. Perché, per quanto possa trovare auspicabile un islam meno violento o una chiesa più inclusiva, sono però battaglie che non mi riguardano. Non tanto perché interne a due comunità cui non appartengo, ma piuttosto perché alla base inconciliabili con uno dei valori cardine dell’umanismo, e cioè la razionalità.

Lo stesso non può dirsi dell’emergenza climatica. Non potrei declinare con altrettanta gentilezza l’invito a ridurre la mia impronta ecologica e a fare la mia parte per contrastare il cambiamento climatico. Non solo per il banalissimo motivo che, volenti o nolenti, questa lotta riguarda tutti, visto che i suoi esiti hanno un impatto diretto (e potenzialmente irreversibile) sulle vite di chiunque, atei e no, a qualsiasi latitudine.

Ma anche e soprattutto perché quella contro l’emergenza climatica è, da cima a fondo, una battaglia di razionalità che interseca tanti altri valori umanisti, tra cui immanenza, scienza, cooperazione e democrazia – per una lista completa dei valori e delle lotte umanisti si veda il Manifesto grafico dell’umanismo intersezionale.

L’obiettivo di questo articolo sarà allora mostrare in che misura l’emergenza climatica riguardi nello specifico noi umanisti e atei-agnostici razionalisti – in questa sede, userò per semplicità i due termini come sinonimi.

Lo farò mostrando i diversi punti di accordo tra umanismo ed ecologismo, quest’ultimo definito per amor di chiarezza come “movimento d’opinione e orientamento politico che sostengono la necessità di difendere l’ambiente e l’equilibrio naturale”. Iniziamo dunque.

Immanenza: non esiste un pian(eta) B

Cosa succederà alla “fine dei tempi”? Molte religioni immaginano una fine apocalittica. Tra di esse, le due religioni con più seguaci al mondo, cristianesimo e islam, che combinate insieme raggruppano circa il 56% della popolazione mondiale. Ora, in seno a entrambe le religioni esistono gruppi, per fortuna minoritari, che vedono nell’emergenza climatica proprio l’approssimarsi della tanto attesa apocalisse.

Lo abbiamo visto con il covid, quando alcuni cattolici – incluso padre Livio di Radio Maria – videro nell’insorgere della pandemia una punizione di Dio e l’inizio dell’apocalisse, riponendo le loro speranze in Dio piuttosto che nella scienza.

Lo vediamo oggi negli stessi termini con l’emergenza climatica – come scordare ad esempio il capo di gabinetto del ministero per la famiglia, Cristiano Ceresani, che nel dicembre 2018 disse che «il riscaldamento globale è colpa di Satana» e che siamo ormai «entrati nell’ultima ora»?

Ovviamente non tutti i cattolici sono come Ceresani o padre Livio. Il punto però è che le religioni, nella loro miscela di irrazionalità ed esegesi incontrollabili, possono permettere sia un risoluto ecologismo, sia un altrettanto risoluto disfattismo apocalittico – è questo uno dei temi del libro Climate, Catastrophe, and Faith dello studioso delle religioni Philip Jenkins.

Per noi umanisti la situazione è invece diversa. Non abbiamo scusanti teologiche, né possiamo cedere al disfattismo, sia esso di matrice religiosa o nichilista. Di fronte ai dati scientifici, c’è per noi una sola “esegesi” possibile: agire a ragion veduta per contrastare l’emergenza climatica.

Perché, così come crediamo di avere una vita sola, sappiamo di avere una sola Terra. Sappiamo, cioè, che non esiste né un piano B, né un pianeta B, come nel gioco di parole che dà il titolo al bestseller dell’autore ecologista Mike Berners-Lee, There Is No Planet B.

Scienza: l’evidenza (controintuitiva) dei dati

Dicevo dei dati scientifici. Sono proprio loro i veri protagonisti dell’emergenza climatica, perché, senza dati, probabilmente non ci saremmo nemmeno accorti di vivere in un’emergenza.

Il paradosso è infatti questo: agli occhi del singolo individuo o della singola comunità, il cambiamento climatico è troppo graduale, oscillatorio e diluito nel tempo per essere rilevabile; sono invece i dati a lanciare l’allarme, alla stregua dei canarini che si usavano in passato nelle miniere, in grado di avvertire la presenza di gas letali ma impercettibili all’essere umano.

