sabato 13 aprile 2013 - Antonella Policastrese

Pecore, euro, leoni e la crisi strutturale

Si è sempre detto che è meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora, e mai luogo comune fu più ignobile di codesto. Basterebbe domandarselo a Pasqua cosa ne possa pensare in merito la pecora, oppure sarebbe stato sufficiente chiederlo a quelle povere bestie morte di fame e di sete nell’ovile del terrore a Rocca di Neto.

Il reportage di quello squallido avvenimento riassume per immagini la cifra di quanto schiavi siamo divenuti al “tempo degli dei falsi e bugiardi”, quale è il nostro. Qualcosa di simile, che aveva al centro le vicende di una mandria di pecore, lo mostrarono qualche tempo fa in Sardegna allorché un pastore, vessato da Equitalia, dilaniato da banche e creditori portò il proprio gregge a pascolare nel prato della sede della Regione. 

Il pastore aveva in braccio un tenero agnellino, talmente stremato dalla fame che non aveva più nemmeno la forza di aprire la bocca per brucare i rigogliosi e invitanti fili d’erba. Perché i tradizionali nemici delle belanti creature un tempo potevano essere individuati tra l’uomo e il lupo, con un picco di olocausto coincidente nella Pasqua, riconducibile all’uomo.

A oggi i nemici si sono invece moltiplicati a dismisura e in ragione di un fattore unico e comune, che coincide con il rapporto costo/ricavi che riguarda gli allevatori. Non c’è partita, perché la pressione fiscale, i costi di gestione e per materie prime, la concorrenza dei mercati hanno determinato lo scoraggiamento se non l’abbandono delle attività agricole.

Il tutto nel volgere di poco più di un decennio, sotto i colpi di “decisioni irrevocabili” spesso prese in ore notturne, Giuliano Amato insegna. Il giorno prima che tutto cominciasse a cambiare, il pastore o l’allevatore che entrava in banca per chiedere un prestito era accolto con le palme benedette. I capi di bestiame avevano un valore all’epoca, erano un cespite importante, il loro peso era congruo.

Oggi un vitellino è valutato un centinaio di euro, una pecora non più di una cinquantina, una mucca da latte non supera i mille euro di valore di mercato e quindi, se oggi un allevatore entra in banca per chiedere soldi in prestito, il direttore gli libera i pitbull.

Sempre in Sardegna, il cantante ingaggiato per la festa patronale fu pagato in pecore, un congruo numero, ed è già qualcosa. Per la verità non va meglio per le altre categorie di imprenditori, ma questo oramai è cronaca ordinaria. Nel caso degli allevamenti ovi-caprini, l’Unione Europea aveva cercato di regolamentare il comparto, soprattutto in funzione del consumo delle carni e dei derivati (risoluzione del Parlamento europeo del 19 giugno 2008) proponendone e sostenendone l’incentivazione.

A Bruxelles s’erano addirittura posti il problema della valorizzazione dei prodotti derivati quali la lana e le pelli, conosciuti come il "quinto quarto", dove il rendimento finanziario è attualmente pressoché trascurabile. E dunque, se già la lana valeva poco o niente, se il consumo di carni era crollato nonostante ne fosse stato incoraggiato il consumo; se il formaggio pecorino cominciava a reggere il confronto con i blasonati grana e parmigiano, perché un pastore abbandona drasticamente il proprio gregge al proprio ineluttabile destino, come è avvenuto a Rocca di Neto?

Perché un allevatore di pecore sardo è costretto a portare il proprio gregge al pascolo nel giardino della Regione Sardegna? Perché c’è la peste in Europa e il lazzaretto più grande si trova in Italia dal 1 gennaio 2002, cioè dal giorno in cui l’euro ha sostituito ufficialmente la lira.

Al timone dell’Italia c’era Silvio Berlusconi che aveva ereditato tutti i passaggi propedeutici per l’instaurazione di un regime monetario che, nel corso degli anni, ha rivelato in tutti i suoi tratti, un volto da nazismo finanziario. Le tappe fondamentali della sostituzione della lira con l’euro furono queste: tra maggio e dicembre del 1998 (dal 1996 sino al 2001 si alternarono al Governo D’Alema, con tre edizioni, e Prodi con una) nacque la Banca Centrale Europea e da quello stesso organismo furono fissati i valori definitivi di cambio tra lira ed euro, nel quale ci sarebbero volute 1936, 27 lire per acquistare un euro.

Dalla primavera del 2002, dopo un periodo accettabile di doppia circolazione monetaria lira/euro gli italiani si trovano davanti agli effetti di un disastro annunciato dove un euro valeva definitivamente mille lire. L’assurda e impari perequazione tra le due divise, scatenò la più grande speculazione finanziaria mai registrata dai tempi delle guerre puniche a oggi.

I prezzi raddoppiarono; ciò che costava solo mille lire, andò a costare quasi duemila lire. Si disse subito che non si attivarono efficaci controlli sulle dinamiche dei prezzi da parte dello Stato e che i privati avevano trovato una vacca da mungere. Ma furono solo i privati a pensarla così? Se una pizza e una birra per due, nel 2001 costavano 40 mila lire, l’anno successivo costavano 40 euro, mentre gli stipendi che ammontavano a due milioni di lire non diventarono automaticamente duemila euro, ma rimasero mille.

Per un po’ di tempo lo Stato mantenne intatto il valore reale di cambio; ad esempio, la tassa sui bollettini di conto corrente postale che si pagava a dicembre del 2001 era di 1.500 lire; nel 2002 divenne 0,77 euro, un cambio alla pari, salvo un balzo verso la soglia di un euro l’anno successivo. Così la giocata minima al gioco del lotto; nel 2001 era di mille lire, nel 2002 fu raddoppiata a un euro, vale a dire quasi a duemila lira. Lo Stato, che avrebbe dovuto controllare l’aumento di prezzi, perché non iniziò col controllare se stesso?

Perché gli aumenti medi dei generi di monopolio; le accise, i balzelli di ogni tipo, le tasse di ogni genere hanno fatto registrare aumenti medi del 68 per cento? Che dire delle polizze assicurative per le auto, il cui costo da prima dell’euro a oggi è aumentato del 101 per cento? Tutte queste cose non lo capiscono ancora gli italiani, perché dunque avrebbero dovuto comprenderlo quelle povere pecore morte di fame e di sete nell’ovile di Rocca di Neto?

Altre ne saranno sbranate di pecore la domenica di Pasqua, e ancora una volta non capiranno cosa abbia in comune il loro sacrificio col nome di Colui che additava ad esempio il pastore che per salvare una sola pecora abbandonava il gregge. La crisi che c’è in Italia da finanziaria ed economica che era, sta divenendo strutturale.

Nel baratro ci siamo finiti dentro e nello scivolarci sempre più giù non troviamo radici a cui aggrapparci. Abbiamo lasciato che rinsecchissero, perché sarebbe costato troppo curarle o perché erano divenute un peso, un impedimento alla modernizzazione globalistica, e le abbiamo addirittura recise.

Avevamo un debito pubblico, che bisogna ridurre tagliando, riducendo, sopprimendo; ma siamo sicuri che quello stesso debito non è raddoppiato e triplicato in funzione dell’identico meccanismo che ha portato alla tragica equazione mille lire un euro scritta in Germania nella sede della BCE a dicembre del 1998? Sia il leone che la pecora non possono dircelo, perché loro non c’erano a Francoforte quel giorno e neppure lo possono sapere.




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