Nuovi equilibri in Medio Oriente
Ciò che accade in Siria sembra dimostrare l’esatto contrario di quanto sostenuto pochi giorni fa dal nuovo leader di Hezbollah, Naim Qassem, nel suo primo discorso pubblico da quando ha sostituito il defunto Nasrallah alla guida del “partito di Dio”.
In una eccellente prova di capacità retoriche ha rivendicato una “grande vittoria” del movimento nella nuova tornata di conflitto che esso stesso ha scatenato contro lo stato ebraico nell’immediatezza del 7 ottobre, “in solidarietà con Gaza”: “Gli abbiamo impedito di eliminare Hezbollah, gli abbiamo impedito di neutralizzare la Resistenza".
Ma è appunto la rivendicazione di questa presunta vittoria (leggibile più esattamente in un “le abbiamo prese di brutto, ma non ci hanno fatto sparire del tutto”) che è smentita da ciò che accade sul terreno.
Riassumiamo il complicato puzzle mediorientale così come sembra essersi evoluto negli ultimi vent’anni.
Il buco nero determinato da Bush junior con l'inutile, controproducente e incomprensibile seconda invasione dell'Iraq (2003), ha aperto la strada all'espansionismo iraniano che è riuscito a creare un "corridoio sciita" attraverso l'Iraq (guidato dal nuovo governo a maggioranza sciita), la Siria di Assad, l'Hezbollah libanese fino ai confini di Israele. Da qui il sostegno a Hamas (che è sunnita) è diventato un'ovvia conseguenza. E la gestione del conflitto israelo-palestinese è passata nelle mani – e ne sembrava controllata – di Teheran almeno fino alla suicidale pensata di Yahya Sinwar.
Nel 2011 la ribellione contro Assad in Siria e, a sud, la ribellione contro il governo di Abdullah Saleh nello Yemen hanno reso incandescente tutto il Vicino Oriente trasformato in una carneficina che ha visto la partecipazione diretta o indiretta di Russia, Hezbollah e Iran (in sostegno di Assad), Giordania, Usa e alleati contro l'Isis e in sostegno ai curdi, Arabia saudita contro i ribelli Houthi sostenuti dall'Iran e Turchia contro i curdi, ma anche pronta a scontrarsi con i russi (suo l’abbattimento di un Sukhoi Su-24 nel 2015 nei cieli siriani).
Un assaggio di guerra totale che ha causato, sembra, mezzo milione di morti e milioni di profughi (contro la quale nessuno si è sentito in dovere di protestare), ma che alla fine non sembrava aver modificato l’assetto a egemonia iraniana che si era determinato poco dopo il crollo e la morte di Saddam Hussein.
Oggi sembra che la nuova guerra provocata da Hamas e sostenuta, per salvare la faccia, da Hezbollah e Houthi, con la prevedibile forte reazione israeliana conseguente, stia causando il collasso in sequenza di tutto l'asse sciita e dell'egemonia iraniana. Cioè di tutti gli equilibri degli ultimi vent’anni. Con conseguenze imprevedibili.
Se il regime di Assad in Siria dovesse collassare, la Russia perderebbe la sua unica base navale nel Mediterraneo e sarebbe improvvisamente tagliata fuori dal Medio Oriente e dai mari caldi, fatta salva la sua protetta, la Libia di Bengasi, che fu già fermata proprio dall’intervento turco nella sua marcia su Tripoli. E a mettere in difficoltà il regime di Damasco sembrano essere milizie islamiste sostenute, di nuovo, da Ankara.
In altri termini, a fronte del crollo del “corridoio sciita” e dell’egemonia iraniana sulla mezzaluna fertile, in seguito alla batosta subita da Hezbollah e al contenimento dell'Iran, la prima ad agire prontamente per imporre nuovi equilibri e nuove aree di influenza in sostituzione di ciò che non è più, è la Turchia di Erdogan che sembra aver deciso di impegnarsi in un primo braccio di ferro con l’odiato regime degli Assad e, conseguentemente, con la Russia.
Cosa che però potrebbe non essere gradita a Israele che si troverebbe in contatto diretto – benché per interposta persona – con la temibile potenza militare turca (che oltretutto è membro della Nato). Potrebbe essere proprio Israele alla fine a non volere il collasso del regime di Damasco e la fine della presenza russa in Siria: un cuscinetto di sicurezza potrebbe rivelarsi utile per lo stato ebraico e, dal punto di vista russo-siriano, l’eventuale copertura israeliana potrebbe essere l’unica possibilità di salvezza senza dover aprire un pericoloso confronto militare diretto o indiretto tra Ankara e Mosca distraendo quest'ultima dal gravoso impegno in Ucraina. Lo scambio di favori tra Russia e Israele non sarebbe oltretutto una novità: i russi hanno sempre lasciato, senza battere ciglio, che gli israeliani intervenissero in Siria tutte le volte ritenute necessarie per impedire il traffico di armi pesanti tra Iran e Libano.
Oltretutto l'Alleanza di Abramo potrebbe, finita la guerra a Gaza, allargarsi finalmente ai sauditi, mentre la Turchia si troverebbe di fatto "all'opposizione" di una robusta alleanza israelo-sunnita (insieme con Egitto, Giordania, Arabia saudita, Emirati eccetera) che tenderebbe a spegnere una volta per tutte la questione palestinese con il riconoscimento di un minuscolo (e demilitarizzato) Stato di Palestina, sulla traccia, probabilmente, di quanto proposto da Donald Trump nel 2020. A meno che la Turchia, proprio per non essere tagliata fuori, non cominci a sua volta a soffiare sul fuoco del revanscismo palestinese. Rischiando però grosso perché ha, a sua volta, una mai sopita questione curda dentro e fuori i suoi confini.
Per questo tenere i turchi il più lontano possibile dai confini israeliani potrebbe essere necessario per lo stato ebraico tanto quanto lo è stato cacciarne gli ayatollah. Molto meglio una inconsistente Siria sostenuta da una superpotenza grata, alla fine, dell’aiuto ricevuto in extremis piuttosto che un incontrollabile e irascibile vicino che più di una volta ha dato prova di sostenere Hamas nella sua politica avventuristica.