martedì 7 agosto 2018 - Phastidio

Pakistan | La schiavitù del debito, edizione cinese

Dal 1980, il Pakistan ha chiesto un salvataggio al Fondo Monetario Internazionale per ben dodici volte, l’ultima nel 2013 per poco più di 5 miliardi di dollari.

Oggi si moltiplicano le voci di una nuova richiesta, stimata in 12 miliardi di dollari, dopo l’insediamento del nuovo premier, la ex stella del cricket Imran Khan. Il paese ha una drammatica penuria di valuta, esacerbata dal rialzo del prezzo del greggio; le riserve ammonterebbero a circa 9 miliardi di dollari, insufficienti a coprire le importazioni di un bimestre. Ma il Pakistan ha una peculiarità: è destinatario di una pioggia di finanziamenti cinesi, nell’ambito del progetto Belt and Road, che stanno strangolando il paese.

Il progetto è di fatto un credito di fornitura (vendor financing), che impone al debitore di acquistare beni e servizi cinesi. La Cina sta investendo in Pakistan un importo stimato in 62 miliardi di dollari per la realizzazione di centrali elettriche, strade, porti, centri direzionali. Le condizioni di fornitura sono molto opache ma pare molto onerose. Secondo documenti visionati dal Wall Street Journal, la concessione governativa per una centrale elettrica implicherebbe un ritorno sull’investimento del 34% in dollari per 30 anni, con garanzia governativa pakistana. Direi che questo basta per evitare di qualificare la Belt and Road Initiative come “il Piano Marshall cinese”.

Il paese, che già di suo tende ad avere ricorrenti crisi di bilancia dei pagamenti, sta rapidamente esaurendo i dollari, ed a questo punto ha solo due alternative: rinegoziare con i cinesi i termini delle forniture, oppure chiedere un prestito al FMI. I cinesi, con queste pratiche di credito, stanno mettendo le mani su un numero crescente di infrastrutture finanziate: in Sri Lanka, dove il governo locale non è riuscito a ripagare uno dei prestiti, Pechino ha ottenuto una concessione di 99 anni su un porto. Altri governi della regione, come Myanmar, Malaysia e Nepal si stanno risvegliando alla dura realtà di un meraviglioso futuro di conquiste cinesi a mezzo della schiavitù del debito.

E qui si arriva dritti all’ennesima versione del conflitto tra Stati Uniti e Cina. Gli americani, per bocca del Segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno messo in guardia il Fondo dal prestare soldi “dei contribuenti americani” che di fatto finirebbero ad essere un bailoutdei cinesi. Logica vorrebbe che, prima di prestare soldi del Fondo al Pakistan, si debba infatti procedere ad un haircutdei crediti di paesi terzi, cioè dei cinesi.

Se così non fosse, si verificherebbe non solo l’erogazione di un enorme sussidio quasi tutto occidentale (soprattutto americano) a Pechino ma la popolazione pakistana verrebbe pure massacrata di tagli richiesti dal Fondo, negli abituali termini di distruzione della domanda domestica per sopprimere le importazioni: eliminazione di sussidi, tagli di spesa pubblica, rialzo di tariffe amministrate e tasse, rialzo dei tassi d’interesse, inflazione importata a seguito della libera fluttuazione del cambio per riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti. E addio ambizioso programma di Khan di aumentare e riqualificare la spesa sociale, in un paese che ha già un deficit-Pil al 7%.

Tempi interessanti, al solito: e qui è davvero difficile dare torto all’amministrazione Usa. Anche perché il Pakistan è oggettivamente passato dal vendor financing americano (di cui il FMI è sempre stato parte integrante), a quello cinese, e ciò implica che Pechino debba farsi carico di questo suo nuovo ruolo regionale. Non a caso da parte americana si chiede, come precondizione minimale all’apertura del dossier, che il FMI possa guardare con attenzione ai contratti secretati del Pakistan con la Cina.

Fatte le debite proporzioni, attendiamo quei piccoli italiani che arriveranno a dire che “bisogna guardare alla Cina”, per farsi incravattare meglio. Che poi, sono i compagnucci di quelli che “il Venezuela sfuggirà agli artigli yankee chiedendo prestiti alla Cina”. Già fatto, compagni, e non finirà bene. La Cina non è la onlus dell’internazionalismo idiota che tanti adepti ha nel nostro paese di comunisti col rolex.




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