giovedì 6 aprile 2017 - Pressenza - International Press Agency

Nonunadimeno: vogliamo sradicare la violenza di genere e ribaltare il mondo

​Nato in Italia, di fatto, con la grande manifestazione del 26 novembre a Roma, il movimento di Nonunadimeno ha lanciato lo sciopero dell’8 marzo e ora si prepara alla prossima assemblea nazionale, prevista per il 22-23 aprile a Roma. In quella sede porterà avanti il lavoro degli 8 tavoli tematici che confluiranno nella predisposizione di un Piano Nazionale. Ecco quali sono:

di Anna Polo Matilde Mirabella

  1. La narrazione della violenza attraverso i media: come immaginarne un ribaltamento
  2. Educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità: la formazione come strumento di prevenzione e contrasto alla violenza di genere
  3. Diritto alla salute, libertà di scelta, autodeterminazione in ambito sessuale e riproduttivo
  4. Piano legislativo e giuridico
  5. Percorsi di fuoriuscita dalla violenza e processi di autonomia
  6. Femminismi e migrazioni
  7. Lavoro e accesso al welfare
  8. Sessismo nei movimenti

Nell’intervista che segue, Marie Moise ci parla del Movimento, delle sue proposte e della sua esperienza, con entusiasmo e determinazione.

Marie, vuoi presentarti?

Faccio fa parte dell’Assemblea cittadina milanese come Collettivo Femminista Gramigna, un collettivo nato quest’anno e che si trova all’interno dello Spazio Remake, uno spazio autogestito ad Affori. Sono parecchio attiva nell’Assemblea, dove ci siamo dati un po’ di ruoli organizzativi. Io ne ricopro alcuni, inoltre coordino e seguo il tavolo Femminismo e Migrazioni. Ci siamo suddivise negli 8 tavoli di lavoro tematico per raccordarci con il lavoro nazionale di Nonunadimeno. Come collettivo abbiamo fatto molto lavoro sul piano educativo, siamo andati nelle scuole per parlare di violenza sulle donne nelle classi e nelle assemblee di istituto e di educazione alla sessualità e didattica femminista, che è un po’ il tema del tavolo educazione. Ora come collettivo, da quando esiste Nonunadimeno, ci stiamo avvicinando alle problematiche dei centri anti-violenza, che sono al centro di questo movimento. Anche perché, a forza di andare nei posti di lavoro, nelle scuole, un sacco di persone si sono rivolte a noi per chiedere aiuto sui loro problemi personali. Senza prevederlo ci siamo trovate all’interno della dinamica e quindi stiamo cercando di capire, di formarci, per non improvvisare, di conoscere bene la realtà dei centri anti-violenza e lavorare efficacemente.

Il movimento nasce nel 2015 in Argentina e poi si diffonde prima in Sudamerica e poi in tutto il resto del mondo. Come è avvenuta questa diffusione e come è organizzato?

Anche se in modo frammentato il movimento femminista, prima che esistesse Nonunadimeno, aveva le antenne dritte rispetto a quello che stava accadendo in Argentina. Il lancio per arrivare qui è passato da Roma: nell’estate 2016, in seguito all’ennesimo femminicidio – una ragazza bruciata viva dal compagno – si è tenuta una fiaccolata nelle periferie romane per ricordarla, a cui hanno partecipato anche tante ragazze e tante femministe. Alla fine di quella fiaccolata si sono trovate a un tavolo in una sparuta decina e si sono dette: “Non possiamo limitarci a una fiaccolata di solidarietà”. Così hanno provato a convocare una manifestazione su questo tema (quella del 26 novembre sulla violenza verso le donne) e la risposta è stata grande. A quel punto era chiaro che l’interesse c’era. Da lì si è cominciato a ragionare per trovare un percorso e da lì sono partiti i tavoli tematici, organizzati proprio per evitare che ci fosse solo una manifestazione che poi cadeva nel nulla. Piano piano a Roma la rete si è allargata, in special modo sulle questioni concrete dei centri anti-violenza, che hanno chiesto una mano perché ne stanno chiudendo tantissimi. La giunta Raggi ha sfrattato un centro anti-violenza che porta il nome di una ragazza argentina, “Marie Anne Erize” di Tor Bella Monaca. Sono state proprio le donne dei centri anti-violenza a inaugurare la piazza non appena la Raggi è stata eletta. Lei all’inizio ha espresso apertura, a cui poi però non sono seguite azioni.

