martedì 17 agosto 2021 - Phastidio

Nuovi ammortizzatori sociali, chi paga?

Le linee guida di una attesa e necessaria riforma non ne quantificano il costo. Il rischio aggiuntivo è ingessare l'economia

 

Lunedì 9 agosto il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha presentato alle parti sociali i principi guida della attesa riforma degli ammortizzatori sociali. Il ministro segnala che la riforma sarà improntata al principio detto dell'”universalismo differenziato”, cioè una rete di protezione praticamente per tutti i lavoratori, dipendenti e autonomi, variabile in funzione delle dimensioni d’impresa. Tutto molto condivisibile, in astratto, ma come sempre il diavolo è nei dettagli. Soprattutto uno.

La cassa integrazione ordinaria viene estesa anche alle aziende oggi escluse, quella straordinaria raggiungerà anche chi ora non ne beneficia e vedrà due nuove fattispecie: la “prospettata cessazione dell’attività” e la “liquidazione giudiziale”. Impossibile non vedere, soprattutto nella prima, la cristallizzazione di quanto già oggi accade dopo gli annunci di chiusura di impianti e sedi da parte di alcune aziende, nelle more della solitamente elusiva “reindustrializzazione”, che di solito è un calcio alla lattina e ai contribuenti.

Basterà quindi questa situazione per avviare la procedura di cigs, nelle durate definite dalla riforma. Il rischio di questa misura è quello di restare bloccati attendendo Godot e la reindustrializzazione, con abituali oneri per il bilancio pubblico.

Nuova spremitura per la fiscalità generale?

fondi di solidarietà bilaterali saranno estesi anche alle piccolissime imprese, quelle che occupano da 1 a 5 dipendenti, e la contribuzione sarà prerequisito al rilascio del Durc per la partecipazione alle gare pubbliche.

Qui la domanda sorge spontanea: siamo certi di voler appesantire il costo del lavoro delle microimprese con la contribuzione così creata? Ovviamente, non lo siamo affatto. E infatti, già girano voci di un rilevante onere, per il primo triennio della riforma, indicato a 7-8 miliardi di euro e da porre a carico della leggendaria fiscalità generale, cioè di chi, in questo paese, paga le tasse, volente o nolente.

Ancora una volta, il rischio è quello di creare oneri di sistema nel tentativo di prolungare il rapporto di lavoro e ritardare l’accesso alla condizione di disoccupato e ai relativi istituti. Peraltro, in una logica assicurativa, pare sia prevista una riduzione della contribuzione per le aziende che non ricorrono alla cassa integrazione.

Che va benissimo, nella misura in cui nell’economia ci sono contemporaneamente settori in espansione e altri in recessione. Ma, quando la recessione settoriale o aziendale diventa declino irreversibile, il rischio resta quello di ingessare l’economia e ritardare la reimmissione al lavoro, oltre a richiedere più soldi dei contribuenti per tenere in equilibrio il sistema.

A questo proposito, sarà dirimente la quantificazione della durata massima di accesso nel cosiddetto “periodo mobile”. Ad esempio, in una precedente bozza della riforma, si prevedevano 12 mesi di cigo e cigs nel quinquennio mobile per le imprese sino a 15 dipendenti, 30 mesi per le aziende industriali e artigiane di edilizia e affini e 24 mesi per tutte le altre. Intanto, è scontato che l’avvio della riforma porterà con sé un bel reset-giubileo del periodo mobile.

Quando il lavoro non c’è (più)

Questo per quanto riguarda gli ammortizzatori nella fase in cui il lavoro “c’è”, o almeno ci si convince che ci sia ancora. Sarà dirimente non ingannarsi su questo aspetto, perché tutte le risorse legate a questa fase sono di fatto sottratte a quella in cui il lavoro non c’è davvero, tipicamente la Naspi.

Qui la riforma prevede, almeno nelle sue assai generali linee guida, prive di quantificazione degli oneri, un allentamento delle rigidità di accesso e fruizione dell’indennità di disoccupazione. Ad esempio, si prevede che il cosiddetto décalage (o phase-out, se siete anglofili e non francofili) della Naspi, cioè l’avvio del processo di progressiva riduzione dell’assegno, oggi pari al 3% mensile, decorra non più dal quarto mese di percezione dell’indennità ma successivamente. Secondo alcune fonti dal sesto mese ma non c’è ancora certezza, al momento.

La riduzione non dovrebbe interessare i soggetti a maggior difficoltà di reinserimento nel lavoro, identificati negli over 55. Qui, visto che la fine della Naspi diverrebbe un tragico gradone o più propriamente una rupe, è facile ipotizzare deroghe su deroghe e nei fatti uno scivolo lungo verso la pensione. Al netto della non rioccupabilità di alcuni, il rischio è quello di creare forti incentivi all’inattività precoce.

È prevista poi l’attenuazione dei requisiti soggettivi di accesso alla Naspi: sarebbe (si dice) eliminato il requisito delle 30 giornate di lavoro negli ultimi 12 mesi, pur mantenendo quello delle 13 settimane negli ultimi quattro anni.

Ovviamente, questi ammortizzatori rinnovati sono o dovrebbero essere posti al servizio delle politiche attive, auspicabilmente meglio di quanto non sia stato fatto con l’equivoco chiamato reddito di cittadinanza. Pare, infatti, che sia prevista l’estensione del misterioso programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori), di fatto una sorta di Garanzia giovani per meno giovani, mai partito, a favore anche dei lavoratori delle aziende in cigs per prospettata cessazione, indirizzandoli ai fabbisogni formativi del territorio.

Quanto costa un sistema sbilenco nei decenni

Anche qui: ottimi e razionali intenti ma grande incognita nella loro applicazione operativa. Non basta dire “facciamo formazione”; chi dice il contrario è in malafede, non sa di cosa parla o probabilmente non ha mai lavorato e letto troppi libri sui massimi sistemi socio-economici.

Bene, almeno in linea di principio, la previsione di tutele per i lavoratori autonomi. Forse è la volta buona che si comprenderà che moltissimi di loro non sono “evasori fiscali” ma vittime necessarie e necessitate di un sistema che prevede ancora saldamente un nucleo di insider tutelati, in via di restringimento per esaustione biologica e sotto i colpi della realtà, e una crescente fascia di outsider flessibilizzati a sangue, per permettere a politica e sindacato di poter sentenziare, nelle occasioni ufficiali, che “c’è ancora moltissimo da fare per combattere il precariato”.

Come detto, il rischio più grande è duplice ma in realtà sono le due facce della stessa medaglia: irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro e incentivare inattività e sommerso. Quanto all’onerosità, sulla fiscalità generale pende l’ennesima spada di Damocle. Sono cose che accadono in paesi che da sempre hanno un welfare sbilenco e ferocemente iniquo, dove ad esempio conta solo la spesa pensionistica o quasi, e dove alla fine si comprende che senza interventi si rischia una catastrofica esplosione sociale. Salvo scoprire che non ci sono risorse fiscali. Il tappeto, sotto cui si è spinta la polvere di decenni, ci rovina addosso.




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