mercoledì 4 luglio 2018 - Aldo Funicelli

Nei centri di detenzione in Libia: quello che l’Italia e l’Europa non vogliono ammettere

Non lasciamoli soli: Storie e testimonianze dall’inferno della Libia, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti

 
In Europa si discute mentre nel Mediterraneo si continua a morire – il titolo di una prima pagina de l'Avvenire è quello che meglio di altri descrive quello che sta succedendo qui vicino a noi, alla frontiera sud dell'Italia e dell'Europa, in quel Mediterraneo che separa, per poche centinaia di miglia, due continenti.
Poche centinaia di miglia che si sono trasformate in un enorme cimitero, per tutti i naufragi dei migranti che hanno affrontato quel viaggio della speranza dalle loro terre verso la civile Europa.
Le loro terre insanguinate da guerre civili, scontri tribali, azioni di terroristi. Ma anche terre affamate dai cambiamenti climatici, da governi corrotti messi in piedi per fare gli interessi delle potenze coloniali europee.
 
Mentre in Europa si discute, di hot spot, di accoglienza, di mantenere quei diritti civili di cui tanto ci riempiamo la bocca, di blocchi navali e di porti da chiudere, migliaia di persone come noi affrontano un terribile viaggio dall'Africa sub sahariana, verso il Niger, il Ciad, su verso la Libia.
Con la speranza di trovare un futuro migliore qui da noi, in Italia e in altri paesi.
Un lavoro, la possibilità di avere una famiglia.
 
Anche noi Europa siamo colpevoli di queste migrazioni di massa che pensiamo di respingere innalzando muri (come hanno fatto lungo la rotta dell'est Bulgaria e Ungheria – un paese che sta prendendo una brutta china anti democratica), respingendo i barconi, criminalizzando le ONG.
Anche noi abbiamo tante colpe nei confronti di questi paesi: fosse solo per questo, per tutte le risorse che abbiamo rubato, non possiamo ora girare la testa dall'altra parte, egoisticamente.
 
“Ma non possiamo accogliere tutti i disperati dall'Africa” è la risposta che si sente dare, dagli italiani brava gente. Qui non si tratta di accogliere un continente: ma di iniziare a pensare a questi fenomeni globali in modo diverso.
L'ultimo inutile vertice europeo sull'immigrazione si è concluso con un nulla di fatto: sull'immigrazione campano interi partiti nel vecchio continente, che speculano su clandestini, sulla paura di una invasione che non esiste, sull'equazione immigrati = terroristi oppure criminali.
Dalla Lega del ministro Salvini al M5S di Di Maio (che coniò l'espressione “taxi del mare” per le ONG che andavano a salvare i migranti in difficoltà), alla Le Pen in Francia, in Germania c'è la AFD fino all'Ungheria di Orban.
 
Quest'Europa egoista che si fa spaventare dagli immigrati si sta consegnando mani e piedi ai partiti dell'estrema destra: è un Europa dove si devono rispettare i vincoli di bilancio ma non i diritti civili.
Dove l'Italia e la Grecia sono lasciate sole a gestire gli arrivi di disperati, perché i paesi più prossimi ai porti di partenza (se si esclude Malta, un'isola troppo piccola per gestire tutti gli arrivi).
 
Il libro dei giornalisti Francesco Viviano e Alessandra Ziniti ci racconta tutto quello che sta succedendo qui, ai nostri confini, anche qui in Italia.
A Lampedusa, la cui storia è raccontata dall'ex sindaco Nicolini nella prefazione: il fatto che non sia stata più eletta sindaco (con colpe anche del suo partito, il PD) è frutto di questo nuovo corso politico.
Dove si criminalizzano gli ultimi, dove si criminalizza la solidarietà, il farsi prossimo, l'essere “buono”.
 
Anziché pensare e riflettere su quello che sta succedendo in Africa, per quelle guerre spesso alimentate dalle nostre democrazie, per i cambiamenti climatici, si è preferito criminalizzare le missioni di soccorso come Mare Nostrum (voluta dal governo Letta nel 2013 dopo il naufragio di ottobre 2013), le ONG, “che a un certo punto erano diventate l’unico ostacolo alla legittimazione dei «respingimenti»”.
ONG accusate di di costituire un pull factor, un fattore di attrazione in grado di calamitare i gommoni e i barconi del Mediterraneo.
 
