giovedì 9 gennaio - Fabio Della Pergola

Palestina: vittima delle vittime?

La tragica guerra tra Israele e Hamas ha innestato nel dibattito pubblico feroci e incessanti polemiche sull’attualità drammatica del conflitto, spesso motivate da notizie di stampa non verificate, ma anche accesi contrasti sulle sue origini storiche ormai secolari.

Molti si sono impegnati in quest’ultimo anno a riassumere i termini della questione israelo-palestinese: dall’eccellente Israele e il 7 ottobre. Prima/Dopo di Fabio Nicolucci, al discusso Il suicidio di Israele di Anna Foa, alla raccolta curata da Bruno Montesano, Israele-Palestina. Oltre i nazionalismi, all’instant book di Marco Travaglio Israele e i palestinesi in poche parole.

Fino all’acuta analisi di Arturo Marzano Questa terra è nostra da sempre che tenta una ricostruzione dell’intero conflitto, privilegiando una lettura critica della storiografia “ufficiale” o “tradizionale”, dando spazio alle voci che la mettono in dubbio (“gli stati arabi volevano davvero distruggere Israele?”, “gli israeliani fecero davvero delle proposte di pace accettabili?”) pur riuscendo a mantenersi in qualche modo equilibrato nell'opera presentata come un "fact checking", insieme a riflessioni non banali sui concetti di colonialismo, sulle risibili equiparazioni tra sionismo e nazismo proprie degli aspetti deteriori della polemica antisraeliana, su differenze e similitudini tra antisemitismo e antisionismo e così via. Un buon libro pur fra alcuni aspetti critici (perché non approfondire meglio la rilevanza dei “tre no di Khartoum”? Perché non dedicare nemmeno una parola alle critiche di Nabil Amr, ministro palestinese, al rifiuto di Arafat alla proposta Barak del 2000? – ne scrissi qui – Perché riferirsi a Ehud Olmert solo in riferimento alla proposta di Annapolis del novembre 2007 e non a quella, ben più consistente, del settembre successivo?)

Tutti questi testi, chi più chi meno, ricostruiscono le lontane origini del conflitto, e tutti ugualmente soffrono di una piccola grande carenza, che a mio modesto parere resta fondamentale.

Mi spiego.

Uno dei punti salienti delle accuse rivolte all’Israele delle origini è la violenza gratuita messa in atto durante i mesi di guerra civile tra le forze sioniste e i nazionalisti arabo-palestinesi, che seguirono il rifiuto arabo alla risoluzione Onu del novembre 1947 e che precedettero l'aggressione del neonato stato ebraico da parte degli stati arabi (maggio 1948).

In quei pochi mesi il fatto militare emblematico delle sofferenze palestinesi fu il massacro di Deir Yassin (aprile 1948), villaggio nei pressi di Gerusalemme, assaltato dai miliziani dell’estrema destra sionista (Irgun e Banda Stern) che provocarono 107 morti fra i civili arabi. Quanto accaduto a Deir Yassin è diventato l’icona stessa della Nakba, la catastrofe. Che, a sua volta, è diventata l’icona dell’intera vicenda israelo-palestinese. Il principio di tutto. Tutto, si dice, è iniziato lì, sulle macerie di Deir Yassin.

Un avvenimento speculare viene ugualmente citato spesso: il massacro di Hebron di vent’anni prima (agosto 1929). Speculare perché in quella occasione le vittime furono i civili ebrei dell’antico Yishuv (insediamento) della città che, fidandosi dei tradizionali buoni rapporti con i vicini arabi, avevano rifiutato l’offerta di protezione armata da parte delle forze sioniste di difesa, l’Haganà.

Nell’assalto dei nazionalisti arabi rimasero uccisi circa settanta civili inermi e molte decine furono i feriti. Con il prevedibile corredo di atrocità e ferocia, non diverso – se non nella differenza delle armi utilizzate – da quello che tutto il mondo ha visto attuare il 7 ottobre dai miliziani di Hamas (e in misura, relativamente alla popolazione ebraica residente all'epoca, anche maggiore). I superstiti furono infine obbligati a lasciare la città.

