martedì 3 aprile 2018 - Aldo Giannuli

Non esiste Siria senza Assad?

Da diverse settimane la guerra in Siria è entrata nella sua seconda fase. Guerra civile, guerra per procura tra potenze, “guerra mondiale a pezzi” per usare le parole di Papa Francesco, quella che ha sconvolto la Siria è una tempesta che rappresenta in maniera completa il conflitto dell’era della globalizzazione: devastante nonostante la completa asimmetria e liquidità che porta a una difficile definizione degli schieramenti in campo. 

di Andrea Muratore

Lo smantellamento dell’entità parastatale dell’ISIS ha di fatto liberato il genio intrappolato nella lampadata, dato che il disarticolamento del Califfato ha portato con sé la fine dell’alibi che numerose parti in causa usavano per legittimare il loro coinvolgimento (sono state sedici, come riporta Fulvio Scaglione, le potenze straniere che hanno operato militarmente in suolo siriano dal 2011 ad oggi).

La guerra in Siria, ora, conosce una svolta cruciale e repentina dovuta proprio alla fine della minaccia portata dall’ISIS sul terreno all’unità del Paese: venuto meno il sedicente Stato Islamico, prende campo la vera partita e, soprattutto, vengono al pettine i nodi accumulatisi dal 2011 a oggi. Primo fra tutti, il nodo dell’ipocrisia dei governi occidentali e dei sistemi mediatici nostrani che hanno costruito la narrazione dei cosiddetti “ribelli moderati” per giustificare l’insurrezione dei gruppi del cosiddetto Esercito Siriano Libero, in larga parte egemonizzati da formazioni jihadiste quali quelle che hanno portato avanti il “lavoro sporco” per la Turchia di Erdogan nel cantone curdo di Afrin, ipocrisia smascherata da Tim Anderson nel suo magistrale saggio La sporca guerra contro la Siria. 

In secondo luogo, la stessa questione dei curdi del Rojava, trovatisi a ricoprire, al tempo stesso, il ruolo di baluardo anti-ISIS e “fanteria” della coalizioe occidentale ma, al tempo stesso, destinati per necessità a trovare un modus vivendi con il governo centrale di Damasco, la cui sovranità non è stata da questi mai disconosciuta. Terzo, e più importante, punto è la discussione sul futuro assetto del Paese, del quale si può e si deve necessariamente discutere anche in una fase in cui, con gli intensi combattimenti ad Afrin e nella Ghuouta ancora in corso, la pace per il martoriato Paese mediorientale appare quanto mai lontana.

In questa discussione, appare oggi più che mai centrale un dato di fatto innegabile: nel futuro della Siria Bashar al-Assad sarà chiamato a ricoprire un ruolo fondamentale e, anzi, allo stato attuale delle cose non si può pensare ad una Siria senza Assad. Quel che proponiamo è un ragionamento frutto di una decisa consapevolezza sui fatti siriani e, soprattutto, sull’andamento delle dinamiche sociali e politiche di un Paese che nei prossimi anni sarà costretto a ricostruire sé stesso, dato che l’entità incalcolabile dei danni subiti sul piano materiale è solo una frazione delle enormi macerie morali che gravano su una popolazione in larga misura costretta a diventare esule, sia all’interno che all’esterno del suo Stato. Assad ha saputo dare sul campo la risposta più netta e decisa alla brutale deviazione delle proteste del 2011, degenerate da rivendicazioni legittime in manifestazioni eversive dopo l’intervento di Paesi esterni come Turchia, Arabia Saudita e Qatar, e mandato a più riprese messaggi non indifferenti di unità nazionale.

Significative ed emblematiche restano le parole di Assad in un’intervista a Matteo Carnieletto de Il Giornale del dicembre 2016: parlando dei migranti siriani che stavano raggiungendo in massa l’Europa, il leader del legittimo governo di Damasco ha dichiarato che essi “vogliono tornare nella loro nazione. Tutti quanti vogliono tornare, ma poi pensano che cercano anche stabilità e sicurezza e che hanno anche bisogni di prima necessità. In questo caso non posso dire che li inviterò a tornare in Siria, perché questa è la loro terra e non hanno bisogno di un invito per ritornare. Ma quello che vorrei dire loro, in questo caso, è che i rappresentanti europei hanno creato questo problema supportando il terrorismo direttamente o indirettamente nella nostra nazione”.

Non è sotto le bandiere di Al Nusra o Ansar al-Sharia che si sono potute ammirare le immagini meravigliose di speranza richiamanti una nazione normale e unita nella convivenza, come le celebrazioni del Natale ad Aleppo poco dopo la fine della durissima battaglia nella città. Il regime di Damasco ha avuto nel clientelismo e nell’inefficienza amministrativa una grande debolezza nel periodo pre-bellico, ma non si può negare che il governo baathista ha sempre avallato l’idea di una Siria multiconfessionale, laica e abitata da una popolazione coesa etnicamente e che ad Assad bisogna riconoscere il merito di aver saputo evitare una deriva settaria del conflitto che avrebbe finito per vedere la sua minoranza alawita in netta minoranza e la comunità cristiana stritolata come vaso di coccio tra i vasi di ferro in maniera simile a quanto successo in Iraq.

Al governo di Assad, vincitore sul campo della contesa con l’ISIS e di buona parte delle sfide con i ribelli degli ultimi anni grazie al decisivo supporto russo-iraniano, bisogna dunque riconoscere la capacità di difendere un’idea di Siria, un’idea di Paese nella tempesta della guerra civile: le vicissitudini professionali e umane di combattenti come il generale druso Zahreddine, difensore di Deir-ez-Zor morto nello scorso mese di ottobre, testimoniano al tempo stesso come buona parte delle comunità etnico-religiose del Paese mediorientale riconoscano nell’attuale governo il futuro della Siria.

Riconoscere questo dato fondamentale è una premessa necessaria per comprendere le future dinamiche siriane: lungi dall’essere il bene assoluto, il governo guidato da Bashar al-Assad è tuttavia l’unica garanzia che la Siria ha per poter continuare, in futuro, ad essere un Paese sovrano e unito.

Andrea Muratore




Lasciare un commento