Scrive Giusi Nicolini:
“il messaggio trasmesso ai giovani, che invece dovrebbero essere sensibilizzati alla cultura della sacralità della vita e dei diritti, dei valori del volontariato, della cittadinanza attiva, della pratica del principio di solidarietà, necessaria a costruire legami e ad abbattere barriere di ogni genere”.
Anziché aiutare, anziché accogliere, anziché creare un ponte (umanitario) coi paesi africani, si è preferito arroccarsi in difesa.
“180.000 arrivi nel 2016, 119.000 un anno dopo, con una flessione del 35 per cento che oggi arriva addirittura al 70, considerata la diminuzione degli arrivi nel primo bimestre del 2018 e il loro quasi azzeramento nelle settimane prima del voto. Questo il risultato della strategia del ministro dell’Interno Marco Minniti”
 
Si sbandierano come se fossero numero di cui andare fieri, i dati sul calo degli sbarchi, sia da destra che da sinistra. Ma qual è il prezzo di questo calo degli sbarchi, dopo le decisioni politiche del goveno Minniti (centro sinistra)? Il numero dei morti nel Mediterraneo non è calato, gli sbarchi continuano, perché la Libia sa che con questi barconi può mettere sotto pressione i governi europei per chiedere altri soldi.
 
E c'è poi la vergogna dei campi di detenzione in Libia. Gli autori di questo libro non ci hanno risparmiato nulla delle violenze, dei soprusi, delle torture, dei delitti che accadono in quei centri che chiamiamo hotspot ma che sarebbe più opportuno definire lager.
Ecco: il presente volume serve proprio a questo. A costruire conoscenze e consapevolezze che facciano indignare sempre più persone per la sorte riservata a coloro che fuggono da guerre, persecuzioni e miserie. Costretti a divenire merce nelle mani dei criminali e condannati a morire in mare o a essere salvati, solo per essere riconsegnati ai libici e ricondotti nelle prigioni in cui le donne vengono stuprate e gli uomini torturati o venduti all'asta come schiavi.Tutto questo deve aver fine, al più presto.
 
Sono storie che fanno accapponare la pelle, che fanno tornare alla memoria storie già sentite, sui campi di concentramento nazisti nell'est europeo. Lontano dai bravi cittadini tedeschi che non dovevano farsi troppe domande su che fine avessero fatto le famiglie ebree.
E lo stesso oggi: non ci siamo domandati che fine avessero fatto le persone, donne, bambini, uomini partiti dalla Nigeria, dall'Eritrea, dal Sudan che non sono arrivati qui.
 
La verità sui centri di detenzione in Libia
 
Le storie raccolte dai giornalisti dovrebbero non solo indignare i politici che hanno sottoscritto gli accordi con i governi e le milizie libiche, ma dovrebbero anche portare al loro annullamento.
Le torture di “Rambo” nel «ghetto» del generale Alì a Sabha, sono le stesse che Wiesenthal raccoglieva nel suo libro “Giustizia, non vendetta”, riportando le violenze degli aguzzini dei lager nazisti.
Nel campo di Sabha finiscono tutti i disperati che i trafficanti di esseri umani raccolgono lungo le strade dei migranti, persone che vengono illuse di essere portare a Tripoli, al porto, per un viaggio verso l'Europa.
E che invece vengono consegnate a Rambo, che poi si chiama John Ogais: la tortura è la normalità, e le grida per il dolore vengono fatte sentire ai familiari per convincerli a mandare loro altri soldi.
Botte sui piedi, cavi elettrici attaccati al corpo, mentre il disgraziato chiede pietà.
Ma non c'è pietà. Rambo continua fino alla fine, per mostrare a tutti cosa è capace.Poi punta la pistola alla tempia di quello che ha osato chiamarlo «fratello» e gli porge un cellulare: «Ora chiama a casa, non dire nulla, di’ solo che ti mandino subito altri soldi se non vuoi fare la stessa fine».Di giorno uccide, di notte stupra, come si conviene ai colonnelli del ghetto.
 
E questo il vero business dei libici, non più i viaggi della disperazione sui gommoni: spremere i migranti fino a che hanno soldi, per poi ucciderli o venderli all'asta come schiavi, come Samir e Abbas, o Mohamed o Amhed o Jihail (e anche qui, le immagini della CNN delle aste, che reazione hanno portato sulla nostra classe dirigente?).
Qualcuno alla fine riesce anche a scappare, come Segen, un ragazzo eritreo di 22 anni, ritrovato dalla nave spagnola di Open Arms: pesava trentacinque chili quando l'hanno recuperato. È morto pochi giorni dopo, di fame. Morire di fame nel 2018.
 
