mercoledì 19 giugno - Phastidio

Il deficit eccessivo dell’Italia | Molti, maledetti e dopo le elezioni

Il governo, dopo le elezioni europee, sarà disperatamente impegnato a cercare soldi, e tanti. Novità tributarie, pensioni e spending review a parziale compensazione dei fondi PNRR appaiono parte del menù.

Le settimane e i mesi che ci attendono avranno una costante: come reperire li sordi necessari per affrontare una stretta fiscale indotta dall’ingresso dell’Italia nella procedura per deficit eccessivo, che la Commissione Ue certificherà a giugno, dopo le elezioni europee (ma ancora con la stessa compagine dell’esecutivo comunitario), e trovare non meno di 20 miliardi per confermare anche per il 2025 la decontribuzione per i redditi inferiori a 35 mila euro lordi annui.

Diciamo subito che pare che la reiterazione del primo modulo della riforma fiscale, quella che ha eliminato una aliquota, sia già coperta, grazie (si fa per dire) alla eliminazione della cosiddetta ACE, aiuto alla crescita economica, che consentiva un beneficio fiscale alle aziende che si finanziano con capitale proprio.

Per tutto il resto, inclusi i fabbisogni relativi all’avvio della direttiva Case Verdi, alla prosecuzione della riforma fiscale e a tutto quello che servirà ad esempio per aumentare la spesa per la Difesa, siamo in attesa di capire se e dove verranno trovati i soldi. Ma, si sa, le elezioni europee sono imminenti e non c’è spazio per queste ubbie da contafagioli, perché la priorità deve andare alle fiabe con cui la politica cerca di tenere tranquilli e motivati gli elettori.

FIABE ELETTORALI

Abbiamo già visto alcune di queste fiabe: quelle di Fratelli d’Italia, ad esempio, puntano su un ampliamento del budget comunitario, idea che fa letteralmente a pugni col sovranismo che si accinge -dicono-a trionfare alle Europee. Oppure all’autorizzazione a fare più deficit, che poi è la stessa cosa. Vabbè, diciamo che il sovranismo di rito italiano resta ossimoricamente sussidiato e solo un filo accattone.

Poi abbiamo visto la geniale proposta pentastellata di riduzione dell’orario di lavoro a retribuzione invariata, che scimmiotta senza averci capito alcunché la sperimentazione su base volontaria della 4DayWeek, ficcandoci dentro l’immancabile sussidio da moto perpetuo. La stessa filosofia che ci ha regalato il Superbonus oltre ai dubbi del resto del mondo sulla effettiva funzionalità del nostro pollice opponibile. Che altro? Boh, vedo che il Pd chiede una specie di SURE, il debito comune usato in pandemia per proteggere l’occupazione, da usare per ammortizzatore sociale della transizione tecnologica. Probabilità di accoglimento: meno di zero.

E poi c’è l’immaginario “MES sanitario”, chiesto a gran voce dagli ex dioscuri, Matteo Renzi e Carlo Calenda, e dalle rispettive truppe. Suggestiva, questa vicenda: il MES sanitario è terminato il 31 dicembre 2022, serviva solo per la spesa sanitaria di emergenza pandemica -quindi per definizione temporanea- e non certo per finanziare la maggiore e permanente spesa corrente, ad esempio del personale sanitario aggiuntivo assunto. Misteri, davvero. Ma forse i due ex dioscuri puntano a un MES con memorandum, per mettere sotto tutela i conti pubblici e il paese. Chi può dirlo?

A parte queste fiabe, l’Italia ha sulla testa una terribile spada di Damocle: la materializzazione del debito da Superbonus, che andrà a sommarsi alle spese di cui sopra. Che fare, quindi? Come saprete se mi seguite, ci sono due grandi ambiti “reali” di reperimento di risorse: uno è la spesa pensionistica, dove il governo Meloni ha già iniziato a pescare e dove potrebbe ulteriormente attingere usando la deindicizzazione, nuova cornucopia tricolore.

CON PIÙ ENTRATE, GIÙ LE ALIQUOTE

L’altro è l’aumento di entrate, il sogno di sempre. Attenzione, però: l’aumento di entrate, per essere virtuoso, deve essere neutrale sulla pressione fiscale, non additivo. Altrimenti, ci attende la morte per soffocamento economico. Per esempio, che faccio ormai da un quindicennio, un aumento permanente di entrate andrebbe destinato a riduzione delle aliquote nominali.

