mercoledì 14 luglio 2021 - UAAR - A ragion veduta

Omofobia, l’odio «che non osa pronunciare il proprio nome»

Per millenni gli omosessuali sono stati perseguitati e condannati con l’accusa di “sodomia”, qual è la ragione storica di tale odio? Dal punto di vista giuridico, perché è corretto punire penalmente l’omofobia? Ne parla Alessandro Cirelli sul n. 4/2021 della rivista Nessun Dogma.
 

Discriminati per millenni, torturati, castrati, messi a morte (per impalamento, impiccagione, e soprattutto arsi vivi), trattati come malati mentali e criminalizzati, solo di recente gli omosessuali sono stati riconosciuti dalla comunità scientifica e dalla gran parte degli Stati come “non malati” e meritevoli di pari dignità sociale. Il 17 maggio 1990 – solo 31 anni fa – l’omosessualità veniva definita dall’Oms come una «una variante naturale del comportamento umano». Questa c.d. “de-patologizzazione” è avvenuta rimuovendo l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella Classificazione Internazionale delle Malattie (Icd), e tale data è divenuta nel 2004 la Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Transfobia e la Bifobia (o Idahobit, acronimo di International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia).

Negli ultimi decenni, si è particolarmente acceso, in Italia e all’estero, il dibattito attorno ad una forma di odio che fino a qualche decennio fa non veniva neanche presa in considerazione: l’omofobia. Termine qui da intendersi in senso ampio, e cioè come quella forma di odio verso l’intera comunità Lgbt+.

Prima di addentrarci nel dibattito giuridico, è interessare individuare in breve la ragione storica di tale odio.

Gli studiosi individuano come causa storica scatenante lo stigma, l’interpretazione cristiana (secondo molti errata) all’episodio biblico di Sodoma, descritto nella Genesi (19, 1-29). Per chi non lo conoscesse, in sintesi, due angeli vennero mandati da dio presso la città Sodoma e, nel vederli, Lot si inchinò e li invitò nella sua casa affinché trascorressero la notte nell’abitazione. Tuttavia, prima che ciò potesse avvenire, gli abitanti della città attorniarono la casa ed esigettero che Lot consegnasse loro i suoi invitati per poter abusare di loro. Lot rifiutò («no! È abominio!»), offrendo al loro posto le sue due figlie vergini pur di non commettere un grave peccato agli occhi di Yahweh, ma essi rifiutarono, insistendo nelle loro pretese. Gli abitanti di Sodoma provarono a sfondare la porta d’ingresso, ma i due invitati impedirono l’accesso all’interno della casa agli assalitori accecandoli con un’abbagliante luce. Dopodiché, messo in salvo Lot ed ascesi al cielo gli angeli, dio inviò una pioggia di fuoco e zolfo che incenerì del tutto Sodoma con i suoi abitanti, assieme ad altre città della pianura.

Dubbi sull’esistenza storica di Sodoma a parte, oggi in molti sostengono che chi ne scrisse in origine non avesse affatto in mente come morale del racconto la punizione della trasgressione sessuale, bensì un altro tipo di trasgressione: quella contro l’ospitalità (“è abominio” mancare di rispetto a un ospite).

Il passo biblico di Sodoma ha avuto un’enorme importanza nella cultura occidentale. Per millenni gli omosessuali sono stati perseguitati e condannati con l’accusa di “sodomia”, un termine sopravvissuto fino ai giorni nostri. Attraverso Sodoma si sono consolidati stereotipi, pregiudizi e odio nei confronti degli omosessuali, associando ad essi i termini “abominio”, “mostruosità”, “contro natura”, “vizio nefando”, ecc.

Non è un caso che una delle prime leggi di incriminazione delle condotte omosessuali sia stata promulgata nel 390 e.v., e cioè a distanza di pochi anni dalla dichiarazione del Cristianesimo come religione ufficiale dell’impero (380 e.v.): facendo un chiaro riferimento a Sodoma, veniva prevista la pena del fuoco (il rogo) per i prostituti omosessuali. In seguito, nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano – opera fondamentale del diritto romano e dunque anche del diritto medievale e moderno in quasi ogni parte del mondo – Sodoma diviene emblema della decadenza e della rovina a cui vanno incontro le città che consentono la pratica dell’omosessualità maschile e, per tale ragione, per espressa volontà di Giustiniano, si iniziarono a punire coloro che praticavano la sodomia, per la prima volta a prescindere dal ruolo sessuale.

