lunedì 12 luglio 2021 - UAAR - A ragion veduta

Nel pantano afghano rimonta la marea dei talebani

L’imminente ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, dopo vent’anni di occupazione, diventa il proscenio della sanguinosa rivalsa dei talebani. Migliaia di soldati morti tra forze locali e occidentali, decine di migliaia tra gli insorti che hanno continuano in ritirata la loro pervicace guerriglia, vittime civili che si contano a centinaia di migliaia.

Questa è l’eredità di una guerra civile mai conclusa che ha prostrato il paese: una triste riedizione in grande dello sport nazionale afghano, il buzkashi, in cui i cavalieri lottano per impossessarsi della carcassa di una capra.

Dopo la tragedia dell’11 settembre, con l’attentato delle Torri Gemelle a New York, il presidente George W. Bush, cristiano integralista e convinto di essere in missione per conto di dio, scatenò la guerra contro il regime islamista, colpevole di connivenza con il terrorista Osama bin Laden, mente della strage. Ironia della sorte, i talebani si erano imposti dopo una guerra civile tra le fazioni di mujaheddin che avevano combattuto, foraggiate proprio dagli americani, contro gli invasori sovietici. Quello rinfocolato dagli Usa si palesa come un conflitto a lungo andare insostenibile, nell’illusione di “esportare” la democrazia in un contesto caratterizzato da endemico tribalismo, profonda arretratezza sociale e radicato integralismo religioso.

Ormai quasi un anno fa sono quindi partiti a Doha i negoziati tra il governo di Kabul, i talebani e gli Stati Uniti, con i buoni uffici del governo del Qatar. Anche questo la dice lunga sull’ambiguità dei potentati arabi nei confronti dei miliziani islamisti. Come promesso da Donald Trump durante la sua presidenza, le truppe Usa si sarebbero ritirate. E sia le potenze occidentali sia il debole esecutivo afghano hanno assecondato le pretese dei talebani, sacrificando pochi avanzamenti sull’altare di una “pace” solo di facciata. D’altronde il capo politico e spirituale dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, era stato chiaro, pretendendo un “sistema islamico”.

Adesso che i marines fanno i bagagli, i nodi vengono al pettine. I talebani, mai sopiti anzi con forze rinnovate, negli ultimi mesi hanno riconquistato parte del paese. Continuano ad avanzare mentre i soldati regolari addestrati e armati dagli occidentali sono in rotta, e c’è da credere che la loro vendetta sarà feroce. Per quanto romantica, l’idea di donne miliziane che prendono le armi contro gli oppressori ha poche speranze. Intanto il paese guidato dal presidente Ashraf Ghani è al collasso, secondo gli analisti potrebbe reggere da solo al massimo un paio d’anni.

La comunità internazionale difficilmente si invischierà di nuovo in una guerra. Il nuovo presidente Joe Biden ha già detto che non manderà “un’altra generazione di americani” a morire in Afghanistan. Gli Usa si preparano già ad accogliere i rifugiati, facilitando l’esodo di categorie a rischio di rappresaglia. Se per noi occidentali democratici e moderni la morte di un individuo fa scalpore, come le migliaia di soldati tornati in bare avvolte da bandiere che diventano un peso politico insostenibile, la vita ha tutt’altro valore per miliziani che nulla hanno da perdere e che sono per di più motivati da una fanatica ideologia religiosa.

Non è nostro compito avventurarci in complesse analisi geopolitiche, o schierarci ideologicamente pro o contro gli Usa e i loro alleati. Di sicuro, in tutti questi anni non si è fatto molto per far uscire l’Afghanistan dalla condizione di “stato fallito”. A ben vedere, anche l’Afghanistan “liberato” è tutt’altro che un paese dove sono promossi diritti, libertà e laicità. Nonostante la propaganda, le pie speranze e qualche occasionale esperienza di emancipazione, la realtà dei fatti è sconfortante: oltre a una democrazia più formale che sostanziale e la concessione di libertà minime, rimane il punto dolente della libertà religiosa. Tuttora è uno degli otto paesi al mondo che prevede la pena di morte per l’apostasia dall’islam. La legislazione è fortemente confessionalista e vengono punite con severità le offese alla religione e la blasfemia. Semplicemente, quel minimo di apparato statale moderno rende l’Afghanistan odierno meno peggiore di quello dominato dai talebani.

Ma presto rischia – di nuovo – di cadere dalla padella alla brace. Il nostro rammarico va a quelle che saranno le principali vittime di questa riconquista in stile sanfedista dell’Afghanistan: donne e bambini, per non parlare degli sparuti laici e intellettuali. Di nuovo, rischia di stendersi sul paese la cappa della teocrazia islamista che soffocherà i timidi germogli di evoluzione sociale. Fino a quando ci ricorderemo, di nuovo, dell’Afghanistan. Magari quando un altro attentato farà tremare l’Occidente.

Valentino Salvatore

 




Lasciare un commento