Ahmed invece è stato più fortunato: non l'hanno ucciso nel campo, ma l'hanno costretto a fare il becchino “per riempire quelle enormi fosse comuni che si nascondono sotto le dune di sabbia”.
Oggi quelle morti non lo hanno abbandonato:
 
“La notte non dormo, faccio degli incubi, mi sveglio sudato, pensando a tutti quei morti. Ne ho raccolti quasi tremila in questi tre anni, dal 2014 fino a qualche giorno
L'altro business è quello delle baby prostitute, da usare come merce umana nei campi, da mandare a lavorare poi sulle strade delle città europee.
Ragazze stuprate da mostri come Osman il macellaio che si riteneva il «Dio» di Bani Walid: «Io non sono somalo, non sono musulmano. Io sono il tuo Dio, sono il tuo padrone.»
 
Herina è una di queste donne, che ha pagato la sua libertà e un gommone verso l'Italia con cinque mesi di violenze.
Ma Herina è una donna forte: quando a Milano si ritrova davanti il suo carceriere, Matamud, non ha dubbi e va a denunciarlo alla polizia.
Le testimonianze raccolte nel processo al “macellaio” hanno portato poi alla sua condanna: un processo di cui si è parlato poco, forse perché disturbava lo storytelling del governo (quello che sbandierava gli effetti benefici degli accordi con la Libia).
 
Il procuratore aggiunto Ilda Boccassini non è certo un magistrato di primo pelo; eppure, alla lettura delle carte dell’inchiesta condotta dal collega Marcello Tatangelo, ammette: «In quarant’anni di carriera non ho mai visto niente di simile».
L'organizzazione umanitaria Save the Children, nel suo ultimo dossier racconta di un giro d’affari da 32 miliardi di dollari dietro le “schiave del sesso”. Ragazze come Maryam, che voleva fare il medico o come Osedayne che ha impiegato mesi ad aprirsi ai medici in Italia per raccontare la sua storia
 
«Ho perso la mia figlia di quattro anni – racconta – e da allora non riesco più a riposare durante la notte, perché la mia mente è affollata da quei pensieri. La rivedo sempre mentre è costretta ad assistere alle violenze sessuali.»
 
Quello che succede in quei centri, come Bani Walid o il ghetto di Alì e tutti gli altri, non ufficiali, in mano a tribù libiche o milizie con cui abbiamo stretto accordi, è anche una nostra responsabilità.
E nemmeno possiamo farci scudo dalle organizzazioni umanitarie come l'UNHCR, visto che queste possono entrare solo in una parte dei centri.
Il libro raccoglie la testimonianza anche di Giuppa Cassarà, responsabile dell’ambulatorio Vittime di tortura del Policlinico di Palermo:
«La pressione da parte dell’Europa e dell’Italia, gli sforzi per tenere queste persone in Libia e non farle partire per l’Italia ha un effetto devastante. Noi stiamo pagando per tenerli in quell’inferno, per lasciarli nelle mani di bande di criminali,...»
 
Immagine presa da Repubblica.it
 
Sono poche le foto di questi campi: una di queste è una foto sgranata che mostra la disperazione di un ragazzo che è stato scelto per il pestaggio
 
I respingimenti veri e nascosti e la guerra alle ONG
 
La risposta italiana (e ora anche europea) alla questione dei migranti è stata quella dei respingimenti: i primi cominciati col ministro Maroni nel maggio 2009, quando una motovedetta italiana raccoglie dei migranti in mare e li riporta in Libia, con la disperazione di uno di questi, immortalata in una foto che ha fatto il giro del mondo.
 
Immagine presa da Fortress Europe e Repubblica
 
E ora, coi governi di centro sinistra prima e del governo giallo-verde di Lega e M5S siamo tornati alla stessa situazione: non ci sono più nemmeno le ONG a disturbare il lavoro delle motovedette libiche (i qui equipaggi sono stati addestrati da noi). Nessuno strapperà più uno di questi disperati dal suo destino in un centro libico, dove la tortura è la regola.
 
Anziché ai trafficanti di esseri umani, anziché ai signori della morte nei centri libici, abbiamo invece fatto la guerra alle ONG: "sono pagate da Soros, vogliono destabilizzare la nostra economia, li portano solo in Italia, sono colluse coi trafficanti, col loro lavoro contribuiscono all'arrivo di altri migranti (che nella volgata comune sono comunque clandestini, dunque criminali)."
 