L’aggressione araba inaugurò così, in quell’area, la prassi della pulizia etnica insieme a quella dell’eccidio di massa. Oltre ad aver provocato la saldatura, per reazione all'indiscriminato massacro, delle varie, e fin lì divise, componenti del variegato mondo ebraico di Palestina (di antico insediamento o di recente immigrazione, di origine europea o mediorientale, religiosi o laici, nazionalisti sionisti di varie coloriture o marxisti internazionalisti e così via).

Nella maggior parte dei casi il massacro di Hebron è citato nei libri in una riga o due, senza alcun approfondimento (e non tutti lo fanno), mentre a quello di Deir Yassin si dedica invece ben altro spazio e attenzione critica, come fatto emblematico della violenza dell’estremismo sionista di cui i dirigenti sionisti stessi si rammaricarono, come ricorda Anna Foa.

In questa lettura, il massacro di Hebron viene assorbito in quel magma caotico di violenza in cui torti e ragioni si confondono nell’indistinta atmosfera di scontro del trentennio 1918-1948 che preparava il “vero” problema: la nascita dello stato ebraico. Quel magma di reciproche brutalità assorbe il massacro di Hebron la cui rilevanza svanisce completamente lasciando solo una macchia di sangue fra le tante. Proprio come una macchia di inchiostro è indistinguibile da altre macchie sulla carta assorbente.

Deir Yassin invece dà inizio a tutto e se tutto inizia con la Nakba del 1948 non c’è in realtà alcuno spazio reale di empatia per tutta la storia precedente. Quello spazio resta riservato alla riflessione degli storici specialistici, che pesano i singoli fatti sui loro bilancini di precisione, ma non arriva mai alla percezione diffusa. Quello che arriva è che prima c’è un caos indistinguibile e tutto sommato equilibrato fra forze contrapposte. Poi, ma solo poi, la rottura definitiva provocata dalla Nakba. Fino a quel momento, si insinua, nulla è davvero iniziato.

Per quale motivo il massacro di Deir Yassin è diventato un’icona della sofferenza araba mentre quello di Hebron non è riconosciuto come icona delle sofferenze ebraiche? La risposta è banale: il primo è il simbolo della catastrofe, mentre il secondo non può esserlo perché Israele ha vinto tutte le guerre successive con i suoi vicini arabi. E benché sia ovvio che il fatto di Hebron, a differenza di quello di Deir Yassin, rimase circoscritto e la catastrofe subìta in quell'occasione dagli ebrei venne metabolizzata grazie alle vittorie successive (così come, per altri versi, l'enorme rilevanza della Shoah su ogni altro fatto di sangue ne offuscò il ricordo), resta il dubbio che negarne la fondamentale importanza significhi nei fatti manipolare la realtà dell’intero conflitto. Darne un’interpretazione falsata. Che torna a essere vera solo nel momento in cui quel preciso avvenimento tragico, quel preciso massacro riacquisti la sua centralità nella narrazione complessiva del conflitto.

La risonanza mondiale dell’eccidio non lascia alcun dubbio che esso ebbe una rilevanza storica indiscutibile.

 

Ad aggravarne il senso è sufficiente ricordare che quel massacro non avvenne in un contesto di scontro ormai aperto, come Deir Yassin, né, tantomeno, in presenza di uno stato nemico come può essere l’Israele del 7 ottobre.

Che significato può aver avuto, dobbiamo quindi chiederci, il massacro di Hebron – che, ricordiamolo, precede quello di Deir Yassin di quasi vent’anni – nella popolazione ebraica residente nella Palestina mandataria? 

Lo storico Hillel Cohen, della Hebrew University di Gerusalemme, si è espresso chiaramente in merito: esso fu the “point-of-no-return” in relations between Arabs and Jews in Palestine. Fu il punto di non ritorno nelle relazioni fra le due comunità.

In sintesi, in un contesto di crescente e aperto dissidio sulle modalità di convivenza nel medesimo territorio o, più realisticamente, di contenzioso sulla sovranità (su un territorio che ne era virtualmente privo, dato che quella britannica era “a tempo”) quel contenzioso slittò o fu fatto slittare dal dibattito politico, per quanto aspro e costellato di manifestazioni di piazza e scontri fra militanti di opposte fazioni, all’indiscriminato massacro di civili inermi, non politicizzati e fiduciosi nelle possibilità di convivenza pacifica fra le due comunità.

