venerdì 17 febbraio 2017 - Marina Serafini

Navigatore esistenziale

Ho compiuto da poche ore 44 anni: un bel record, mi dico. Come ogni personcina seria, adesso dovrei fare il mio discorso di valutazione, in cui tirar le somme su quante delle mie aspirazioni, nel frattempo, si son concretizzate, di quanto vorrei ancora realizzare, di progetti, sorrisi e cotillon...

E invece no.

Io sono quella strana, la filosofa, quella che fa sempre a modo suo... La capocciona... E allora, in pieno rispetto alle suddette descrizioni che mi capita spesso di ricevere, faccio a modo mio. Niente consuntivi: solo uno sguardo in avanti! Mi sembra il modo migliore per iniziare il viaggio numero quaranticinque. O meglio: per continuare un viaggio che dura da quarantaquattro anni compiuti!

E allora sia: buon compleanno e buona continuazione! Me lo dico primariamente da sola, un pò per regalarmi allegria e un pò per consolarmi anche delle sbandate in cui mi sono imbattuta.

Per dirla tutta, i consuntivi li faccio di frequente, mica aspetto il 13 febbraio di ogni anno! quindi, il compleanno lo festeggio come un giorno da vivere, possibilmente in libertà, a modo mio. Niente eccessi, niente rituali stravaganti, niente contatti formali o necessariamente "politico-diplomatici".

Faccio quello che mi va, e me la godo. E venite a dirmi che è sbagliato.

Ho sempre ritenuto che la data del compleanno fosse una data importante, da festeggiare: si nasce una volta sola! Vero, ma si vive anche, una volta sola - almeno ad esperienza nota. Quindi avvio il tergicristalli della mia mente e tolgo un pò di memorie patinate dallo schermo: la torta piena di panna, le candeline, i sorrisi, le telefonate... Quella frase ripetuta in modo squillante (tanti auguriiii)... Tutta quella luminosità disneyana...

In realtà, quando ero piccola, ogni anno era la stessa solfa: il pranzo in famiglia, risposte cordiali ad auguri forzati, la foto di gruppo mentre spegnevo le candeline - di colore rigorosamente rosa -, il taglio della prima fetta di torta, i pacchetti da scartare.. etc etc etc.

 

I tergicristalli fanno un altro giro e, a dirla tutta, provo un pò di oppressione: una rappresentazione permanente, ripetuta, scricchiolante e falsamente morbida, eccessivamente zuccherata... Insomma: indigesta come lo sono le meringhe.

 

A poco a poco ho cominciato a rifiutare le torte e poi tutto il resto è sfumato via, verso un modo diverso di celebrare me stessa, un modo che si è esteso, al passo della mia evoluzione, al calendario intero.

 

Il Cappellaio matto raccontato da L. Carroll festeggiava i non-compleanni, e io cerco di vivere bene ogni giorno che mi trovo a percorrere: penso sia il modo migliore per onorare lo straordinario evento di una nascita. Una nascita che, nel mio caso, è iniziata alle 4.00 di un lontano mattino, ma che si rinnova di continuo nelle cose che faccio, giuste o sbagliate (per me, ovviamente, nel modo ostinato che ho di dire la mia).

Ogni azione è un inizio, lo è ogni pensiero, lo è - prima ancora - ogni immagine che produciamo o che ci viene indotta.

 

Eccola che ricomincia a parlare di sogni! Si, lo ammetto, non posso evitarlo: qualcuno dovrà pure ricordare che i sogni precedono i fatti. Una realtà che diamo un pò troppo per scontata, a tal punto dall'ignorarne le relative implicazioni.

 

Non me ne voglia l'amico borbottone, se adesso mi metto a citare la definizione che M. Heidegger dava nei suoi scritti del concetto di "autenticità". 

Lo prego di pazientare, magari sbuffando, ma di concedermi di esprimere compiutamente il mio pensiero.

 

H. sosteneva che l'uomo, questo essere storico, che accade individualmente nel qui ed ora, sperimenta se stesso in un contesto di possibilità che richiedono attuazione. Egli indicava nella nascita un evento che "getta" l'individuo in un contesto ben definito (nasciamo all'interno di una società, che è caratterizzata da una cultura propria), situato, e che viene così a sottoporre il nato all'esperienza della "inautenticità". Il termine utilizzato in lingua tedesca è Uneigentlichkeit, che contiene l'espressione eigen - qui negata dal prefisso un - che indica letteralmente il concetto di "proprio", "peculiare". Ossia, la cultura, l'educazione, la tradizione all'interno della quale esperiamo la nostra esistenza, sono acquisiti, sono impropri. Lo sforzo che ogni individuo si trova a sostenere nel corso della vita, continua il filosofo, è quello di attuare la Eigentlichkeit, ossia il proprio modo, l'autenticità. Solo così egli potrà davvero esistere, ossia disvelarsi, (exsistere).

 

E qui casca l'asino, intanto che l'amico borbottone - spinto al limite massimo della sopportazione, lo so e me ne scuso - può riprendere a respirare, perchè la domanda che emerge immediata, dopo quel gesto pensoso del capo che muove dall'alto al basso un paio di volte, con espressione accigliata, è la seguente: d'accordo, siamo individui storicamente situati, descritti come "progetti gettati in un mondo esistenziale", ossia interagiamo dinamicamente con contesti di interazioni inevitabili (l'espressione originale è tradotta solitamente con "abitare presso", in contrasto con l'idea di qualcosa che è contenuto in qualcos'altro - l'es. dell'acqua nel bicchiere), proiettati verso l'attuazione delle nostre possibilità, ed esistiamo facendo, realizzando scelte in direzione di un modo che vuole essere il più proprio.

 

Ok, fin qui ti seguo, e mi piace pure!!

.... E qual'è il criterio? Cosa mi assicura di star camminando in direzione della mia autenticità? Come convalido l'azione rispetto a ciò che viene descritto a tutti gli effetti come ciò che oggi è noto in termini di ISO ? Un Iso di natura, evidentemente...

 

La filosofia ha i suoi limiti, anche quella che si vuole opporre alla bieca metafisica. La risposta alla domanda, M. Heidegger, non la da. Il discorso percorre sentieri interrotti (è il titolo di un'opera dello stesso autore), nel senso effettivo di interruzione di ragionamento.

L'autore sostiene che la consapevolezza del nostro essere finiti - prima o poi moriremo - coincide con la consapevolezza che quella condizione sarà la possibilità che nega ulteriori possibilità (la fine dei giochi, insomma), e questo ci riporta all'urgenza di usare la vita in modo consono, ossia autentico.

 

Questa è ovviamente una non risposta ad una domanda che l'autore evita di porre.

Ma la psicologia non si risparmia l'esercizio, e individua nelle immagini oniriche l'espressione simbolica della relazione tra il nostro "proprio" (l'eigen) e il mondo (presso cui esso abita): l'Iso di natura è un nucleo, un progetto che, nel corso del suo esistere storicamente (svelarsi, manifestarsi accadendo), interagisce secondo varie modalità: alcune funzionali, altre distoniche, non utili, o anche nocive. Le immagini oniriche - come un navigatore di tutto rispetto descrivono la rotta in atto, evidenziando pericoli ed opportuntà.

 

Poi bisogna essere in grado di leggerle... E questo è un altro bel paio di maniche!

 




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