Nonunadimeno ha qualche relazione con la Women’s March?

Sì, assolutamente. In generale, tutti i 59 paesi che hanno scioperato l’8 marzo sono connessi tramite mailing list e skype, Stati Uniti compresi, ossia il movimento Women’s March, che è formato da un’eterogeneità di soggetti. Mi risulta, anche se non sono all’interno di quel coordinamento, che la parte che sta dentro il Coordinamento nazionale sia quella un po’ più radicale e autonoma, completamente slegata dai vari partiti. Non è ancora ufficiale ma lo sarà presto: il movimento delle donne statunitense lancerà uno sciopero per il 1° maggio con un appello anche agli altri paesi. Sarà uno sciopero sul tema dei migranti, ma il movimento delle donne ha deciso di aderire e di sostenerlo. Siamo connesse così: dall’Italia sono in due o tre a seguire questa cosa.

Durante un intervento di presentazione dello sciopero dell’8 marzo dicevi che sono fallite, oltre alle politiche dei governi, anche le politiche dal basso. Puoi spiegare meglio cosa intendevi?

Provavo a fare un po’ di autocritica. Non ho cominciato a fare l’attivista con Nonunadimeno, l’ho fatto con i rifugiati, con il sindacato, sono esperienze che ho visto da vicino: mi sembra che in Italia, in particolare da quando è iniziata la crisi economica, chiunque abbia provato a dare qualche tipo di risposta a delle cattive politiche, abbia fallito. Certo, l’analisi andrebbe fatta soggetto per soggetto in modo diverso: i movimenti sociali, quelli ambientali, gli anti-razzisti sono una cosa, la CGIL è un’altra cosa ancora, ma io sarei per fare autocritica a tutti i livelli.

Penso che Nonunadimeno dia davvero una risposta a tutto questo, i tavoli tematici toccano tantissimi punti. Una stessa persona può essere coinvolta in diversi temi, ogni volta bisogna fare una scelta, ma è anche bello sentirsi parte di diverse questioni insieme. Anche questo è uno degli obiettivi di Nonunadimeno, perché è un movimento femminista, ma femminismo vuol dire tante cose. Questo femminismo vuole uscire da un approccio identitario, dal rivolgersi solo a chi è biologicamente donna, come se bisognasse ritornare a recuperare una “natura donna” all’origine di tutto. Sono forse premesse di un femminismo passato, che aveva senso 40 anni fa e da cui ereditiamo tantissima carica e voglia di fare, ma rispetto all’analisi del mondo e a come pensare di cambiarlo oggi non è sufficiente, anzi, è escludente. Basta pensare a una persona LGBT, o trans: tutta una serie di ragionamenti cadono. Proviamo a tenere insieme tante cose, ma a partire dalla consapevolezza e dal ragionamento che poi, a seconda del proprio posizionamento sociale, essere donna significa cose molto diverse. Allora abbiamo bisogno quanto meno di 8 punti per declinare tutto questo! Volendo il ventaglio sarebbe anche più ampio, ma si sono scelti questi 8 punti con un po’ di strategia, perché vogliamo essere inclusivi e non divisivi allo stesso tempo. Cioè: lo sappiamo che ci sono delle tematiche che rischierebbero di alimentare contrapposizioni e non unità, è parte del lavoro anche riuscire a creare un po’ di unità, non è scontata. Si sono scelti questi 8 punti e non altro con l’idea che potessero essere discussioni intorno a cui mettere più persone possibile.

Come valuti la manifestazione dell’8 marzo?