Con l’illuminismo si iniziò a sostenere la decriminalizzazione dell’omosessualità in larga parte dei paesi occidentali (le condotte omosessuali non causano alcun danno sociale), ma in alcuni paesi soltanto verso la fine del ‘900 e l’inizio degli anni 2000 venne abrogato il reato di sodomia: in Germania, ad esempio, solo nel 1994 venne abolito in via definitiva il tristemente celebre (anche dopo il nazismo) paragrafo 175.

Si segnalano due fondamentali sentenze: “Dudgeon contro Inghilterra” (1981), e “Lawrence contro Texas” (2003), rispettivamente decise dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (c.d. Corte di Strasburgo) e dalla Corte Suprema Americana, le quali posero fine definitivamente, in Europa e in America, ad ogni criminalizzazione dell’omosessualità, sulla scorta del principio del rispetto della vita privata.

Ciò premesso, e segnalando en passant che in circa 70 paesi l’omosessualità è tutt’oggi un crimine (in alcuni di questi, punita con la pena di morte), se il diritto, per citare Stefano Rodotà, ha (quasi) smesso di essere abominevole nei confronti degli omosessuali, questi ultimi purtroppo continuano ad essere stigmatizzati da religioni, associazioni, partiti politici (si parla anche di omofobia istituzionalizzata) e singoli individui. Infatti le statistiche sui c.d. crimini d’odio (hate crimes) ci dicono incontrovertibilmente che, subito dopo i crimini motivati dal colore della pelle, vengono quelli per omofobia e transfobia e che sono in forte aumento.

È proprio partendo dalla palese maggior vulnerabilità degli Lgbt+ che negli ultimi decenni si è iniziato a legiferare in tema di omofobia in molti paesi.

La comunità internazionale ha più volte discusso se adottare convenzioni per criminalizzare l’omofobia, così come si fece con la fondamentale convenzione “contro tutte le forme di discriminazione razziale” di New York 1966, ma uno stato in particolare si è sempre opposto: Città del Vaticano. La chiesa cattolica, ossessionata da un’atavica avversione per l’omosessualità maschile, pur di impedire il riconoscimento delle famiglie omogenitoriali e del matrimonio egualitario, è evidentemente disposta ad accettare discriminazioni e violenze ai danni degli Lgbt+. Anche (soprattutto) in Italia, ogniqualvolta si è discussa l’approvazione di leggi contro l’omofobia, la chiesa cattolica ha sfruttato ogni strumento in suo possesso per impedirne l’approvazione (riuscendoci).

Ma cerchiamo di rispondere brevemente ad una domanda: dal punto di vista giuridico, perché è corretto punire penalmente l’omofobia?

Poniamo due esempi a confronto: nel caso A, Tizio aggredisce Caio per strada perché questi aveva infastidito la sua fidanzata; nel caso B, Tizio sferra un pugno a Caio perché passeggia per strada mano nella mano con Sempronio.

Se in entrambi i casi c’è una lesione dell’integrità fisica di Caio, è del tutto evidente che nel caso B c’è qualcosa in più. L’aggressione motivata da omofobia manifesta la volontà di escludere un soggetto dalla vita sociale perché ritenuto sbagliato, indegno, meritevole di odio. Ma c’è di più. La vittima, in questo tipo di reati, è perfettamente sostituibile (in diritto si parla di “fungibilità”) da un’altra appartenente alla medesima comunità che, pertanto, diviene essa stessa offesa dal reato. Le condotte omofobe aggrediscono, tramite il singolo, un’intera comunità di individui connotata da un particolare orientamento sessuale, negando a tutti gli appartenenti il bene più prezioso: la dignità. Non a caso il nostro codice penale chiama tali reati «delitti contro l’uguaglianza».