E invece? Invece, di solito tali aumenti servono per tenere sotto controllo il deficit e il debito, quindi si risolvono in una restrizione fiscale, con tutto ciò che questo comporta.

Non è quindi un caso il ritorno alla ribalta del redditometro, pur dietro le ottime intenzioni del viceministro Maurizio Leo, che voleva circoscriverne gli aspetti di inquisizione fiscale e di rovesciamento dell’onere della prova in testa al contribuente. Ma il redditometro, come ci spiega il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, è strumento residuale.

Nel senso che già oggi esistono strumenti di identificazione dei contribuenti infedeli. E il nome del gioco resta quello: interoperabilità tra banche dati. E ora pure con una spruzzata di intelligenza artificiale, che si porta con tutto. Quindi, Giorgia Meloni ha stoppato il redditometro garantista, per evitare di farsi prendere in contropiede dagli strepiti elettorali dei suoi due partner di coalizione, ma il tema dell’utilizzo delle banche dati tornerà puntuale in autunno. Gli strumenti, almeno in teoria, ci sono.

Questa situazione sta mandando ai matti la stampa di opposizione, costretta a uno spettacolare punta-tacco con cui, nei giorni pari, attacca l’esecutivo “amico degli evasori”, e in quelli dispari si mette in modalità gnegné, “denunciando” che il Grande Fratello fiscale è vivo e lotta assieme a Giorgia. Un lavoro durissimo e, soprattutto, assai logorante sul piano mentale, ma qualcuno dovrà pur farlo.

A onor del vero, questa sindrome bipolare italiana è ben diffusa anche nella maggioranza, che non manca occasione per porsi a baluardo dei poveri italiani angariati e perseguitati dal fisco, e magari buttare lì ogni tanto un condonino o equivalente, giusto per “chiudere i conti col passato”. Che, notoriamente, in Italia è sempre aperto, come una rottamazione. Ancora una volta, però, la realtà è viva e schiaffeggia maggioranza e opposizione (inclusa quella giornalistica) assieme a noi.

PIÙ PNRR, PIÙ SPENDING REVIEW

Per recuperare risorse c’è poi il versante della spesa: di quella pensionistica abbiamo detto ma non si può dire. C’è invece la tradizionale spending review, che ad esempio agli enti locali punta a chiedere “risparmi” per 1.250 milioni tra il 2024 e il 2028. L’idea di Giorgetti pare fosse quella di chiedere ai comuni di tagliare per metà della richiesta sulla spesa corrente e, per la metà restante, compensare con minori trasferimenti i fondi del PNRR.

Alcune considerazioni su questi punti. Sulla spesa corrente, bisognerebbe essere consapevoli che essa viene trascinata al rialzo dagli investimenti del PNRR. Questo punto tende a essere scordato da molti politici e osservatori. Ricordate l’esempio della spesa sanitaria: più diagnostica, meno liste d’attesa uguale maggiori assunzioni e quindi maggior spesa corrente per retribuzioni. Solo per fare un esempio tagliato grosso.

Sul taglio compensativo dei fondi PNRR, ammesso e non concesso che i comuni siano in orario nella realizzazione delle opere, è indubbio che in tal modo si ridurrebbe l’impatto moltiplicativo dei fondi europei. Sempre ammesso e non concesso che i medesimi siano stati dispiegati, s’intende. Perché bisogna tenere presente che gran parte (quasi tutte) le speranze tricolori di crescita per quest’anno e il prossimo poggiano proprio sul PNRR. Eppure dal governo italiano, e da Giorgetti in primis, si levano accorate voci che vorrebbero chiedere alla Ue un rinvio dopo il 2026 del termine di realizzazione degli investimenti. Tutto e il suo contrario, in pratica.

Ma non temete, per ora: la spending degli enti locali è stata rimessa nel cassetto, dove resterà ma solo sino a dopo le elezioni europee. A quel punto, a meno di nuovi Giorni del Giudizio (chessò, le regionali in Emilia-Romagna in autunno), i nostri eroi potranno tornare a mettere la testa sulla realtà, per tentare una funambolica quadratura del cerchio contabile. Chi vuol esser lieto sia, ché del doman (dei conti pubblici) vi è assoluta certezza.

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