Abbiamo fatto una valutazione proprio domenica scorsa. Per prima cosa abbiamo sentito il bisogno di dirci “brave” perché è stata una fatica incredibile e per noi un risultato veramente enorme per una cosa nata da così poco tempo. Il 26 novembre, quando siamo scese tutte a Roma, Nonunadimeno Milano non esisteva ancora. Il lavoro iniziato sulla città è un lavoro di 3 mesi. In Islanda, quando hanno fatto il loro sciopero, ci hanno messo 6 mesi a organizzarlo e sono 350 mila abitanti in tutto. Quindi siamo contente dalla giornata a partire da come e con chi l’abbiamo vissuta.

Spesso la gente ci chiede come mai questo sciopero abbia avuto successo ed effettivamente abbiamo riconosciuto che il fatto che venisse lanciato a livello internazionale – dall’Argentina, poi dagli Stati Uniti – ci rafforzava moltissimo.

Tra gli obiettivi c’era quello di far passare tantissimi contenuti, vista la piattaforma, e siamo abbastanza soddisfatte del lavoro fatto. Certo, l’organizzazione ha avuto i suoi buchi. Il limite organizzativo, ma non solo, è che avremmo voluto informare molte più persone di quanto non siamo riuscite a fare. E’ vero che sono passate migliaia di persone, sia la mattina che la sera, però è vero anche che in certe zone di Milano neanche lo si sapeva. Questa è proprio una lotta difficile. Il primo problema è che non abbiamo degli organi mediatici dalla nostra parte. In compenso però il giorno dopo l’8 marzo diversi media hanno “dovuto” parlare dello sciopero; fino al giorno prima non ne parlava nessuno, ma il giorno dopo ne parlavano tutti. L’editoriale di Dario Di Vico del Corriere della Sera diceva che l’8 marzo era stato un errore: è stata un po’ la risposta che diversi personaggi illustri, di potere, hanno dato. Cioè, “assolutamente la questione della violenza sulle donne è importante, ma… lo strumento dello sciopero non lo condivido e per questo non lo appoggerò”. Su questa cosa dello sciopero si sono giocate conflittualità che precedono Nonunadimeno, politiche più grosse di noi. Ma sapevamo che convocare uno sciopero da una parte era qualcosa di nuovo – quindi giocavamo sulla novità – e dall’altra avrebbe aperto delle contraddizioni.

L’altra cosa che emergeva dal dibattito è che con questa giornata per la prima volta abbiamo fatto scioperare tantissime persone. Abbiamo avuto la posta di facebook e le mail, sia a livello locale che nazionale, intasate di messaggi che chiedevano: “Come si fa a scioperare?”, “Ma se non sono iscritta a un sindacato posso scioperare lo stesso?”, “Devo avvisare il mio capo?” Tant’è che sul sito c’erano tutte le istruzioni, ma è stata la necessità di dare risposte che ci ha spinto. Io ho 29 anni: la mia generazione e tutti quelli più giovani di me si trovano in condizioni di lavoro in cui lo sciopero neanche esiste e quindi hanno usato forme simboliche: io per esempio ho fatto lo sciopero delle e-mail, ma ho scioperato per la prima volta in vita mia! Mia nonna il 7 marzo mi ha chiamato e mi ha detto: “Io domani non faccio la spesa!” e il mio compagno si è messo l’accessorio fucsia per tutto il giorno, la spilletta dello sciopero femminista: lui fa parte di una di quelle categorie che non potevano scioperare ma si è comunque sottratto al lavoro andando a donare il sangue, che è una delle modalità per poter avere la giornata libera.

A che punto è il lavoro sui tavoli tematici e sul Piano nazionale anti-violenza, anche in vista della prossima riunione di aprile?