Nonostante le morti in mare continuassero, come pure gli sbarchi, le indagini delle procure del sud contro le Ong sono proseguite, facendo trapelare ogni tanto qualche rivelazione ma senza mai approdare a nulla.
Io so ma non ho le prove – peccato che se questa frase può andar bene ad un intellettuale, non funziona per un procuratore che deve parlare con delle prove.
Non è emerso alcun collegamento coi trafficanti e soprattutto è stato fatto notare come l'obiettivo di queste organizzazioni è salvare vite umane, obiettivo in contrasto con quanto succede in Libia.
 
Gli ultimi capitoli ci fanno riemergere dall'orrore: sono il racconto degli eroi (e in questo caso la parola non mi sembra usata a sproposito) che lavorano per la nostra guardia costiera e che rispondono all'ammiraglio Giovanni Pettorino, sessantadue anni, comandante generale delle Capitanerie di porto italiane.
Sono marinai, devono obbedire agli ordini, anche quelli con cui sono in disaccordo (per esempio riconsegnare i profughi ai libici) e nonostante il clima sfavorevole anche per loro, hanno continuato ad uscire per mare per salvare vite umane
 
“perché quello era ed è il nostro compito, il nostro mestiere: salvare vite umane, di qualunque colore e nazionalità. È la legge del mare, la legge della solidarietà; la guardia costiera lo ha fatto e lo farà ancora.”
 
Continua l'ammiraglio Pettorino:
 
“A chi ci rimproverava il fatto che andassimo a prenderli fin sotto le loro coste (alla fine la stessa contestazione che poi è stata mossa alle ong) rispondo che, se non fossimo intervenuti, centinaia e centinaia di persone sarebbero morte”.
 
Altre storie a lieto fine quelle dei ragazzini recuperati in mare per essere accolti e curati presso “L’orfanotrofio del mare”, una struttura a Menfi, nella valle del Belice.
Sarà dura curare le ferite esterne e ancor di più quelle interne, di questi bambini cresciuti troppo in fretta e che ancora oggi sono scioccati dall'acqua dopo essere stati salvati in mare.
Bambini con cui è difficile parlare, non avendo a disposizione un traduttore.
Ma grazie al lavoro di questo centro e dell'UNHCR, hanno potuto riabbracciare i loro genitori, riannodando quei legami familiari spezzati dalla guerra, dall'emigrazione, da quel lungo viaggio di speranza.
 
Dobbiamo rassegnarci a tutto questo? L'unica possibilità, per non leggere più notizie di naufragi, sono i ponti umanitari tra l'Italia e l'Europa con i paesi africani come il Niger.
Il Niger è uno dei paesi più poveri del continente nero, ma sta accogliendo molti profughi, in entrambe le direzioni: verso la Libia, nelle fauci dei trafficanti di esseri umani ma anche dalla Libia, riportati qui grazie ai lavori di controllo delle organizzazioni umanitarie dentro i campi.
Proprio in Niger il governo Gentiloni aveva deciso di mandare una missione militare: abbiamo delegato ai militari un lavoro che tocca aspetti sui diritti civili e sociali delle persone.
Padre Mauro Armanino, un prete missionario (anche ex sindacalista) che lavoro come missionario proprio in Niger, ha espresso tutto il suo disappunto per questa scelta, sul suo blog:
 
Avrò vergogna dei poveri, dei migranti che incontro dal mio arrivo a Niamey, della Chiesa del Niger, dei contadini e degli amici della società civile coi quali lavoriamo assieme per scoprire la dignità nascosta nella sabbia della politica del Paese. Avrò vergogna di passare davanti alla nuova ambasciata del mio Paese di origine, perché le missioni di pace sono condotte da militari, con mezzi e armi. Chi scrive ha scelto di arrivare in questo Paese con le mani nude e col desiderio di camminare assieme a questo popolo che non dovrebbe essere tradito una volta di più. Sappiamo quanto contino gli interessi legati alla mobilità delle persone e in specie il piano di ritagliarsi un posto nella geopolitica del Sahel. Ciò l’ha bene ricordato il Presidente della Repubblica italiana nel presentare l’invio del contingente militare. L’Africa è al cuore dei nostri interessi strategici. Strategie militari e colonialismo sono dei sinonimi. Ecco quanto una persona mi ha scritto: “Rimpiango tutto ciò e ho vergogna di essere italiana… Sapevo bene che non sarei stato il solo”.
 
La scheda del libro sul sito di Chiarelettere
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