Di qui il neologismo climate canary (“canarino climatico”) per indicare ogni cambiamento ambientale – come ad esempio l’estinzione di alcune specie animali – in grado di farci presagire cambiamenti ambientali più grandi in futuro.

Per dire: dall’anno della mia nascita (1988) a oggi la temperatura media in Europa è aumentata di 1.89° – un aumento enorme in termini percentuali; eppure questo aumento è stato così lento e graduale da risultare impercettibile al singolo individuo nell’arco di trent’anni.

È la metafora/leggenda della rana bollita: una rana gettata in acqua bollente cercherà di saltare fuori dalla pentola immediatamente; al contrario, messa in una pentola con acqua tiepida a fuoco estremamente basso, la stessa rana non si accorgerà di nulla e finirà morta bollita.

In Collasso, Jared Diamond definisce “normalità strisciante” questo fenomeno. Nel libro, Diamond elenca i tanti motivi per cui una società può arrivare al suo collasso, appunto, senza che i suoi membri si accorgano di nulla, intervenendo troppo tardi o non intervenendo affatto.

Tra di essi, c’è la sproporzione tra la lunghezza dei cambiamenti ambientali e la brevità delle vite degli esseri umani, ma anche la loro limitatezza conoscitiva, la loro scarsa e suggestionabile memoria, il loro innato scetticismo. Come dimenticare ad esempio il capolavoro anti-scientifico di Libero che il 5 maggio 2019 titolò in prima pagina: «Riscaldamento del pianeta? Ma se fa freddo», confondendo ingenuamente meteo e clima, e non realizzando che quell’inusuale ondata di freddo maggese era proprio un effetto del riscaldamento globale?

Noi umanisti – che abbiamo a cuore la ragione, i dati e la scienza – non possiamo essere altrettanto ingenui e arroganti. Dobbiamo evitare le trappole della percezione soggettiva e della facile procrastinazione che deresponsabilizza.

L’emergenza climatica, rilevata dalla scienza, può essere risolta solo dalla scienza. E chi meglio di noi può farsi suo avvocato in un mondo paradossalmente sempre più complottista, fideista e pseudoscientifico?

Cooperazione: azione collettiva o suicidio collettivo

A fianco di complotti, religioni e pseudoscienze, anche il nazionalismo è tornato prepotentemente di moda. È però vero che sono finiti i tempi degli esperimenti autarchici e delle politiche isolazioniste.

Viviamo in un mondo così globalizzato e interconnesso che chiudersi a riccio è non solo impossibile, ma anche stupido, nel senso della terza legge di Cipolla: «stupida è una persona che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno».

Di fronte all’emergenza climatica, la stupidità sovranista è massima e sfiora il ridicolo, perché crea danni sia agli altri sia a se stessa, senza ottenere nessun vantaggio. Fenomeni come la fusione dei ghiacciai, l’innalzamento dei mari o la scomparsa delle foreste superano i confini nazionali e riguardano ogni singolo individuo su questo pianeta, anche l’ingenuo che crede di essere al sicuro perché vive a migliaia di chilometri da ghiacciai, oceani e foreste.

«Azione collettiva o suicidio collettivo», è questo il monito lanciato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antònio Guterres, lo scorso 18 luglio, quando a Londra c’erano 40°C. L’emergenza climatica, in tal senso, è davvero la prima sfida eminentemente globale che l’umanità abbia mai affrontato in millenni di civiltà. Il paradosso è che potrebbe essere anche l’ultima.

A confronto nemmeno la pandemia è stata altrettanto globale. Durante la pandemia erano infatti ancora possibili dei rari e fortunati esperimenti isolazionisti, come nel caso di Australia e Nuova Zelanda, favorite dalla loro remota geografia insulare.

Nel mezzo dell’emergenza climatica non esistono isole sicure. Siamo tutti esposti alla stessa minaccia globale. Le emissioni prodotte dall’altro capo del mondo si sommano a quelle emesse a casa nostra e ci interessano tutte alla stessa maniera. Pensare, come fecero gli Usa di Trump, di poter uscire dagli Accordi di Parigi e di proseguire da soli è semplicemente folle. Di qui l’imperativo di cooperare a livello internazionale per limitare il più possibile i danni – ma in che modo?

Democrazia: i sommersi e i salvati dell’ingiustizia climatica

Cooperare tutti, sì, ma in una prospettiva di equità e di realismo. Perché se è vero che tutti i paesi causano e subiscono il cambiamento climatico, è altrettanto vero che non tutti lo fanno allo stesso modo.