Il 22 e 23 aprile ci si ritroverà a Roma, ci si dividerà nei tavoli tematici di discussione nazionali e da ogni tavolo si avanzerà sulla scrittura del piano. Domenica scorsa abbiamo nominato una referente per tavolo, che ha presentato il lavoro fatto finora. Proprio settimana prossima inizieremo a ritrovarci e il 12 aprile metteremo insieme tutto per riportarlo a Roma. Altrove non funziona così, noi a Milano abbiamo scelto di fare un lavoro di condivisione dei tavoli perché l’idea è quella, da un lato, di lavorare sulla scrittura del piano, e dall’altro di avere l’occasione per riflettere sulla situazione milanese. Quindi il tavolo sulla salute, per esempio, discuterà del tema generale, ma anche della legge regionale che consente l’obiezione di coscienza, per capire se intervenire anche localmente.

Vogliamo fare delle proposte il più concrete possibili, prendere il testo della legge “X” e dire perché deve essere cambiato e come. Nel caso della 194, per esempio, si tratta di abolire l’articolo che consente l’obiezione di coscienza. Altrove si parla invece di leggi inesistenti e allora le si propone, ad esempio per garantire l’educazione al genere e alla sessualità, una didattica, ecc. Noi vogliamo che questo piano venga approvato. Il governo ci ha già contattato, ci ha chiesto un colloquio per parlarne. Sarà una discussione politica da fare tra di noi a livello nazionale prima di decidere come agire: l’idea è quella di presentarlo al governo ma c’è un’ampia possibilità di modalità su come avere questo colloquio. La data sarà stabilita in base al lavoro che faremo, ma non credo che andrà oltre giugno. Questo è uno degli obiettivi della prossima riunione di aprile.

Sicuramente tutti i tavoli hanno avuto bisogno di procedere con l’analisi, però erano già connessi a delle proposte molto concrete. A Bologna c’era da fare un lavoro per il piano, ma anche per lanciare l’8 marzo, per cui ogni tavolo aveva stilato una frase sintetica che riassumesse concretamente qual era l’obiettivo di quel tavolo. A titolo di esempio, io ho lavorato al tavolo ‘femminismo e immigrazione’ e l’obiettivo di quel tavolo era “garantire un permesso di soggiorno a tutte le persone migranti e nello specifico fare in modo che le donne migranti non debbano dipendere dai mariti”. Lo spiego meglio: quando le donne migranti ottengono il permesso di soggiorno, se sono sposate lo Stato dà per scontato che sia il marito a mantenerle, per cui se divorziano, devono dimostrare di essere autonome economicamente, cosa praticamente impossibile per la maggior parte di loro, visto che lavorano in nero. Poi anche questa idea… le donne migranti lavorano sia prima che dopo un eventuale divorzio e hanno un’autonomia economica anche prima, però la questione si pone solo dopo il divorzio e molte rischiano il permesso di soggiorno. Quindi significa che non divorziano, che se hanno un marito violento se lo devono tenere. Questo è uno dei punti concreti, ad esempio, su cui sto lavorando io.

Cosa ti ha spinto a partecipare al movimento?

Io faccio attivismo femminista da almeno 5 anni e non vedevo l’ora che iniziasse un movimento del genere! Nel senso che fino ad ora abbiamo fatto più un lavoro di diffusione di contenuti e micro-lotte. Non sapevo che saremmo state una goccia nell’oceano! In particolare mi sono avvicinata a Nonunadimeno sì da attivista femminista – quale già ero – ma anche da donna che ha subito violenza, come ognuna di noi in forme diverse, quindi davvero con l’esigenza che quel vissuto potesse essere condiviso, che non fosse più una cosa segreta, da accettare passivamente. Ero superfelice quando è nata questa organizzazione.

La violenza e la discriminazione toccano tutti, in un modo o in un altro, non solo le donne. Come si pone il movimento rispetto a questo tema? Il collegamento tra il gay e l’immigrato, la donna e il precario, è importante, altrimenti il rischio è che ognuno faccia la propria lotta. C’è questa ampiezza come interesse, meglio ancora se nella pratica?