I crimini d’odio sono in crescita nel nostro paese e l’Unione Europea e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiedono da anni a tutti i paesi sprovvisti di una legislazione penale contro l’omofobia, di intervenire e fornire tutele alla comunità Lgbt+. Ciò anche perché dagli anni ‘60/’70 in tutto il mondo si sono approvate leggi contro la discriminazione razziale e, si osserva, l’omofobia è analoga al razzismo quindi meritevole della medesima disciplina. Secondo alcuni addirittura, l’omofobia sarebbe una forma (contemporanea) di razzismo, atteso che quest’ultimo concetto ha subito un’evoluzione negli ultimi anni (si parla di Razzismo differenzialista), non essendo più legato a dati biologici.

Secondo alcuni, legiferare in tema di omofobia sarebbe “una discriminazione alla rovescia”, attributiva di privilegi ad alcuni individui in virtù del loro orientamento sessuale, oltre che un’indebita limitazione della libertà di pensiero (in relazione ai c.d. “discorsi d’odio”).

Partendo dalla prima critica (violazione del principio di uguaglianza), si osserva che postulato fondamentale del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2 della Costituzione) è che lo Stato deve concretamente intervenire a rimuovere quegli ostacoli che impediscono la piena realizzazione dell’uguaglianza e pari dignità sociale fra tutti gli individui. Fornire tutele rafforzate a coloro che ne hanno maggior bisogno perché più vulnerabili, affinché il principio stesso non rimanga una mera formalità su carta, non solo è possibile ma è costituzionalmente e convenzionalmente (in relazione alla Cedu, Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) doveroso. Il principio di uguaglianza impone di trattare allo stesso modo i casi simili, ma anche di trattare in maniera diversa i casi diversi, e l’esempio poc’anzi proposto mostra perché i reati a sfondo omofobico sono diversi dai reati comuni e siano invece analoghi ai crimini motivati da razzismo.

È vero che si tratta di una “discriminazione alla rovescia”, tuttavia è una discriminazione ragionevole, cioè un trattamento differenziato (una maggiore protezione penale) razionale e motivato.

Come sono ragionevoli e legittime le aggravanti e i reati a sfondo razziale, etnico o religioso che dagli anni sessanta del secolo scorso sono largamente presenti nelle legislazioni dei vari Stati, allo stesso modo lo sono quei reati e quelle aggravanti che puniscono o aggravano la pena delle condotte compiute in ragione dell’orientamento sessuale della vittima.

Per quanto riguarda la seconda critica (violazione della libertà di manifestazione del pensiero), va premesso che fra i crimini d’odio non vi sono solo le aggressioni fisiche, ma altresì i discorsi d’odio (hate speech). Sono già previsti come reati (articolo 604 bis codice penale) l’istigazione ad aggredire o a discriminare, ed anche la propaganda di odio, quando motivati sulla base della razza, dell’etnia, della nazionalità e della religione, e quando da tali discorsi può emergere il concreto pericolo di discriminazione e di violenza. Ogniqualvolta si discute di includere l’omofobia nei reati contro i discorsi d’odio, sembra che i critici si dimentichino che esiste una copiosa giurisprudenza (interna e sovranazionale) che ha già affrontato il tema del presunto (e assente) contrasto con la libertà di opinione. Ebbene la libertà di manifestazione del pensiero, tutelata dalla nostra Costituzione, non consiste anche nella libertà di istigare all’odio e alla discriminazione: propagandare l’odio omofobico è cosa ben diversa dal manifestare un’opinione.

Un cittadino può e potrà sempre esprimere un’opinione («non sono d’accordo col matrimonio gay» o «l’omosessualità è contraria all’ordine naturale»), ma ciò è diverso dall’istigazione all’odio o alla violenza («Al rogo tutti gli omosessuali come a Sodoma!»). Il primo è tutelato dai principi fondanti della democrazia, mentre il secondo non può essere tollerato perché mette a rischio la vita e l’incolumità di alcune persone «per la colpa d’esser nate», citando Liliana Segre.

Concludendo, si impone oggi come necessaria e costituzionalmente obbligatoria l’estensione in tempi rapidi della legislazione antirazziale anche ai crimini d’odio motivati da omofobia. Il contrario sarebbe un’intollerabile lacuna, una discriminazione fra le discriminazioni, oltre che un’iniqua gerarchizzazione delle sofferenze patite da gruppi ugualmente discriminati.

Alessandro Cirelli

Per leggere tutti i numeri della rivista associati all’Uaarabbonati oppure acquistala in formato digitale.

 




Lasciare un commento