È ovvio che mettere in atto uno scostamento di questo tipo – dal confronto politico allo sterminio di massa – non solo immotivato, ma anche così crudele, non poteva che diventare un punto di svolta radicale.

«In questo senso – scriveva Hillel Cohen nel 2013 – possiamo affermare che le rivolte [del 1929] hanno fondato lo Yishuv e plasmato l'ethos e i valori del futuro Stato ebraico; ethos di difesa e guerra».

È per questa convinzione che nel mio romanzo di fantapolitica - La pace cattiva, autopubblicato su Amazon - il massacro di Hebron è posto all'inizio di tutta la narrazione che immagina il popolo ebraico, visto il perdurante conflitto, decide di ri-trasferirsi di nuovo in Europa e lì fondare ingenuamente il suo stato, lasciando la Palestina agli arabi.

Per quale motivo, quindi, si liquidano i fatti del '29 in una riga annacquandoli nel quadro del generale confronto politico? Eppure un eccidio di civili inermi, inseguiti casa per casa in un crescendo di orrore e terrore, è chiaramente un radicale turning point: il superamento di ogni “linea rossa”. Proprio come è, secondo la maggior parte degli analisti, un punto di svolta radicale l’eccidio del 7 ottobre. L'unica risposta è che si è privilegiata la vittimistica lettura araba che ha sfruttato le (indiscutibili) sofferenze del popolo palestinese del 1948 per cancellare dalla percezione diffusa tutto ciò che venne prima.

Nell'agosto 1929 inizia davvero, invece, la storia del conflitto.

Quello fu l'anno zero, come titola un libro di Cohen, 1929. Year Zero of the Jewish-Arab Conflict (un libro che dovrebbe essere tradotto e pubblicato anche in Italia). Qui si dette il tramonto definitivo di ogni possibile convivenza all'interno di un vagheggiato stato binazionale o, almeno, di una ipotetica connessione di tipo federativo. Come ha scritto Ran Greenstein in una recensione al libro di Cohen, «nella memoria collettiva ebraico-israeliana, il 1929 fornisce la prova definitiva che non esiste "nessun partner" per un accordo politico con i palestinesi, che pugnalerebbero alle spalle qualsiasi ebreo, indipendentemente dalla sua storia personale o affiliazione politica, se gliene venisse data mezza possibilità.»

Non con la Nakba, come dicono tutti, non con la Grande Rivolta Araba del 1936, come scrive Anna Foa, ma per il massacro compiuto dai nazionalisti arabi nel 1929 la convivenza tra le due comunità diventò davvero impossibile.

Esso costituì, come dice Hillel Cohen, un punto di non ritorno. E se non si poteva "ritornare" (a una convivenza, per quanto problematica, o almeno a un confronto civile finalizzato alla ricerca di una soluzione possibile) il futuro che si prospettava non poteva certamente essere roseo. Al contrario, in quell’occasione, con quella scelta folle, forse sollecitata dai proclami del Gran Muftì Amin al Husayni, si dette avvio a una spirale di violenza che, salvo rari momenti di rinsavimento, ha poi devastato i novantasei anni successivi.

In altri termini non si possono comprendere realmente le origini del conflitto israelo-palestinese se non si rimette al centro di ogni riflessione la trasformazione indotta dai "fatti del '29".

Ma ancora oggi la storica Anna Foa scrive: «La memoria della Nakba, come quella della Shoah alimenta così identità radicalmente contrapposte» e ancora «è possibile conciliare la memoria con la giustizia nel momento in cui una delle due vittime è anche vittima dell'altra, come nel caso dei palestinesi?»

Una domanda che è lecita solo se il massacro di Hebron viene ridotto a una riga, cioè a una sostanziale irrilevanza storica. Se così non fosse dovremmo affermare invece che i palestinesi non furono vittime della Nakba, ma della prospettiva omicida-suicida del nazionalismo arabo che, confidando di risolvere alla radice il problema della presenza ebraica con il massacro degli ebrei (che fossero o non fossero politicizzati di recente immigrazione) e, conseguentemente, il loro agognato progetto statuale, ha dato inizio al confronto armato e ha precipitato il suo stesso popolo in un martirio che dura da novantasei anni.

Come ha dimostrato, per l’ennesima volta, l’immane follia del 7 ottobre.




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