Questo volevo dire quando parlavo di superamento del femminismo identitario: la lotta femminista per noi non è la lotta personale, “le donne”, e del resto del mondo non ce ne frega niente. La parola tecnica è “femminismo intersezionale”, nel senso che ragioniamo sul fatto che ognuno di noi sta all’intersezione di diverse oppressioni. Dire che io sono oppressa come donna non è sufficiente, perché io sono anche una precaria, sono anche figlia di rifugiati, ecc. Tutte queste cose costruiscono la mia situazione di difficoltà, di discriminazione. Scelgo un tavolo tematico per una questione pratica, ma non posso scegliere se sono più questo o più quell’altro: sono tutte queste cose insieme. La lotta femminista per me è capire tutte quelle lotte che andrebbero ad annullare le asimmetrie di potere, ma davvero tutte. A Roma, poco prima dell’8 marzo, c’è stato un corteo molto importante dei lavoratori e delle lavoratrici di Almaviva – 1.600 licenziati – e Nonunadimeno ha partecipato, a maggior ragione perché c’erano molte donne, ma non solo per quello. A Milano abbiamo portato in manifestazione i richiedenti asilo del centro di Bresso, che è un posto allucinante. Al momento noi siamo in contatto solo con gruppo di uomini, perché nei centri di accoglienza è difficilissimo riuscire a parlare con le donne. Ma non è che se in questo momento abbiamo a che fare con un gruppo di uomini, allora non è una lotta femminista. Poi ovviamente, all’interno di questa lotta, sentiamo il bisogno di visibilizzare cosa vuol dire essere una donna migrante.

E’ assolutamente necessario congiungersi con le altre lotte. Subito dopo l’8 marzo ci sono state altre due manifestazioni più piccole, più simboliche, di solidarietà con le donne argentine, represse duramente durante la manifestazione dell’8 marzo: ci sono stati degli arresti di massa, soprattutto delle organizzatrici dello sciopero. Sempre l’8 marzo, in Guatemala, si è verificato un episodio agghiacciante in una casa dove venivano, teoricamente, protette e ospitate delle ragazzine orfane o abusate. E’ scoppiato un incendio, loro erano chiuse dentro e sono morte bruciate in 43. Le poche sopravvissute hanno raccontato che in realtà già lì dentro continuavano a subire abusi, alcune erano incinte. Dopo questi due casi siamo scese in piazza per una protesta simbolica già due giorni dopo l’8 marzo e poi settimana scorsa.

Progetti per il futuro?

Beh, a medio termine, il 22 e 23 aprile a Roma. Lì dobbiamo discutere come rilanciare. La mia sensazione è che torneremo in piazza il 26 novembre prossimo, però l’obiettivo del piano è prioritario: concluderlo e fare una battaglia perché venga preso in considerazione. A Milano stiamo cercando di capire alcune cose e provare a intervenire. Per esempio, nel Lazio, Nonunadimeno Roma è riuscita a ottenere un colloquio con il Dipartimento Sanità della Regione per discutere della normativa regionale. Vorremmo attivarci rispetto ad alcune questioni problematiche relative alle normative regionali, sicuramente sulla questione del finanziamento ai centri anti-violenza. Poi a lungo temine, sradicare la violenza di genere e ribaltare il mondo!

C’è da dire che a Milano una relazione un po’ problematica è quella con il movimento LGBT. Ci aspettavamo una partecipazione diversa. Conosciamo gli esponenti più importanti, li abbiamo visti in corteo, però ci sono state poche adesioni. Nell’Assemblea non hanno un ruolo, Arcilesbica viene ma la partecipazione è silenziosa. Alcune ragazze di Arcigay gruppo donna sono molto attive, Arcigay invece pochissimo. Quel pezzo lì è effettivamente un po’ faticoso. Poi sono i primi, sulla questione migranti, ad essersi attivati, per cui su alcune connessioni ci sono di più, ma rispetto a questo movimento siamo ancora lì che aspettiamo. A Bologna invece non è la stessa cosa, lì la maggior parte dei lavori si fanno al Cassero che è la sede di Arcigay, quindi la situazione cambia a seconda della città. A Milano uno dei progetti per il futuro potrebbe essere sbloccare questa cosa, che sento assolutamente necessaria.




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