È una mera questione di numeri e di contingenze ambientali. Ad esempio, le circa mille isole della Polinesia ospitano intorno alle 700.000 persone – meno dello 0.01% della popolazione mondiale. Dal 1993 al 2022 il livello del mare si è alzato in media di 3,3 millimetri l’anno – quasi 10 centimetri in più in trent’anni.

Eppure c’è davvero poco che gli abitanti delle isole polinesiane possano fare per evitare di finire sommerse dall’oceano: per quanto possano esercitare un ecologismo esemplare, la loro sorte dipende più dall’azione dei restanti otto miliardi di persone in tutto il mondo che dalla loro.

Un cittadino delle Fiji, del resto, ha già un’impronta ecologica molto bassa (meno di 2 tonnellate di anidride carbonica l’anno); quella di un italiano è invece il triplo (quasi 6 tonnellate); quella di un canadese o uno statunitense circa nove volte di più (attorno alle 18 tonnellate).

Chi ingenuamente scrolla le spalle e si dispiace per i polinesiani non ha capito assolutamente nulla: i prossimi siamo noi – secondo le proiezioni della Nasa (basate sui dati dell’IPGG e consultabili gratuitamente sul sito sealevel.nasa.gov), entro il 2100 l’innalzamento del Mediterraneo oscillerà tra i 30 e gli 80 centimetri, sconvolgendo la vita di tanti italiani in città come Venezia, Palermo, Genova, Cagliari, etc.

L’ingiustizia climatica, insomma, sta creando centinaia di milioni di sommersi e pochissimi salvati, per riprendere l’immagine di Primo Levi. Più di 400 milioni di persone vivono oggi in aree appena due metri sopra il livello del mare. Saranno loro i primi sommersi tra pochi anni.

Ma, ovviamente, queste persone non si lasceranno affogare: diventeranno piuttosto rifugiati climatici, andando a occupare una terraferma già sovrappopolata oggi. Al tempo stesso, i salvati – quelli cioè che potranno permettersi case in montagna, aria condizionata e riserve di cibo e acqua – non lo resteranno a lungo: la pressione ambientale, economica e sociale li costringerà a un continuo reinventarsi, fino a quando anche loro diventeranno vittime della medesima ingiustizia climatica cui pensavano di poter sfuggire.

Se non ora, quando? Se non noi, chi?

Questi sono solo alcuni dei motivi per cui noi umanisti e atei-agnostici razionalisti dovremmo essere in prima linea nell’azione contro l’emergenza climatica. Tirarci indietro, esitare, procrastinare – o, paradossalmente, schierarci nelle file dei negazionisti climatici – sarebbe una contraddizione in termini: significherebbe smentire d’un sol colpo tutto ciò in cui crediamo.

Le proiezioni delle Nazioni Unite ci dicono che la forbice è tra +1.5 gradi e +5 gradi entro il 2100 – e la comunità scientifica globale è unanime su questo punto. Per limitare il peggio e scongiurare la catastrofe dobbiamo agire adesso, tutti insieme, dando fondo a tutto il nostro ingegno e tutta la nostra capacità di cooperazione.

Sappiamo che non esistono bacchette magiche. L’emergenza climatica va contrastata su più fronti, in maniera olistica e creativa – si vedano a tal riguardo le 100 soluzioni del Project Drawdown.

Il caso vuole che le tre soluzioni più impattanti siano tutte alla nostra portata individuale – e genuinamente umaniste a loro volta: 1) ridurre lo spreco di cibo; 2) seguire una dieta prevalentemente vegetariana; 3) perseguire una genitorialità responsabile e un’educazione universale, con un focus particolare sull’emancipazione femminile.

Chiunque abbia un minimo di buon senso dovrebbe impegnarsi in questa lotta. Noi umanisti e atei-agnostici razionalisti abbiamo una motivazione in più per farlo, perché abbiamo a cuore la ragione, e quella contro l’emergenza climatica è, come abbiamo visto, una battaglia di razionalità.

Il tempo stringe. Anzi, a ben vedere “non c’è più tempo”, come dal titolo del libro del climatologo e divulgatore Luca Mercalli. Iniziamo adesso allora. Perché se non noi, chi?

Giovanni Gaetani

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